Il nome segreto di Dio

7 Marzo 2012

L’influenza che la cultura ebraica ha e ha avuto nella storia dell’Occidente può apparire talvolta non completamente evidente, dispersa in un percorso millenario che affonda a ritroso fino alle sue radici religiose e sul quale si sono depositati i sedimenti del tempo come, fin quasi dalle origini, tutto il peso della cultura classica, considerata il nucleo principale della nostra civiltà.

È forse anche per queste ragioni che la Bibbia, il Libro dei libri, anche agli occhi di un lettore distratto può apparire in parte estranea, ma contemporaneamente mostrare gli strati più profondi del nostro sentire, sommovimenti del pensiero che nessuna disciplina è in grado di racchiudere, grumi di vita di fronte ai quali ci si può solo interrogare e poco importa se quei grumi di vita facciano parte del sacro o del profano.

Lontano dalla Bibbia ma sempre dentro un profondo afflato religioso, la cucina ebraica può  rivelare qualche traccia di questa lontana eredità culturale.

 

Del resto una ricetta ebraica non la si riconosce mai solo dagli ingredienti.

Il “dolce di pane e miele” non fa eccezione; è così per i datteri, nonostante il sapore del deserto e delle sue oasi; così per il miele, cibo antico per eccellenza, sull’incerto confine tra selvatico e domestico, naturalmente kasher; così per i canditi, remota arte nell’evitare la corruzione della frutta, metafora possibile della vittoria sopra ben altra corruzione…

 

Neppure una ricetta ebraica la si riconosce in base ad associazioni caratteristiche, a meno che non siano dettate da regole religiose, come il divieto di accostare latticini con la carne. In realtà sono state troppe le diaspore degli ebrei, troppe le nuove patrie vissute, le contaminazioni accettate e in qualche misura subite: manca cioè nella cucina ebraica il rapporto con una terra che sia stata madre autentica: l’ambiente e i luoghi in cui la cucina cresce, in cui il cibo è agricoltura e allevamento, consuetudini e tradizioni di quei luoghi, di quell’ambiente.

Mille sono stati i luoghi degli ebrei e ancora questa verità non basterebbe.

Ma se la terra non fu madre, di cosa altro poté impastarsi la tradizione? Difficile non pensare che smarrita la sua terra e la sua geografia, quella tradizione si sia fatta via via più immateriale, costruita sul ricordo, sulla memoria, sulla filosofia, sul rito, il verbo, il mito.

 

Se così è stato, il segno distintivo della cucina ebraica non può non essere il tempo; ingrediente invisibile impastato ad ogni cosa, eredità di una tradizione millenaria dispersa in ogni dove ma anche in ogni come possa dirsi ebreo: nella lingua, in ogni libro, in ogni diaspora, in una storia che più che in ogni altro popolo è diventata vera memoria vivente.

Come se tutto quello che la storia avesse partorito fosse stato rimasticato dal popolo ebraico e restituito condensato, essudato di milioni di uomini e migliaia di anni; tradizione sempre in movimento e senza riferimenti se non la memoria di chi è vissuto.

Una tradizione immateriale fatta di religione, di filosofia, verbo, mito, parole mai vane…

 

Normale che di tutto ciò il cibo ne sia eco, specchio più o meno fedele, testimonianza.

Così una ricetta può restituire un’immagine autentica di quella cultura, rivelando i molti strati sovrapposti e con-fusi che ne fanno parte.

Parole mai vane… l’olio, il sale e lo zucchero, ad esempio, qui non rappresentano solo gusti ma anche tre elementi in grado di conservare, preservare, proteggere dalla corruzione…

Osservazione che potrebbe non portare in nessun luogo, forzatura nell’interpretare quello che casualmente fa parte di un piatto, di un dolce.

 

Se non fosse che appena sotto s’intravede un altro strato. Sì, perché siamo di fronte a un dolce a base di pane raffermo, vale a dire l’ingrediente meno indicato per un piatto che deve sapere di piacere, di gioia. Pane raffermo, elemento che come pochi è testimonianza dei bisogni quotidiani: realtà queste ultime, il pane e il bisogno, legate a doppio filo alla vita, almeno alle origini dell’umanità sulla terra, fuori dalla perfezione dell’Eden, dentro la condanna di un presente da vivere giorno su giorno: “con il sudore del tuo volto mangerai il pane” (Genesi, 3, 19).

Parole mai vane…difficile non sospettare che il dolce di pane raffermo possa diventare altro.

 

Soprattutto se compare un altro strato: solo in apparenza lo strato dei datteri, dei fichi, del melograno, dei sapori che danno gioia: aggiunti come guarnizione, uniti come necessario completamento ad una ricetta che non sembra parlare il linguaggio della cucina e nemmeno quella della nutrizione.

I datteri, i fichi secchi e poi il melograno; non casualmente, dall’esterno all’interno sono il simbolo della prosperità, quindi dell’ abbondanza e della fecondità e infine della fertilità: dalla ricchezza materiale gradualmente alla sola ricchezza che può dirsi vitale e umana.

 

E infine le parti in cui vanno divisi i fichi e il melograno. Per la tradizione della parola, per la cabbala quattro è numero che rimanda agli elementi della Creazione, quattro come gli elementi dell’universo – l’acqua, la terra, l’aria, il fuoco – quattro come le lettere del Nome di Dio YHVH.

 

Ancora un caso lontano da ogni sapore e ogni nutrimento?

Qualunque sia il gusto del dolce di pane e miele resta il sospetto di un sapore che si rivela solo gradualmente: attraverso le molteplici scorze di un frutto, gli strati dell’esistenza, la complessità della vita e del pensiero ebraico… resta la certezza di come il cibo possa essere visto - o possa farsi - umile specchio di Dio.

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