Il pulcino di Vallortigara

12 Ottobre 2023

Un senso di tenera compassione per René Descartes, Cartesio, e la sua tabula rasa si fa strada alla fine della lettura del libro. Non bastava il colpo inflitto da Antonio Damasio e altri al suo “ego cogito, ergo sum, sive existo”, che ben altre bordate al suo sistema stanno arrivando senza sosta. Inutile dire che, allo stesso tempo, si conferma ed esalta l’ammirazione per l’inimitabile anticipatore dei contenuti che mettono in discussione Cartesio, che è stato e rimane Baruch Spinoza. Perché? Il motivo è che il grande Renato Delle Carte, come lo chiamava Giovan Battista Vico, ne esce a pezzi da questo libro di Giorgio Vallortigara [Il pulcino di Kant, Adelphi, Milano 2023]. Viene da dire, finalmente! Con buona pace dei vetero-cognitivisti e di qualche filosofo della mente, tenacemente aggrappati al dualismo. Un grande sospiro di sollievo che allevia la solitudine di noi umani: non siamo soli al mondo e possiamo individuarci solo perché siamo condividui, come propone di riconoscerci e nominarci lo strepitoso neologismo di Francesco Remotti. Ovvero, non solo noi viviamo la bellissima esperienza di disporre di dotazioni naturali che sostengono la nostra capacità di conoscere, ma Giorgio Vallortigara ci propone un compagno di viaggio speciale, nientemeno che il morbido e delicato pulcino.

Molto più di qualcosa precede filogeneticamente la nostra capacità di apprendere dall’esperienza. Antecedenti evolutivi di particolare rilevanza vengono prima della nostra consapevolezza cognitiva di noi stessi e del ruolo della nostra stessa dotazione cerebrale neocorticale. Sia il titolo inglese che quello italiano del libro, seppur del tutto diversi, una volta tanto non si tradiscono a vicenda. Born knowing. Imprinting and the Origins of Knowledge, nella lingua d Shakespeare, e il titolo dell’edizione italiana sono in grado di porre in evidenza il tema centrale affrontato: l’origine della conoscenza, l’emergere del “periodo sensibile” che pone le basi per i successivi processi di apprendimento dall’esperienza. L’antropogenesi per gli umani e l’ontogenesi per ogni animale inizia con l’origine della conoscenza. Noi umani ci individuiamo mediante il riconoscimento dell’altro e lo spazio noicentrico è la casa, l’oikos della soggettività, o meglio lo diventa con l’originarsi del nostro conoscerlo e del nostro conoscere il mondo. Ma dove si situa l’origine della conoscenza? 

Da anni le ricerche di Vallortigara e del suo gruppo, al Cimec, Centro Internazionale Mente e Cervello di Rovereto, in Trentino – uno degli esempi più efficaci e salienti di cooperazione, di sviluppo di risultati e di nuove professionalità nella scienza a livello internazionale – danno contributi di particolare rilevanza per la comprensione dei meccanismi neurali della cognizione animale. Quei contributi, tra l’altro, stanno concorrendo a ridisegnare i confini tra la biologia e l’astrazione, tra corpi e conoscenza, supportando l’affermazione di un paradigma corporeo nella comprensione del comportamento e delle espressioni degli animali non umani e umani. Un aspetto cruciale di questa evoluzione dei saperi sul sistema vivente animale è il riconoscimento progressivo della caduta dei pregiudizi e delle presunzioni di superiorità della specie umana sulle altre specie. Nessuna standardizzazione o mortificazione delle distinzioni specie specifiche, ma una salutare e liberatoria messa in evidenza della rete di connessioni, di affinità, di comunanze tra le diverse specie, che abbiano piccoli o grandi cervelli e che siano mammiferi o uccelli, o appartenenti ad altre specie. Così come il rigore dell’analisi nel falsificare secoli di presunzioni sul rapporto tra homo sapiens e le altre specie viventi, o nel mettere in evidenza l’interazione circolare fra dimensione innata e ruolo dell’esperienza nella conoscenza, non cede mai alla tentazione di accreditare un determinismo meccanicistico, ponendo in evidenza la complessità del vivente. In proposito, la vocazione narrativa di Giorgio Vallortigara che, come è noto, è abbastanza incontenibile [si veda il libro con Massimiliano Parente, Lettere dalla fine del mondo, La Nave di Teseo, Milano 2021 di cui ci siamo occupati su doppiozero], riporta aneddoti ed eventi particolarmente illuminanti in questo nuovo libro. Uno di questi è la descrizione del dialogo col grande etologo Patrick Bateson, che in occasione di una delle sue visite nel laboratorio di Vallortigara, gli faceva notare, “anche con una certa ruvidezza”, come fosse poco opportuno perseverare nell’uso del termine “innato”, non ben definito dal punto di vista scientifico. “Ho cercato di adeguarmi, almeno in parte, in questo libro”, scrive Vallortigara, mostrando che allievi, per fortuna, si rimane sempre, “impiegando circonlocuzioni come ‘non appreso’ o ‘indipendentemente da esperienze specifiche’. Nondimeno, come obiettavo sempre a Pat [Bateson], e come avrete colto leggendo quel che ho scritto, per me l’uso del termine innato ha ancora un significato importante, legato al tipo di domanda che si pone uno scienziato. Certo, la strada che porta dai geni al comportamento è lunga e perigliosa: c’è un groviglio inestricabile di influenze genetiche e ambientali (e ora sappiamo anche epigenetiche) che foggia il comportamento durante lo sviluppo di un individuo”. Ecco come procede la scienza, esercitando il dubbio, stando a vedere cosa offre il caso che si studia e praticando, anche con eleganza, il conflitto estetico della conoscenza. Cosicché istinto, innato, predisposizioni biologiche e – come provammo qualche anno fa a definirli con Telmo Pievani – antecedenti evolutivi, indicano una famiglia di concetti che, mentre attendono una più precisa definizione, hanno il grande merito di aiutarci a riconoscere la nostra appartenenza filogenetica al sistema vivente e la meraviglia della nostra natura fisica e neurobiologica che produce i nostri pensieri. 

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In ventinove capitoli, brevi e di lettura attraente e agevole, questo nuovo libro di Vallortigara, apparso due anni fa in inglese per i tipi del Massachusetts Institute of Technology e ora tradotto in italiano dallo stesso autore, con revisioni e ampliamenti del testo, fa i conti con l’imprinting e l’origine della conoscenza, mediante la presentazione documentata di esperimenti propri e altrui. Uno dei pregi distintivi del testo è l’apparato di disegni dell’artista Claudia Losi, che sprigiona anche qui la sua passione per la natura e la vita, che attraversa tutta la sua opera.

Gli esperimenti in parallelo condotti con i pulcini e i bambini si propongono l’obiettivo di mostrare come, prima di qualsiasi esperienza specifica di apprendimento, siano presenti dotazioni per la conoscenza del mondo che precedono e allo stesso tempo condizionano gli apprendimenti successivi. Di fronte ai progressivi risultati di ricerca la tradizionale contrapposizione tra eredità e ambiente, tra natura e cultura, appare irrimediabilmente datata. Semmai sarebbe un importante programma di ricerca quello che si proponesse di indagare come mai persiste pervicacemente quell’orientamento dualistico che ragiona in termini di “aut-aut”, anziché finalmente preferire un orientamento “et-et”. Uno dei punti focali dell’argomentazione stringente di Vallortigara si può rinvenire, oltre che disseminata in tutto il testo, a pagina 99: “Quando si ragiona sui temi dell’origine della conoscenza è difficile liberarsi dell’argomento, in apparenza decisivo, a favore dell’empirismo, secondo cui sarebbe impossibile, anche nelle condizioni meglio controllate, essere certi che un organismo sia stato privato di ogni genere di esperienza. Verissimo. Ma il punto non è dimostrare che un qualche barlume di conoscenza è presente in assenza di qualsivoglia esperienza, bensì dimostrare che una certa specifica esperienza è necessaria perché quel barlume di conoscenza si riveli”. La ricerca di “principi primi” che non derivino da esperienze sensoriali specifiche, ma sono già predisposti nel cervello alla nascita, come ad esempio il principio per cui gli oggetti solidi occupano lo spazio in modo esclusivo, è uno dei filoni portanti del libro di Vallortigara. In proposito si apre una delle questioni di maggiore interesse per il prosieguo della ricerca. Un aspetto importante delle questioni trattate nel libro, infatti, riguarda i problemi che i capitoli aprono, come questioni su cui sviluppare ulteriori passi sperimentali. Stiamo parlando, ad esempio, della durata del cosiddetto “periodo sensibile”, di quel periodo, cioè, in cui è possibile sostenere che l’apprendimento dall’esperienza non sia ancora intervenuto come fonte di conoscenza. È stato Konrad Lorenz a pensare che l’imprinting fosse legato a un periodo sensibile, una finestra di plasticità del sistema nervoso che quando si apre consente di prendere uno stampo (imprinting, ricorda Vallortigara, viene da tedesco Prägung, che significa impronta) dal primo oggetto che si presenti ai sensi dell’animale, e che quando poche ore dopo si chiude non consente più alcuna modificazione. Secondo Vallortigara è probabile che il periodo sensibile non solo risponda a una tempistica meno rigida di quella ipotizzata da Lorenz, ma forse può essere anche prolungato di vari giorni. Ricerche recenti stanno tentando di individuare le condizioni per riaprire i periodi sensibili, consentendo nuovamente la possibilità della plasticità del sistema nervoso. Negli esseri umani vi sono diversi periodi sensibili associati allo sviluppo del linguaggio, alla percezione uditiva e altro. Non sfugge come tutto questo abbia a che fare con “la prospettiva di ringiovanire i cervelli mettendo a frutto quello che stiamo imparando sui periodi critici e i meccanismi di selezione dipendenti dal tempo”, anche se tutto questo pone non poche questioni etiche. È importante, tuttavia, considerare che, siccome nei bambini a sviluppo tipico il sistema di preferenze innate scema con lo sviluppo, nel caso di patologie come l’autismo, potrebbe essere importante intervenire durante i periodi sensibili nei quali il sistema nervoso è maggiormente predisposto al cambiamento. Questa possibilità è da porre in relazione all’ipotesi che nello sviluppo di patologie come l’autismo possa essere coinvolta un’anomalia delle predisposizioni per i segnali di animatezza presenti tipicamente nei neonati – “i mattoncini per costruire il cervello sociale”. Accanto all’ipotesi che l’autismo possa essere correlato a un deficit o a una crisi del sistema di risonanza derivante dalle dotazioni di neuroni specchio del cervello, questa ipotesi può consentire di avviare una prospettiva di conoscenza e intervento per uno dei problemi meno conosciuti e più difficili da affrontare nei disturbi e nelle patologie comportamentali.

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Sono molte le prove dell’idea che esistano in noi predisposizioni innate che agevolano il processo di imprinting, messe in campo da Vallortigara a sostegno della propria ipotesi. Nel comportamento dei pulcini, ad esempio, la preferenza per l’aspetto visivo della regione della testa e del collo di una gallina non sembra dipendere da nessuna esperienza visiva particolare o da un apprendimento per esposizione a tali stimoli. L’armamentario cerebrale per il riconoscimento delle facce è già presente dalla nascita. Tutto ciò avviene anche a dispetto della distanza filogenetica e riguarda anche i piccoli della specie umana, nonostante l’antenato comune tra uccelli e mammiferi risalga a quasi trecento milioni di anni fa. “I piccoli di entrambe le specie sono attratti da facce schematiche in cui siano riconoscibili, all’interno di un tondo, tre macchie disposte a guisa di triangolo rovesciato”, scrive l’autore riferendosi a due brillanti ricerche condotte nel suo laboratorio, insieme a O. R. Rosa-Salva, L. Regolin, T. Farroni e M. H. Johnson. Anche il rapporto con lo spazio e il movimento risultano accomunare gli animali bilateri che sono comparsi per la prima volta cinquecentocinquanta milioni di anni fa. A partire da quelli che un non dimenticato studioso come Giorgio Raimondo Cardona definiva “i sei lati del mondo”, noi non abbiamo solo un sopra e un sotto, ma anche un anteriore e un posteriore e una destra e una sinistra. Così come i pulcini, anche i piccoli di donna e di uomo mostrano una preferenza per il movimento vincolato alla direzione dell’asse antero-posteriore. Pare proprio che disponiamo, insomma, di una guida innata per l’apprendimento o, come la chiamava Lorenz, della “maestra elementare innata”. Disporre di una simile guida innata non esonera certamente il piccolo pulcino o il piccolo di homo sapiens dal dover apprendere i suoi compiti vitali, solamente facilita l’apprendimento. Così come facilita la predisposizione a riconoscere la presenza di altri esseri animati nell’ambiente: è come se avessimo dei life detectors in grado di riconoscere segnali altamente specifici, simili ai dispositivi utilizzati in occasione di calamità naturali. Ciò vale anche per le risposte a situazioni di pericolo, dove i pulcini mostrano di non aver bisogno di alcuna esperienza per manifestare in maniera spontanea risposte a uno stimolo pericoloso, che sia di sweeping (rallentamento o immobilizzazione) o di looming (fuga). Anche la reazione alle novità pare regolata da predisposizioni che precedono ogni apprendimento, con una preferenza spontanea per un grado moderato di novità e una predilezione per quello che è quasi conforme, né troppo simile, né troppo dissimile da un punto di vista genetico. Domandandosi che cosa sia disponibile nel cervello alla nascita in grado di guidarne precocemente il comportamento sociale, emerge l’evidenza della capacità, in bimbi di quattro mesi, di distinguere oggetti possibili da oggetti impossibili; capacità che si rileva anche nei pulcini, che simpaticamente Vallortigara definisce dadaisti, di preferire un cubo possibile a quello impossibile. “Non c’è, ovviamente, alcun disegno intelligente all’opera, né una qualche armonia prestabilita tra i fatti del mondo e la struttura dei cervelli. Semplicemente, lungo il corso della storia evolutiva, e con il meccanismo della selezione naturale è stata promossa l’incorporazione nei sistemi nervosi di certe regolarità statistiche che sono tipiche delle zone visive”. Nonostante la nostra spontanea propensione a credere in un’origine prima dei fenomeni e delle cose, riconosciamo qui l’operare puramente meccanico della selezione naturale che, generazione dopo generazione, ha dato forma ai cervelli con lo stampo fornito dalla struttura del mondo, fisico e sociale, che gli antenati di quei cervelli hanno abitato. “In questa memoria profonda”, conclude Vallortigara, “che ha i tempi lunghi della storia naturale e non quelli brevi dello sviluppo individuale, risiede l’origine dell’informazione, della sapienza che gli organismi posseggono come equipaggiamento di base”.

Una domanda alla fine emerge: quando comincia la vita? Se con innato intendiamo prima della nascita è un discorso, ma se consideriamo quello che accade in utero o nell’uovo diviene rilevante considerare il rapporto tra filogenesi e ontogenesi nell’apprendimento e pare importante esplorare se, anche in base agli studi sui feti umani in utero, non si possa parlare di apprendimento prima della nascita e, per i pulcini, prima della schiusa, o se non vi siano, in questo campo, differenze specie specifiche nei vertebrati, tra i mammiferi e gli ovipari. Per ora, seguendo le convincenti e validate analisi di Giorgio Vallortigara e le tracce del suo pulcino, possiamo condividere che bambini e pulcini si nasce e si diventa.

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