Benedetta Cibrario / Il rumore del mondo

11 Giugno 2019

Inoltrandosi nelle pagine dell’ultimo libro di Benedetta Cibrario, il lettore di romanzi – il lettore, o la lettrice – non può sfuggire alla confortante sensazione di trovarsi a casa. Il rumore del mondo (Mondadori, pp. 736, € 22) è un romanzo storico nel senso più tradizionale del termine: ci sono personaggi a tutto tondo, tratteggiati e lavorati con cura; l’io narrante segue la prospettiva ora dell’uno ora dell’altro, evitando avvicendamenti troppo bruschi; gli antefatti sono narrati con generosa chiarezza; sullo sfondo dell’azione prendono forma ambienti ben definiti, e non si fatica a indovinare che l’autrice si è documentata con appassionato impegno sull’epoca e sui luoghi di cui parla. Che sono, a proposito, sostanzialmente due: l’Inghilterra, o meglio Londra, e il Piemonte sabaudo, nel decennio 1838-1848. 

In breve, la trama. Anne Bacon, secondogenita di un ricco mercante di seta londinese, ha sposato il giovane Prospero, ufficiale e diplomatico, figlio unico del marchese Casimiro Vignon, discendente d’una delle più antiche famiglie del Piemonte. Entrambi sono cresciuti senza madre: rimasta orfana presto, Anne e la sorella erano state affidate alla premurosa e disinvolta Miss Jenkins, mentre il padre si dedicava anima e corpo al lavoro; Prospero, legatissimo alla madre Adele, era stato collocato in un collegio militare fin dall’età di nove anni per volontà del padre, legittimista, tradizionalista e ferocemente antinapoleonico – decisione che aveva provocato la rottura fra i due coniugi (Adele era tornata nella sua città natale, Ginevra, ed era morta poco prima del congedo del figlio). Dopo le nozze Anne ritarda di qualche giorno la sua partenza per Torino; durante il viaggio, in Normandia, si ammala di vaiolo. Sfugge alla morte, ma il suo viso rimane deturpato. Il padre Huntley, prevedendo che il matrimonio ne sarebbe riuscito compromesso, si dichiara pronto a farla rientrare a Londra; il marchese Casimiro, che pure aveva disapprovato le nozze del figlio, rifiuta con sdegno la proposta. Di fatto, l’unione tra Anne e Prospero sarà un guscio vuoto. Accampando pretestuosi impegni di servizio, Prospero è quasi sempre lontano, anche perché dal padre lo divide un antico rancore; più tardi si scoprirà che intrattiene una relazione con la giovane vedova Ortensia, anch’essa discendente di una nobile famiglia torinese. Afflitta e sola, rassegnata a un’esistenza diversissima da quella che s’aspettava, Anne trova inatteso conforto nella residenza estiva della famiglia, al Mandrone, nei pressi di Mondovì, dove i Vignon hanno estese proprietà terriere. Un vicino, Enrico Verra, coinvolge Casimiro in un’iniziativa imprenditoriale alla quale Anne collabora con entusiasmo, e che sulle prime è coronata da grande successo. 

 

Il lettore di romanzi storici, specialmente se si sente a casa, tende ad aspettarsi colpi di scena: che però in questo caso non ci sono. L’attrazione reciproca fra Anne ed Enrico non supera l’ostacolo della di lei onestà; il legame fra Prospero e Ortensia non dà adito a scandali, né segna la fine dell’unione (ormai solo formale) con Anne; l’incomprensione reciproca fra Prospero e il padre non divampa mai, né provoca clamorose fratture. A maggior ragione, non si verificano coups de théâtre, inopinate apparizioni di figli segreti o illegittimi, gravidanze accidentali: ogni sospetto di appendicismo o di romance è bandito dal Rumore del mondo, mentre abbondano informazioni sui costumi del tempo, sull’industria e il commercio dei tessuti, nonché sulla botanica, senile passione di Casimiro, ammirato dall’essenza rara (la Zelkowa crenata, la Quercus pyrenaica) e disposto a spendere ingenti somme per il giardino del Mandrone allo storico vivaio Burdin. In sostanza, i fatti narrati rientrano nella categoria degli eventi silenziosi e poco appariscenti, delle trasformazioni lente e verosimili: la forestiera priva di titoli nobiliari si integra gradualmente nella società piemontese; il suocero, portatore di una visione del mondo radicalmente antirivoluzionaria e preborghese, impara ad apprezzarne le virtù; il vecchio Piemonte sabaudo dà chiari segni di trasformazione, sia in economia, sia in politica. Ma l’imprevisto è dietro l’angolo. Al Mandrone un incendio fortuito distrugge il nuovo filatoio, mandando in fumo i sogni di Enrico; nel frattempo Carlo Alberto si risolve a muovere guerra all’Austria, e nella vittoriosa battaglia di Pastrengo Prospero viene ucciso. Poco dopo morirà anche Casimiro; sul destino futuro di Anne, che rimane libera, ricca e sola, non viene fornita notizia alcuna. 

 

Importanti sono le figure di contorno del romanzo. La più notevole è senza dubbio la signora Theresa Manners, che compare nel ruolo di accompagnatrice di Anne durante il trasferimento da Londra a Torino: vedova, appassionata di viaggi, dotata di buona penna, diventerà autrice di guide turistiche per un editore inglese. Altri personaggi di rilievo sono il nonno materno di Anne, Henry Cline, medico e chirurgo, osservatore spregiudicato della società contemporanea, aperto alle novità, e la devota governante Eliza, che segue Anne in Piemonte, ma abbandona il servizio per sposare, non più giovane (almeno per l’epoca), un rustico e cordiale cocchiere dei Vignon. Vale la pena di notare, inoltre, che per lunghi tratti l’io narrante cede la parola ai personaggi, riproducendo diari e carteggi. A lettura conclusa, il titolo Il rumore del mondo risulta particolarmente appropriato: anche quando non accadano drammi e catastrofi, gli eventi pubblici sono fragorosi e estranei rispetto al silenzio dell’interiorità, dove covano genuine ma fragili gioie, e tormentose, durature sofferenze. In fondo ognuno è solo, e sa di esserlo. Quanto più la rappresentazione del reale si fa concreta e circostanziata, tanto più suggerisce l’idea di un vano, inconcludente agitarsi, come il suono che si produce battendo le nocche su una cassa vuota. 

Ciò detto, occorre chiedersi quale senso può avere soffermarsi su un romanzo come questo: che per quanto ben scritto, e alla lettura gradevole, benché mai (in senso etimologico) avvincente, può risultare innocuo e – come dire? – cognitivamente statico. Non sarebbe meglio, allora, rileggere una delle sorelle Brontë? Ebbene, io credo che Il rumore del mondo possa comunque suggerire alcune osservazioni. La prima: se volessimo collocare quest’opera all’interno di una visione sistemica della letteratura, non potremmo che collocarla in una fascia media.

 

 

Ma il termine «medio» ha valore solo se si rifugge dalla vieta semplificazione ternaria (alto/medio/basso), dalla quale possono discendere solo due orientamenti estetici, ideologicamente opposti e simmetricamente sterili: da un lato la svalutazione di tutto ciò che sa di programmaticamente non-sperimentale, di quieto e acquisito mainstream, di middlebrow, dall’altro la celebrazione di un’aurea medietas, rispetto alla quale ogni progetto innovativo viene degradato a voga effimera, buona giusto per sfaccendate élites intellettuali. In altri termini, ragionando di letteratura contemporanea un’imputazione di medietà può diventare utile solo evitando di sottintendere che quanto sta «in mezzo» sia uniforme, equipollente, omogeneizzato o predigerito.  

Seconda osservazione: Il rumore del mondo non sarà un capolavoro, ma ha il merito di tener viva una tradizione romanzesca dalla quale potranno (perché no?) sortire capolavori futuri. Se un giorno in Italia qualcuno saprà scrivere un grande romanzo di matrice (non dirò di scuola) manzoniana, insomma un romanzo storico di qualità eccelsa – e sarà forse uno scrittore o una scrittrice dal cognome non italiano – sarà anche grazie a libri come questo: non perché a costei o a costui non possa bastare la conoscenza delle pietre miliari del genere, ma perché nel frattempo il pubblico dei lettori di romanzi avrà continuato a esistere, a dispetto dei trionfi della civiltà visuale, digitale e transmediale (o meglio, semplicemente, all’interno di essa). Infine, la rilevanza e la memorabilità di un’opera letteraria non dipende tanto dalla sua ipotetica ubicazione in un’astratta tassonomia, quanto dalla sua capacità di far breccia nella coscienza individuale dei singoli lettori. Da questo punto di vista un discrimine decisivo è costituito dalla capacità di creare personaggi; e qui la Cibrario ha più d’una parola da dire.

 

Un personaggio almeno del Rumore del mondo è difficile da dimenticare. Non parlo della sfortunata e umbratile protagonista, Anne Bacon, né dell’energica e dinamica signora Manners, due figure nelle quali l’autrice, piemontese dal cognome risorgimentale emigrata da parecchi anni a Londra, avrà riversato buona parte della propria esperienza, e forse del proprio temperamento. Mi riferisco invece al suocero, il vecchio marchese Casimiro, che da quarant’anni porta in tasca una pallottola con tracce di sangue disseccato. Da quella pallottola era stato colpito nella battaglia del Brichetto, presso Mondovì, all’epoca della prima campagna d’Italia di Napoleone. Dalla ferita era guarito; immedicata rimane invece la lesione morale. Infatti, anche se nessuno se n’era accorto, quel proiettile l’aveva colpito non mentre stava difendendo la posizione, come egli poi avrebbe raccontato, bensì mentre stava scappando. Di qui la sua ostinazione a imporre al figlio una rigida educazione militare, contraria alla sua indole. Il figlio era poi diventato davvero quello che lui gli aveva imposto di essere, cioè un ufficiale zelante e disciplinato, devoto alla monarchia, che perpetua la visione e i limiti della vecchia aristocrazia sabauda: l’unico suo gesto effettivo di ribellione consiste nello scegliersi una moglie borghese e straniera, cosa di cui si pente quasi subito, e non solo perché la deliziosa e spigliata inglesina conosciuta a Londra si trova poco dopo le nozze con il viso butterato dal vaiolo. Quando Casimiro si rende conto di avere sbagliato i calcoli, è troppo tardi per rimediare, anche al netto della sua padronale resistenza a riconoscere gli errori. Mentre, paradossalmente, è proprio lui ad accettare alcuni aspetti della modernità – dall’inattesa sintonia con Anne agli investimenti finanziari nel ramo tessile – il figlio affronta nel 1848 un cimento simile a quello da lui vissuto nel 1796. Casimiro gli consegna la pallottola, e gli confessa come erano andate veramente le cose. Ma il cimelio non diventa un amuleto. Prospero dimostra di avere il coraggio che era mancato al padre, e così è sancita l’estinzione del casato. 

 

In questo motivo, di sapore vagamente conradiano, mi pare consista l’elemento di maggior efficacia del romanzo della Cibrario. E, certo non a caso, è anche la principale connessione tra la vicenda inventata e la dimensione della storia, dove il rilievo maggiore – fantasma di Napoleone a parte – tocca all’amletica figura di Carlo Alberto. Essere all’altezza di un compito che non si è scelto, e che nel proprio intimo, forse, si rifiuta: questo è il problema. D’acchito parrebbe una questione poco attuale; anzi, diciamo pure anacronistica. Ma il lettore e la lettrice di romanzi sanno bene che non è saggio fermarsi alla superficie; specialmente quando ci si sente a casa. È a casa – at home – che si cela l’Unheimlich.

Infine, non si può parlare di un romanzo storico senza dire almeno una parola sull’epoca in cui la storia è ambientata. Il decennio 1838-48 ha poco risalto nella memoria collettiva, specialmente rispetto al successivo, in cui si realizza l’unificazione nazionale: è un’epoca di transizione, fra Restaurazione e Risorgimento. Ma nel Rumore del mondo di politica si parla complessivamente poco. Molto maggiore spazio è dedicato agli albori di un’era nuova sul piano economico e sociale: l’industrializzazione delle manifatture, l’illuminazione a gas, l’incipiente rivoluzione dei trasporti. Ovviamente, la parte del leone spetta alla seta (Anne a un certo punto pensa a sé stessa come a una «figlia della seta»). Valga per tutti l’elenco declinato da un entusiasta Huntley Bacon al genero (per parte sua affatto disinteressato), durante il ricevimento nuziale. «La seta è dappertutto: cappellini, vestiti, cravatte, tube, panciotti, fazzoletti, gale, nastri, fodere di divani e poltrone, tappezzerie, tendaggi, bottoni, guanti. E ancora non basta: sono di seta le fodere dei bauli e delle valigie, i baldacchini dei letti, le camiciole dei neonati e il rivestimento delle culle; i cuscini delle carrozze. Le scarpe, le pantofole, gli scialli. Le vesti da camera e da notte. I paralumi, i tappeti, i ventagli». Un romanzo, storico o no, è fatto anche di cose. E può apprezzarlo anche chi, come il sottoscritto, sa che non imparerà mai la differenza fra l’organzino e i velluti di Genova e di Scozia, né mai ricorderà cosa sia il raso operato. 

 

Benedetta Cibrario, Il rumore del mondo (Mondadori, pp. 736, € 22).

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