Il racconto di un braccialetto etrusco

18 Novembre 2023

Scintillava sotto il LED della lampada da laboratorio, a braccia mobili, progettata da un grande designer italiano, quell’oggetto forgiato più di duemila e seicento anni prima che la stessa lampada avesse visto la luce sembrava appena uscito dalla bottega orafa che lo aveva creato. Era un pezzo magnifico. A Francesca C. tremavano le mani per l’emozione. Era toccato a lei, restauratrice e microbiologa ormai esperta, ripulire il preziosissimo reperto archeologico, recentemente rinvenuto negli scavi della necropoli etrusca di Vulci. Con pazienza certosina e mano ferma, ma anche con l’aiuto di micro organismi, ne aveva pian piano liberata la superficie dalle incrostazioni di terra e di sporcizia che, nel corso dei secoli, l’avevano ammantata. Tuttavia, questi residui, avvolgendolo, come avevano fatto, in una specie di involucro protettivo avevano anche impedito alla duttilità dell’oro di cui il gioiello era composto di essere deturpato da scalfitture e, ancor peggio, da rotture. Ed ora eccolo lì, rilucere in tutto il suo splendore, come se il tempo non fosse passato, come se fosse appena stato realizzato.

Era un bracciale cilindrico in lamina d’oro, alto all’incirca dieci centimetri, con una apertura sulla superficie laterale di due centimetri, alle cui estremità due bacchette con piccole sfere apicali reggevano una catenina, garante di sicurezza. Tutta la superficie curva della lamina era fittamente decorata con la tecnica dello sbalzo e del cesello. All’interno di tre riquadri delimitati da greche geometriche a granulazione (la tipica tecnica di lavorazione orafa etrusca) erano raffigurate, ovviamente in miniatura, scene simili a quelle presenti sulle pitture parietali di molte tombe note, e, nella fattispecie, verso le estremità vi erano una scena con musici e una con danzatori, mentre al centro campeggiava quella di un banchetto: un banchetto di nozze, almeno a giudicare dalla sua festosità e dalla presenza, nei posti d’onore, di una coppia che si guardava teneramente negli occhi. Innervava la lamina una struttura interna che la irrigidiva rendendone solida la forma. Il tutto era realizzato con una precisione, una maestria e una bellezza da lasciare senza fiato.

Dopo aver esaminato un’ultima volta il suo lavoro, Francesca avvolse con cura il bracciale in un panno morbido, indi lo ripose in cassaforte. Per oggi la sua giornata di lavoro si era conclusa.

L’orologio sulla parete della stanza segnava le 20,30 e lei non si era accorta dello scorrere del tempo. Se non voleva rimanere chiusa dentro l’edificio fino all’indomani mattina, si doveva affrettare. Tra breve i guardiani avrebbero sbarrato le porte e serrati i cancelli.

Era lì, infatti, che si custodivano i gioielli che tra pochi giorni sarebbero stati esposti nella grande mostra in programma alla Fondazione Luigi Rovati, a Milano, in Corso Venezia, dedicata alla collezione Castellani, conservata a Roma, a Villa Giulia. Intitolata Tesori etruschi. La collezione Castellani tra storia e moda, la rassegna sarebbe stata visitabile dal 25 ottobre 2023 al 3 marzo 2024. 

E il suo bracciale ne avrebbe fatto parte come pezzo a sé stante.

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Esempio di due bracciali etruschi in lamina d’oro. Dalla tomba Regolini – Galassi, Cerveteri. Oro laminato e fuso decorato a sbalzo, a cesello e a granulazione, 675-650 a.C (Museo Gregoriano Etrusco, Musei Vaticani).

In Etruria, nell’anno 630 a. C. (ma questa data la conosciamo noi)

Si era al principio dell’estate e le giornate erano lunghe. Per molte di queste Larsna aveva camminato a passo spedito su di un sentiero tracciato dai pastori che dal suo pagus, arroccato, come tutti i villaggi rasna, in cima ad un’altura (quella del suo non lontana da Veio, Vei in etrusco) lo avrebbe condotto fino alla città di Velch, altrimenti nota come Vulci, dove era diretto. Nonostante i pericoli nei quali avrebbe potuto incorrere viaggiando da solo, aveva preferito non unirsi ad alcuna carovana delle tante che, percorrendo strade ben più agevoli ma più lunghe, univano periodicamente le due città dei Ρασέννας, o Rasna, come gli Etruschi definivano sé stessi. Non si fidava di nessuno. Custodiva, infatti, nel giustacuore un piccolo tesoro, una manciata di pepite d’oro che suo nonno, orafo come lui, gli aveva affidato da offrire al grande Turms, il più illustre creatore di gioielli di Vulci, quale mercede affinché lo accogliesse come apprendista nella sua bottega, permettendogli così di raffinare le conoscenze sull’arte orafa, che egli aveva appresa fin da piccolo nel laboratorio di famiglia.

Turms pose le pepite sul piatto della preziosa bilancia di precisione che aveva acquistato da un mercante fenicio. Soltanto lui ne possedeva una simile in tutta l’Etruria.

Accennò di sì con la testa. “Non mi ero sbagliato” disse rivolto a Larsna “tuo nonno è stato molto generoso, il peso di questo oro è davvero ragguardevole. Si vede che ha un’alta considerazione di me, ma soprattutto ce l’ha di te. Cosi anch’io sarò generoso. Conserverò queste pepite per tutto il tempo del tuo apprendistato presso il mio laboratorio, al suo termine te le affiderò affinché tu realizzi con esse il tuo capolavoro, senza che tu ti debba procurare l’oro per farlo. Per l’apprendistato non mi dovrai alcuna mercede. Ti insegnerò tutto quello che so nel nome dell’amicizia che mi lega a tuo nonno, con il quale ho condiviso la giovinezza. Te lo avrà detto che siamo stati apprendisti insieme e che insieme abbiamo fatto il nostro capolavoro.”

Castellani

Si girò di nuovo verso Larsna. “Ma tu lo sai che cos’è il capolavoro? No? È una sorta di prova d’esame che consiste nella realizzazione da parte dell’apprendista di un oggetto, nel nostro caso di un gioiello, che dimostri le abilità da lui raggiunte nel corso dell’apprendistato. Se supererà la prova otterrà il titolo di maestro e potrà esercitare il mestiere in proprio.

Sceglierai tu che cosa creare quando ti sentirai pronto. In genere occorrono un paio d’anni. Vedremo quanto tempo impiegherai tu.”

La vita a Vulci era molto diversa da quella che Larsna aveva trascorso nel suo villaggio d’origine. Qui non vi erano soltanto case in legno, ma anche in mattoni crudi, alle quali arrivava addirittura l’acqua portata da condutture sotterranee. Persino le acque reflue erano canalizzate e le strade, tutte lastricate, erano disposte a reticolo, a formare una maglia quadrata, dentro la quale si collocavano i vari edifici. Inoltre, l’acqua piovana veniva raccolta sui tetti delle case, in apposite cisterne. E poi c’erano laboratori per ogni tipo di attività necessaria al vivere civile: quelle di fabbri, falegnami, scalpellini, tintori, conciatori, calzolai, tessitori, vasai, orafi, armaioli, con forni e fornaci grandissime. Per non parlare del pullulare delle botteghe alimentari, dei fornai, dei beccai, dei casari, dei verdurai e poi locande e taverne ad ogni piè sospinto. Molte erano anche le botteghe degli artisti, dei pittori e degli scultori. C’erano persino un teatro, un anfiteatro e alcune palestre, mentre i templi erano concentrati nella parte alta della città. E non mancavano gli aruspici, che predicevano il futuro. Ve ne era almeno uno ad ogni crocicchio. I più rinomati si erano addirittura fatti costruire un baldacchino di legno, a proteggere sé stessi e i loro clienti dalle intemperie.

Larsna aveva passato i primi tempi frastornato da tante novità, gli piaceva soprattutto aggirarsi nella necropoli ad ammirare il lavoro dei pittori nelle tombe a camera in costruzione, destinate alle persone altolocate. Vi dipingevano delle scene molto vivaci, spesso, addirittura, allegre: banchetti, danze, concerti, rituali domestici che avevano il sapore della vita, anche se erano destinate a fare eterna compagnia ai defunti. Vi trovava ispirazione, sapeva che, prima o poi, quelle forme aggraziate e bellissime sarebbero tornate utili al suo lavoro. 

Alle sollecitazioni che gli venivano dall’esterno, si aggiungevano quelle che sperimentava quotidianamente nell’officina del suo maestro: tecniche che nemmeno sapeva esistessero, tuttavia le sue preferite restavano lo sbalzo e il cesello. In quelle non lo batteva nessuno, neppure il grande Turms. Anche se non era duttile come l’oro, si esercitava di continuo sul rame (di cui l’Etruria abbondava) e lo faceva in segreto, soprattutto di notte, quando era libero dal lavoro di bottega, al lume di una lucerna. Fortuna che aveva gli occhi buoni.

E dai e ridai, essendo per natura dotato di una eccellente manualità e di un innato senso estetico, nel giro di pochi mesi era diventato il migliore fra tutti gli apprendisti della bottega, sopravanzandoli. Con la sua costanza e la sua determinazione egli aveva bruciato le tappe, conseguendo risultati che tutti gli altri impiegavano anni a raggiungere.

Passò l’autunno e poi l’inverno, finché un bel giorno di primavera alla bottega di Turms bussò un ricco mercante di nome Vel Matuni, che commerciava in ferro e in rame ed era anche proprietario di una miniera sull’isola d’Elba, da dove estraeva quei metalli. Per di più era amico di vecchia data di Turms.

“Ma io non posso”, gli stava dicendo questi. “Sono oberato dal lavoro. Ho commesse da qui a due anni e non so se riuscirò ad evaderle tutte. Come posso realizzare il dono per tua figlia Ramtha che si sposerà alla fine di quest’estate? È im-pos-si-bi-le!” sillabò. “Mi dispiace doverti dire di no, amico mio, ma non posso fare altrimenti. Se tu fossi venuto almeno un anno fa ...” Si capiva che soffriva per non poter esaudire la sua richiesta.

Fu lì che a Larsna venne l'idea. Avrebbe fatto di tutto per dimostrare al suo maestro la propria riconoscenza per tutto quello che gli aveva insegnato ma soprattutto per l’amore che gli aveva trasmesso per il lavoro di orafo. Tuttavia, proporsi ufficialmente quale suo sostituto nella realizzazione della commessa di Vel Matuni sarebbe stato presuntuoso e per giunta irrispettoso. Doveva trovare un espediente. In fondo, si disse, una bugia detta a fin di bene non sarebbe stato un affronto.

Fu così che si inventò di voler realizzare un dono nuziale per la propria madre che, superato il periodo di lutto dopo la prematura morte di suo padre, sarebbe convolata a nuove nozze con un lucumone di nobili lombi. La nobiltà etrusca amava il lusso e provava piacere nell’esibirlo, Larsna lo sapeva bene, essendo nobile lui stesso, come attestava il suffisso gentilizio na nel suo nome.

“E il dono dovrà essere all’altezza del rango che mia madre assumerà da quel giorno in poi, quale moglie del capovillaggio” dichiarò. “Maestro, mi sento pronto per affrontare la prova del ‘capolavoro’. Se voi acconsentite, realizzerò un bracciale nuziale per mia madre. Ho già in mente le scene che vorrei riprodurvi a sbalzo: un banchetto e poi musici e danzatori.”

Rovati

Approvato questo suo progetto, Turms mantenne la promessa permettendogli di utilizzare l’oro di suo nonno. 

Soltanto ad opera compiuta, quando lesse sul volto di Turms lo stupore e l’ammirazione per il piccolo capolavoro, stavolta nel senso pieno del termine, da lui creato, Larsna gli svelò la sua vera destinazione: 

“Questo è il mio ringraziamento per tutto quello che ho appreso da voi in questi mesi, maestro” disse semplicemente sperando di non turbarlo. “Ho inciso sul bracciale il nome di Ramtha, perché è a lei che è destinato, e non a mia madre come vi avevo detto. Perdonate questa mia piccola bugia. È il dono del padre”, soggiunse “quello che Vel Matuni potrà finalmente porgere a sua figlia in occasione delle sue nozze.”

Se Turms era sorpreso, o contrariato oppure se si sentiva scavalcato, non lo diede a vedere, anzi, si mostrò commosso.

“Grazie figliolo”, gli disse quindi “ti sono debitore e con me nei tuoi confronti lo è Vel Matuni ed anche l’arte orafa. Il tuo bracciale è un oggetto magnifico. In questo caso si può proprio dire che l’allievo ha superato il maestro. Ora sei un maestro anche tu, mio caro Larsna. Se me lo permetti, ti aiuterò ad aprire una bottega tutta tua, qui a Vulci o dove vorrai tu. E sono certo che il tuo lavoro passerà alla storia.”

E così è stato, visto che anche tu stai leggendo di lui qui. 

P.S.

Mentre i protagonisti della vicenda narrata sono frutto di fantasia (come lo è la decorazione del bracciale), sono invece veritieri tutti i caratteri qui descritti della civiltà etrusca, quelli della sua religiosità, della sua economia, della sua arte, delle sue città, della sua onomastica e toponomastica, nonché della sua tradizione orafa, della quale ti invitiamo ad andare ad ammirare alcuni importanti pezzi nella mostra alla Fondazione Luigi Rovati.

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Rovati, Castellani

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