Il piroscafo Conte di Biancamano
Bergamo, Città dei Mille nei primi anni Sessanta. La scuola non era lontana da casa ma bisognava comunque attraversare via Statuto, poi scendere lungo viale XXIV Maggio, prendere a sinistra via Mazzini e poi subito a destra via Cadorna, arrivato: Scuole Elementari “Armando Diaz”. Il maestro Angelo era un po’ manesco e anche fissato con i canti risorgimentali e ci faceva suonare sulla melodica Hohner le note della Bella Gigogin e Addio, mia bella addio, tutti e trentacinque quanti eravamo sull’attenti, in braghe corte.
Al pomeriggio, partitella nel campetto di via Diaz contro i nemici storici di via Legionari in Polonia. Tutta la seconda infanzia così, in quel quadrilatero dai toponimi patriottici. La prima raccolta di figurine, quando però abitavo ancora a Pavia, era stata quella dei garibaldini del Corriere dei Piccoli. Negli anni della Diaz, invece, erano i ragazzi di Curtatone e Montanara ad accendere la mia fantasia, quasi quanto i Tigrotti di Mompracem.
Poi la lunga marcia nell’adolescenza e la rimozione, prima, e quindi il rifiuto di quella cosa, finanche della parola. Come a quasi tutti quelli che conoscevo allora, negli anni Settanta, anche a me succedeva di non riuscire nemmeno a nominarla, la patria. E nessuno che abbia fatto o finito il militare, non si poteva proprio, al massimo partivi, facevi il Car e poi ti facevi congedare con l’infamante e ambìto Articolo 28. Per non dire che tutti si erano messi a viaggiare, come imprigionati nei propri desideri: in giro per l’Europa o verso l’Oriente, il mitico Afghanistan, l’India lontana e sognata. Tempi di cosmopolitismo fricchettone, di orizzonti vasti e cangianti, di esistenze liquide.
Ma poi si diventa grandi, si esce dal branco che nutre e tiene al caldo ogni generazione, si comincia a lavorare, si mette su famiglia, si resta parecchio più soli. E si ragiona sul passato.
La fotografia ingiallita del piroscafo Conte di Biancamano è stata scattata nell’estate del 1930: sul ponte, in mezzo a cento connazionali, riconosco la mamma e la nonna. Stanno tornando in Italia dal Rhode Island, dove la famiglia era emigrata dopo la Grande Guerra e aveva trovato lavoro in un calzaturificio; la crisi seguita al ’29 li ributta tutti verso il mare. Dopo averla osservata distrattamente per tanti anni, adesso quella foto è diventata mia e mi fa compagnia accanto allo scrittoio. La piccola Lina aveva otto anni, troverà una nuova casa in Dalmazia, a Zara, grazie alla politica di rimpatrio del regime. È a Zara che diventa maestra ma poi scoppia un’altra guerra e il suo primo marito, ufficiale medico dell’Armir, scampato alla ritirata dalla Russia, finisce sotto le bombe angloamericane mentre lavorava all’ospedale di Trento. Siamo nel ’43, a Zara non si può più stare, gli italiani vengono sfollati ma anche il nonno non ce la fa e resta sotto le macerie del rifugio, un’altra bomba inglese. Il film messo in moto da quella foto potrebbe continuare e la pellicola, nei ricordi, non smette di girare sulle migrazioni familiari successive, ma forse per questa pagina può bastare così.
A Mario Rigoni Stern, conosciuto sul set della Strada di Levi, avevo raccontato in una lettera i risvolti zaratini di questa storia e lui, un anno prima di morire, mi aveva invitato a tenere care quelle memorie, per quanto tristi, perché in esse è la nostra casa. Devo anche a lui, credo, il pensiero mio di oggi sulla patria, che non riesco ad associare a nessun luogo, ma che talvolta mi sembra di riconoscere negli scatti del tempo e nello scorrere delle stagioni.