Speciale

Parole già dette / Il primo giorno di scuola (nei secoli dei secoli)

13 Settembre 2017

C’è una commedia di Plauto che si chiama Bacchides, ossia Le due Bacchidi. Non è magari la più nota. Non è passata in proverbio come il Soldato fanfarone e non è stata imitata allo sfinimento come l’Anfitrione, che da Plauto è passato a Molière e poi a Kleist e ad altri, per finire in gloria con l’Amphitryon 38 di Giraudoux.

L’intreccio di questo testo plautino meno conosciuto di altri è quello solito: un giovane squattrinato che cerca di conquistare le grazie di una meretrice, avversato dai familiari e aiutato da uno schiavo ingegnoso e fedele. Solo un po’ più complicato del solito, perché qui di giovanotti vogliosi ce ne sono due, e due sono anche le avvenenti cortigiane, le due sorelle Bacchidi per l’appunto. I nomi dei due ragazzi sono Mnesiloco e Pistoclero.

 

E la scuola che c’entra? si chiederà forse qualcuno. C’entra, c’entra perché si dà il caso che Pistoclero abbia un pedagogo di nome Lido. E questo pedagogo a un certo punto della commedia (a partire dai vv. 423 e ss.) si produce in una lunga tirata sulla scuola. Sulla scuola del buon tempo antico. Allora, dice Lido, dovevi presentarti in palestra prima che sorgesse il sole, se no c’era caso di beccarsi una buona strigliata da parte del maestro di ginnastica. Comunque arrivavi lì, in palestra, e via con la corsa, la lotta, e lancio del disco e del giavellotto, e poi pugilato e salto. Altro che baci e bagasce! Come fa adesso il giovane Pistoclero, che frequenta solo meretrici! Se poi, continua Lido, quando leggevi un libro ne sbagliavi una sola sillaba, la cotenna ti diventava più macchiata del grembiule di una nutrice. Ossia il maestro te la faceva variegata a suon di nerbate, la cotenna, dice Lido infervorato.

 

Invece oggi, ai giorni nostri, sospira il pedagogo, un allievo anche di soli sette anni, se tu, maestro, osi correggerlo, quello ti spacca la tavoletta in testa (tabula disrumpit caput). E se vai, tu maestro, a lamentarti dal genitore, quello, che in passato ti avrebbe dato manforte e picchiato il figlio ribelle, oggi no, per nulla, anzi ti urla contro: ehi, vecchio idiota, non ti permettere di toccare il ragazzo, che ha avuto il coraggio di fare le sue azioni! (eho senex minimi preti,/ ne attingas puerum istac causa, quando fecit strenue).

 

Quante volte non si è sentito un discorso del genere?! In quanti bar?! In quante sale professori?! All’ombra di quanti portici?!

 

Quante volte non è stato declinato nelle modalità seguenti: ai miei tempi se portavi un quattro a casa, i genitori ti davano uno sberlone, oggi invece si presentano a scuola con l’avvocato?!

 

Allo stesso modo, come mi è capitato di ricordare altrove, la conclusione della satira settima di Giovenale (guadagna più un auriga del circo in un giorno che un maestro in un anno) è ripresa infinite volte, consapevolmente o meno, da tutti quelli che si lagnano del fatto che un professore in una vita intera non riesce a guadagnare quanto un calciatore con un solo ingaggio.

La scuola, di qualunque tipo, epoca o luogo, produce discorsi perennemente uguali. È una generatrice di parole che si assomigliano, nei secoli dei secoli, come gocce d’acqua. O di latte, come dicevano i Romani.

Qualche increspatura superficiale non varrà a scalfire l’immobilità degli abissi, delle acque abissali della scuola.

 

Perciò: come sono attuali le parole di Shakespeare. Quelle tratte da una similitudine incrociata del suo dramma più celebre (Romeo and Juliet): l’amore corre incontro all’amore con la felicità con cui gli scolari fuggono dai loro libri, per contro amore si separa da amore con la stessa tristezza con cui gli scolari vanno a scuola (Love goes toward love as schoolboys from their books,/But love from love, toward school with heavy looks).

 

E ancor più attuali quelle di Giorgio Manganelli, tratte dai suoi insuperati Improvvisi per macchina da scrivere: “Nella vita si fanno molti errori, tra i quali alcuni includono la nascita e tutto quello che accade da quel momento in poi. Tuttavia non vedo errore certo, irreparabile, se non nell’acconsentire ad avere un primo giorno di scuola. Da quel momento incomincia la sistematica vessazione”.

Così sia.

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