Il grado zero della storia

26 Gennaio 2015

È cosa nota che nell’immaginario e nella cultura storica francesi la prima guerra mondiale occupa uno spazio privilegiato (molto più rilevante di quello occupato dalla seconda, a differenza di quanto accade in Italia). Lo dimostrano le grandi celebrazioni e commemorazioni svoltesi quest’anno Oltralpe, nel ricordo di quel 1914 in cui tutto cominciò. Queste celebrazioni, d’altra parte, hanno mostrato, come sempre accade in questi casi, che l’episodio storico commemorato è progressivamente sparito dall’orizzonte, lasciando spazio a una mole di discorsi mirati a costruire grandi architetture interpretative e vulgate (emblematicamente rappresentate da un sito dedicato proprio a ciò).

Sebbene nel 2012, al momento dell’uscita del suo romanzo dedicato alla prima guerra mondiale, Jean Echenoz non avesse ancora davanti agli occhi quella che sarebbe diventata poi la “mission centenaire”, senz’altro poteva immaginare quello che sarebbe accaduto allo scoccare della fatidica data. E così, opportunamente fuori fase rispetto alla ricorrenza, ’14 (tradotto proprio quest’anno da Adelphi) è arrivato a proporre un racconto al tempo stesso in tutto e per tutto diverso della stessa Guerra.

 

 

In poco più di cento pagine si intrecciano le storie di diversi personaggi – Anthime, Charles, Blanche, Padioleau, Bossis, Arcenel – le cui vite vengono tutte stravolte dalla guerra. Anthime e Padioleau torneranno menomati, Charles, Bossis e Arcenel non torneranno neanche, Blanche diventerà una madre vedova. Poco è lo spazio che chi racconta può dedicare a ciascuno di loro. In alcuni casi tutto, anche esperienze complesse e dolorose, si risolve in poche righe: «sono andati per le spicce. Dopo un sommario resoconto dei fatti, un’occhiata al codice per pura forma, uno sguardo scambiato fra di loro, gli ufficiali hanno votato per alzata di mano e condannato Arcenel a morte per diserzione. La sentenza era applicativa nelle ventiquattr’ore successive […]. L’esecuzione ha avuto luogo il giorno dopo nei pressi della grande fattoria di Suippe». In altri il racconto s’incaglia improvvisamente in un fatto che viene restituito con ricchezza quasi fenomenologica: «Rannicchiato sul sedile, Charles impugna la pistola con entrambe le mani per bloccarla mentre l’osservatore nemico, al contrario, orienta di continuo la canna del fucile. Quando Noblès, d’un tratto, fa impennare l’aereo nel cielo, l’Aviatik lo tallona, si insinua sotto di lui per poi virare e risalire di colpo, ottenendo così al tempo stesso che il Farman si esponga – e Charles si ritrova coperto dal suo pilota, nell’impossibilità, dunque, di agire».

Nulla però di ciò che racconta il narratore varca mai l’orizzonte visivo dei singoli personaggi (fatta eccezione per una sorprendente digressione sugli “animali della guerra”). Non c’è alcuna prospettiva storica o politica degli eventi: l’idea della guerra-lampo, formula chiave di tutti i libri di storia, si traduce nella convinzione di ciascuno che la guerra «finirà prestissimo» e nel desolante sconforto che prende ognuno nel momento in cui capisce che le cose sarebbero durate di più e che lo scontro sarebbe stato reale. E così accade ad Anthime che «Quando è stato obbligato a crederci, tutto quello che si portava addosso è diventato insostenibile».

 

Tutto è raccontato ad altezza d’uomo, perché solo umana è l’esperienza che si può avere di un evento come la guerra. Questo sembra dire Echenoz. Per questo un racconto che comincia con la mobilitazione che porterà gli entusiasti giovani di Nantes al fronte si conclude su avvenimenti che sono lontanissime conseguenze di quella guerra, ma che incidono profondamente nella cognizione che i singoli possono farsene. Solo con questo sguardo, a un tempo attento e distante da tutte le implicazioni sovrastrutturali, certi particolari possono essere riscattati dalla dimensione della curiosità macabra, per  essere restituiti alla loro tragica realtà. Come l’orchestra del reggimento che, nel primo scontro con il nemico, si presenta al fianco dei soldati con l’intento di «illustrare valorosamente l’assalto» e continua ostinata a suonare, senza una sola stonatura, anche dopo che «si è visto il braccio del baritono attraversato da un proiettile e il trombone è caduto, gravemente ferito». O come il ruolo ingrato e crudele dei gendarmi, incaricati di controllare entrate e uscite dagli accantonamenti, ma anche di controllare le retrovie durante le battaglie, per arginare i moti di panico e così «evitare che il soldato se la squagli, assicurarsi che vada a farsi ammazzare com’è suo dovere».

 

Jean Echenoz, autore altrove rapido ed estroso, conquista in questa novella un passo scandito dai tempi variabili dell’esperienza: lento quando si accorda al paesaggio imbevuto di un sole che scalda e conforta, quando ancora la guerra sembra un rapidissimo sogno di gloria; concitato quando s’immerge nel fango di Maissin e scende insieme ad Anthime e compagni nel buio delle trincee; di nuovo pacato quando, lontano dal conflitto, interviene il tempo del dolore e della perdita. Grazie a una lingua chiara e scandita (che s’intuisce nonostante la traduzione ostacoli in più punti la lettura), chi narra restituisce la guerra in una sua icastica e tragica normalità.

Tutto, ancora una volta, per sfuggire alle secche di una retorica che vuole che i “grandi eventi” siano narrati da “grandi racconti”, mentre è proprio la brevitas di questo racconto di grado zero a restituirci la storia nel suo nudo scandalo.

«Tutto questo è stato descritto migliaia di volte, e forse non vale la pena di soffermarsi su quest’opera sordida e fetida. D’altro canto, non è forse nemmeno utile, né molto sensato, paragonare la guerra a un’opera, oltretutto l’opera non ci piace un granché, anche se come quest’ultima la guerra è grandiosa, enfatica, eccessiva, piena di fastidiose lungaggini, anche se fa altrettanto rumore e spesso, alla lunga, è piuttosto noiosa».

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