Ironia e ucronia. Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti
“Però un rito è un rito, deve essere sempre lo stesso sennò poi va tutto male”. Per il regista quasi settantenne Giovanni rivedere Lola (1961), il film di Jacques Demy con Anouk Aimée, sul divano di casa, insieme a moglie e figlia, con la stessa copertina di sempre e il gelato, è un rito propiziatorio per la riuscita del film che sta per iniziare a girare.
La dimensione rituale è una variabile molto importante, se pensiamo che quel regista, Giovanni, è Nanni Moretti stesso nei primi minuti di Il sol dell’avvenire. Anche l’uscita di un nuovo film di Nanni Moretti potrebbe essere definita una sorta di rito, per i moltissimi appassionati e gli altrettanti detrattori, con tanto di precisa liturgia di interviste e recensioni in cui si parla poco del film e molto di tutto il resto, e più di tutto dell’io (ipertrofico) di chi ne sta scrivendo.
Moretti lo sa bene e, pur ironizzando sulla propria volontà di compiacere il pubblico, stavolta ha compiuto qualcosa che ha tutto il sapore di un’operazione nostalgia. Che sia dettata, come mi ha suggerito un amico che la sa più lunga di me, da un run for cover alla Hitchcock – un ritorno, per così dire, a più miti consigli dopo l’interlocutorio Tre piani (e gli incassi al botteghino in questo senso parlano chiaro) – o da una volontà di mettere un punto “alla prima parte della mia carriera”, come lo stesso regista ha ammesso sorridendo in più di un’intervista, non si può negare che in questo film ci sia molto più che un occhiolino ai fan di vecchia data. Soprattutto, che ci sia un lavoro di rielaborazione su quanto fatto in precedenza, con quella commistione di autoindulgenza, idiosincrasie, ossessioni e gusto per il nonsense che hanno reso Moretti un regista di culto per più di una generazione.
Nell’incipit di Lola, il film che il protagonista cerca invano di rivedere in compagnia di moglie e figlia, campeggia un proverbio cinese che tradotto in francese suona così: pleure qui peut, rit qui veut, ovvero “piange chi può, ride chi vuole”. E con Il sol dell’avvenire Moretti sembra appunto confermarsi saldamente fra i registi che meglio sanno utilizzare il cinema per piangere e ridere della propria vita e della propria carriera, delle sorti del cinema, della politica, della società contemporanea. Facendo piangere e ridere anche noi.
Piangere e ridere insieme. Siamo forse dalle parti della migliore commedia all’italiana? Ma chi avrebbe avuto il coraggio di dire, al giovane e sghignazzante Moretti intervenuto nel 1977 a Match, che anche lui un giorno si sarebbe ritrovato seduto dalla parte di Monicelli perché tutti gli altri posti erano occupati?
Secondo un procedimento presente in altri film morettiani (Sogni d’oro, Aprile, Il caimano, Mia madre), la mise-en-abyme vede il regista Giovanni/Moretti alle prese con un film politico sulla reazione di una piccola sezione del PCI nella periferia romana alla rivolta ungherese del 1956, stroncata dalle truppe dell’Unione Sovietica: un momento che storicamente ha cambiato (in peggio?) le sorti della sinistra italiana. Giovanni è convinto che si tratti di un film politico, ma – come gli fa notare la sua insolente protagonista femminile Vera (Barbora Bobulova) – in realtà si tratta di un film d’amore.
Più ci addentriamo nel reticolo di storie che si intrecciano a quella della realizzazione del film e più prendiamo coscienza del fatto che Giovanni è pieno di convinzioni che si rivelano completamente scollate dalla realtà: sua moglie Paola (Margherita Buy) dopo quarant’anni di matrimonio è andata in analisi per decidersi finalmente a lasciarlo; sua figlia Emma (Valentina Romani) si è fidanzata con un uomo molto più anziano (Jerzy Stuhr), attaché dell’ambasciata polacca (!); i suoi attori improvvisano le battute e pretendono di saperne più di lui sul film. Anche le modalità produttive sono cambiate, incalzate dai ritmi veloci delle piattaforme che in 190 Paesi (“cento-novanta-Paesi”) spacciano storie costruite a tavolino secondo criteri preconfezionati, designati da altrettanti termini grottescamente anglofoni.
Se c’è una costante nell’opera di Moretti, è quel rifiuto “categorico, bartlebyano, doloroso e allo stesso tempo rassicurante da osservare” (come hanno scritto Elisa Cuter e Gabriele Gimmelli qui su “doppiozero”); il rifiuto di adattarsi o conformarsi a un mondo che ha deciso che non gli piace. Eppure, in questo Sol dell’avvenire comincia forse a dare qualche segnale di cedimento.
E allora Giovanni vorrebbe girare un film su cinquant’anni d’amore di una coppia ripercorsi attraverso le canzoni italiane; riflette sul fatto che il suo prossimo film, tratto dal racconto Il nuotatore di John Cheever, avrebbe dovuto girarlo molti anni fa, quando era più in forma; tiene in scacco per ore la troupe di un regista giovane e superficiale che deve girare l’ultimo ciak di un film pieno di violenza gratuita, in cui l’inquadratura è tutto fuorché “una questione morale”, per poi allontanarsi sconfitto dal set mentre alle sue spalle brindano alla fine delle riprese.
Moretti torna a Fellini, che nel 1993 lo definì “un giovane Savonarola” (mentre lui si definiva “vecchio Papa corrotto”), e sembra accogliere il suo invito a rifugiarsi nei sogni e in tutto il côté che si portano dietro, dall’immaginario del circo ai mestieranti del cinema, dalle musichette fino all’ammirazione per la bellezza e la concretezza delle donne, più capaci di affrontare la complessità dell’esistenza tenendo insieme il reale e l’utopia. Insomma, anche per uno che ha sempre avuto “voglia di prendersela con qualcuno”, alla fine litigare stanca.
Mai come stavolta la crisi si rivela profonda e personale: il film che Giovanni gira dovrebbe finire con il suicidio del protagonista, l’intellettuale e integerrimo caporedattore dell’“Unità” e segretario di sezione, diviso fra le direttive del partito e una responsabilità morale schiacciante (Silvio Orlando). Che sia un altro rimando a Fellini e al suicidio di Steiner nella Dolce vita (del quale vediamo proiettate nel film alcune inquadrature), o una sorta di doppio del finale di San Michele aveva un gallo dei fratelli Taviani (esplicitamente citato in un dialogo), si tratta di una prospettiva che giustamente terrorizza. “Calvino diceva che Pavese si è suicidato perché noi imparassimo a vivere”, mormora Giovanni mentre si mette al collo il cappio destinato al suo attore, in quella che è probabilmente la scena più bella di tutto il film.
Ma poi – che sia perché, come cantava Battiato in Breve invito a rinviare il suicidio, questa parvenza di vita lo ha reso inutile, o perché, come diceva Frank Capra, la vita in fondo è meravigliosa – il regista rinuncia, accogliendo invece la possibilità, data unicamente dalla finzione cinematografica, di riscrivere la Storia con i “se”.
In un saggio di qualche anno fa che mi sembra ancora molto utile per affrontare la contemporaneità, Miguel Benasayag e Gérard Schmit scrivevano che viviamo nell’Epoca delle passioni tristi. Il futuro-promessa che animava la fede nel sol dell’avvenire dei coetanei di Moretti si è trasformato in un futuro-minaccia che ci fa sentire impotenti e disgregati. Se nel finale di Palombella Rossa (il film del 1989 in cui faceva la sua ultima apparizione l’alter ego Michele Apicella), un sole rosso di cartone sorgeva sulla collina, qui siamo davanti a un sol dell’avvenuto, un futuro che è passato e di cui purtroppo ci siamo accorti.
La tentazione sarebbe di cedere a queste passioni tristi, di mostrare i denti a un presente che tenta in ogni modo di spingerci alla versione peggiore di noi. La misura del nostro rifiuto alla disumanizzazione è data proprio dallo sforzo di trovare in ogni modo possibile nuovi spazi, nuovi modi di resistere alla spinta distruttiva, perché, come ci avvertono Benasayag e Schmit, “resistere è creare”.
Ed è in questa parola resistenza, che è a tutti gli effetti una parola politica, straordinariamente bella e carica di significato, che mi sembra che trovi consistenza il finale del Sol dell’avvenire. Resistenza come immaginazione gioiosa, come capacità di sognare che, almeno al cinema, qualunque storia possa avere un altro finale; e dunque il cinema come luogo possibile di creazione di magia e l’amore – quello collettivo, anche se ristretto a quella minoranza di persone in cui abbiamo scelto di credere – come rifugio e forza che ci fa andare avanti. Quel finale, smaccatamente felliniano ma che ha anche qualcosa del Bertolucci di Novecento, è una marcia non più verso un avvenire radioso (così suona il titolo francese del film: come al solito Oltralpe hanno titoli, e manifesti, più acuti dei nostri), ma verso un ignoto che fa meno paura se affrontato insieme, chiamando a raccolta gli affetti più cari e i ricordi più belli. Non a caso, e malgrado un sospetto di amara ironia, l’ultima parola del cartello che chiude il film prima dei titoli di coda, è “felici”.
Che il suo non sia certo un film sovversivo ce lo dice Moretti per primo, rispondendo al produttore Pierre (Mathieu Amalric), durante un giro in una Roma notturna in cui la Vespa di Caro diario è beffardamente sostituita da un monopattino elettrico. Anzi, è un film che ripiega su quei momenti di gioia un po’ folle, un po’ disperata, che riusciamo ancora a strappare in una vita che oscilla come un pendolo tra la crema per il viso e gli antidepressivi; quei momenti in cui riusciamo a vederci danzare e in cui abbiamo voglia di cantare, anche se sono solo parole. Momenti di sospensione e allo stesso tempo di scioglimento della tensione che sono sempre stati topici del suo modo di fare film, ma che ora sembrano diventare ancora più forti, ancora più indispensabili.
Pare che il premio Nobel Iosif Brodskij fosse solito rispondere a chi gli chiedeva quale fosse il ruolo dell’intellettuale: “Scrivere delle cose belle”. E allora eccolo, Nanni Moretti, regista, che ancora una volta ci fa amare il cinema quanto lo ama lui, perché al cinema sono ancora possibili “le cose belle”.