Boris 4. Una stagione postuma

8 Dicembre 2022

Quando qualcuno che abbiamo molto amato se ne va, da un lato soffriamo per la sua mancanza e dall’altro ci sentiamo degli impostori ad andare avanti. I meccanismi per processare questa assenza variano a seconda dell’evento che l’ha scatenata, fino ad assumere la forma dell’elaborazione del lutto.

Da qui mi sembra utile partire per riflettere sugli equilibri in gioco nella quarta stagione di Boris, appena uscita per Disney +. Un evento molto atteso, favoleggiato, temuto, addirittura, dai numerosissimi fan della serie scritta da Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo. Quelli della prima ora (invero pochini), che c’erano già nel 2007, nel 2008 e nel 2010, rispettivi anni di uscita delle tre stagioni sul canale satellitare Fox; i moltissimi che negli anni successivi l’hanno vista sottobanco, sostenuta dal passaparola e da un tam tam senza precedenti in Italia per una serie tv; infine gli abbonati di Netflix, che nel 2020, in piena chiusura pandemica, hanno potuto ricostruire la storia di situazioni, battute e personaggi intravisti fino a quel momento soltanto per frammenti su YouTube o attraverso i social. A questo proposito, giusto per dare un’idea delle dimensioni del fenomeno, la pagina Facebook “Gli Occhi del Conte”, che pubblica esclusivamente meme ispirati alla serie, conta attualmente oltre 39.000 followers, ai quali vanno aggiunti altri 18.000 utenti per il relativo profilo Instagram.

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Il cast della terza stagione (2010).

Le possibilità di assistere a una nuova stagione di Boris – dopo il divertente ma molto meno graffiante lungometraggio del 2011, scritto e diretto dagli stessi ideatori della serie – sembravano definitivamente tramontate nel 2019 con la morte di Mattia Torre al termine di una lunga malattia; una parte della quale, peraltro, raccontata con il consueto humour in La linea verticale, nel 2017 romanzo per Baldini&Castoldi e poi, l’anno successivo, serie tv per RaiPlay con Valerio Mastandrea protagonista. 

Ecco quindi perché, per tornare a quello che si diceva all’inizio, quando qualcuno che abbiamo molto amato se ne va – e che Torre fosse un amico, oltre che un collega, amatissimo, è un dato che emerge da qualsiasi intervista con chi abbia lavorato con lui nel corso degli anni – fatichiamo a immaginare che le cose possano andare avanti senza di lui. Soprattutto una serie come questa, che portava impressa così forte la firma della sua peculiare ironia, capace di adoperare la satira metatelevisiva per raccontare l’Italia tutta.

Ma è proprio da questo vuoto impossibile da colmare e da rimuovere, che sono partiti gli sceneggiatori “superstiti” Ciarrapico e Vendruscolo: un’intuizione brillante suggerita, hanno raccontato in un’intervista per Rivista Studio, da Lorenzo Mieli, produttore della serie per The Apartment. 

In una società come la nostra, che con la morte ha un rapporto strano, tra il tabù e la scaramanzia, aprire questa quarta stagione di Boris con un funerale e un fantasma è una scelta abbastanza audace ma del tutto convincente. Un modo garbato e commovente di salutare Roberta Fiorentini (l’indimenticabile Itala, segretaria di edizione del regista René Ferretti) anche lei scomparsa nel 2019, e di mettere letteralmente in scena l’assenza di Mattia Torre, incarnato dal suo alter ego Valerio Aprea. “Com’è l’inferno, collega?” chiedono gli altri due sceneggiatori, interpretati da Massimo De Lorenzo e Andrea Sartoretti. “Non è male, è pieno di quarte stagioni”, risponde il fantasma di Torre/Aprea prima di scomparire, fugando ogni dubbio sulla sua identità. 

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Valerio Aprea.

Per questo, malgrado la scrittura qua e là fin troppo sgangherata – qualcuno direbbe a cazzo de cane – anche quest’ultima stagione conferma quelle caratteristiche che, almeno in Italia, hanno fatto di Boris la meta-serie di culto per eccellenza: non soltanto la ripresa graffiante, talvolta quasi profetica, dell’attualità nostrana con le sue storture e contraddizioni; ma anche le dinamiche che possono crearsi all’interno della squadra che sta lavorando alla serie stessa, in un gioco di rimandi tra finzione e realtà.

Le piattaforme hanno sostanzialmente sostituito la televisione, almeno per quanto riguarda il consumo di serie tv. Non per nulla, questa quarta stagione di Boris viene distribuita da Disney +, mentre la banda di attori e maestranze, che avevamo lasciato sul set de Gli occhi del cuore, soap opera stile Incantesimo per un’azienda televisiva lottizzata e corrotta (“La Rete”, molto simile alla RAI), è ora alle prese con una Piattaforma che ragiona per algoritmi e con tutto un nuovo sistema valoriale ispirato a concetti come diversity e inclusivity, che i nostri, del tutto impreparati, declinano inevitabilmente in chiave grottesca.

Alessandro (Alessandro Tiberi), lo stagista costretto a firmare nella prima stagione un finto contratto – “Ma quali contratti? Passione ci vuole, passione!” – è ora diventato responsabile della piattaforma, galoppino un po’ untuoso e filisteo della executive Allison (Emma Lo Bianco) che tutto vede, tutto sa e tutto giudica, in una infinita sequenza di velocissime call condotte mentre è intenta a compiere qualunque attività in giro per il mondo. 

“Sono bolsi”, dice, presentandole i suoi ex colleghi e strizzando l’occhio allo spettatore. Che dodici anni siano passati, dentro e fuori dalla serie è innegabile: abbiamo “gli anni che abbiamo”, verrebbe da dire citando Corinna Negri (Carolina Crescentini). E ce li sentiamo tutti. 

L’attrice di punta di Gli occhi del cuore ha sposato il suo co-protagonista Stanis La Rochelle (Pietro Sermonti), ha fondato con lui la società di produzione So Not Italian Production e a forza di fare calcoli a mente ha imparato a recitare un po’ meno peggio e anche a destreggiarsi con la contabilità. E verrebbe quasi da chiedersi se la riabilitazione di quella che è passata alla storia come la “cagna maledetta” sia semplicemente l’evoluzione di un personaggio particolarmente bistrattato, un ripensamento al passo coi tempi, se non addirittura una policy della piattaforma. 

In un clima da riunione di ex compagni di scuola, i due hanno radunato la vecchia troupe, sceneggiatori compresi, per girare una improbabile Vita di Gesù di cui Stanis è, a tratti schizofrenicamente, sia produttore che attore protagonista. Ci sono proprio tutti, sempre a galla e inesorabilmente boomer: dal produttore Lopez (Antonio Catania) eterno maneggione ora in contatto con la malavita calabrese, a Biascica (Paolo Calabresi) confuso e imbrigliato da un codice comportamentale che impone desinenze gender free e che scambia – ma sarà stato un errore? – una stropicciatina agli occhi per insulto razzista. Né mancano gli attori “secondari”, su cui giganteggia l’ex mistico Mariano Giusti, ora passato al fanatismo armato (un sempre straordinario Corrado Guzzanti).

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il cast della quarta stagione (fonte: Repubblica.it).

Sono tutti dalla parte del torto, indifendibili nella loro incapacità di adeguarsi ai tempi e nell’attaccamento a quella che Biascica chiama “la vecchia poesia del set”, fatta di sfruttamento e basata sulla legge del più forte; eppure li ritroviamo con gioia, gattopardi a guardia del motto “tutto cambi perché nulla cambi”. E ci stanno simpatici, molto più simpatici delle nuove leve, più consapevoli dei loro diritti – la videomaker responsabile del backstage (Astrid Casali), che sa difendersi dalle ingerenze della produzione nel suo lavoro (non pagato) e nella sua vita privata – ma anche più pavide, come la nuova segretaria di edizione (Nina Torresi) che scappa dal set terrorizzata alla vista di una pistola, o semplicemente un po’ più paracule, come l’assistente Lalla (Aurora Calabresi) che bordeggia fra le avances non richieste di una giovane comparsa e la fedeltà ai capi. 

Personaggi dimenticabili, d’altronde, e poco approfonditi. Colpa senz’altro dell’esigua quantità di spazio a disposizione (appena otto puntate di poco più di mezz’ora l’una); ma anche, forse, di quell’aria di sdegnosa sufficienza con cui la generazione dei cinquanta-sessantenni guarda in genere ai millennials, dall’alto di posizioni di potere che, anche e soprattutto nella realtà, non è minimamente disposta a mettere in discussione. 

Ben diverso è invece il caso di René Ferretti (Francesco Pannofino), che qui vede il suo grido di battaglia “Dai dai dai!” trasformarsi in un “Die die die!” molto più in linea con il coté funebre della nuova stagione. Vittima del complesso tutto italiano del “Re Mida al contrario”, il nostro eroe ha finalmente l’occasione irripetibile di realizzare qualcosa di bello, grazie al suggerimento “prensile” del ben più cinico regista e amico Glauco (Giorgio Tirabassi). Seguendo un ragionamento preso in prestito dal Borges di Tre versioni di Giuda, René si convince che solo chi ama totalmente qualcuno può avere il coraggio di tradirlo, e dunque rischia tutto, “rubando” il girato e montandolo in modo che il molto più bravo Tatti Barletta/Giuda (Edoardo Pesce) prenda il posto dell’improponibile Gesù/Stanis e che la paventata miniserie Gli occhi del cuore sacro di Gesù si trasformi nel bellissimo lungometraggio Io Giuda. A salvarlo dall’ira della Piattaforma e dalla galera sarà ovviamente un pizzico di locura: perché questo è pur sempre “un Paese di musichette mentre fuori c’è la morte”

“Ci sono due tipi di pazzi: quelli che si credono Napoleone e quelli che vogliono cambiare la televisione italiana”, dice René ai capi della Piattaforma che lo hanno finalmente stanato. Ci vuole un grande rispetto, un grande amore, per misurarsi con la memoria di qualcuno che la televisione italiana l’ha cambiata davvero e che oggi non c’è più. Bisogna correre il rischio di tradirlo, tenendo sempre a mente che la radice del verbo è la stessa che indica la traduzione: consegnare agli altri qualcosa perché possa essere, ancora una volta, goduto da tutti.  

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