Lenù a Cinecittà. Finalmente l'Alba

14 Marzo 2024

Mettersi alla prova con i film che hanno segnato un’epoca, entrando nell’immaginario anche della posterità, è evidentemente, per un regista di solida esperienza, un richiamo irresistibile. Presuppone una volontà di emulazione che siamo disposti sempre a perdonare, perlomeno nelle intenzioni, ma i cui esiti lasciano spesso perplessi, freddi, se non addirittura imbarazzati.

Il pubblico non ha premiato Finalmente l’Alba, ultima fatica registica di Saverio Costanzo, che dopo un mesto debutto al botteghino (appena 241.000 euro nei primi cinque giorni di programmazione, secondo i dati Cinetel), è rapidamente uscito dalla classifica dei primi dieci incassi. E non è difficile capire il perché: Finalmente l’Alba (con la “A” rigorosamente maiuscola: così vuole il regista) riesce a schivare l’imbarazzo ma non la sensazione di aver assistito a un esercizio di stile con molto (troppo) esercizio, un oggetto cinematografico che voleva essere un omaggio, ma resta un bozzetto piuttosto oleografico che sbiadisce al confronto coi modelli (altissimi) a cui si rifà. 

Costanzo sogna in grande, a partire dalla durata (140 minuti, ridotti agli attuali 119 dopo la presentazione a Venezia). Grazie a un budget di quasi trenta milioni di euro, Finalmente l’Alba è stato girato in pellicola 35 mm a Cinecittà, con un cast importante e contributi tecnici di rilievo (in primis il direttore della fotografia Sayombhu Mukdeeprom, già collaboratore di Apichatpong Weerasethakul e di Luca Guadagnino).

Ph. Eduardo Castaldo

Sarà capitato a tanti di fare quel gioco che consiste nell’immaginare un classico conclamato girato da un regista dalle caratteristiche altrettanto riconoscibili. Come sarebbero uno Shining girato da Wes Anderson, un Grand Budapest Hotel partorito dalla mente di David Lynch o un Pulp Fiction firmato Wong Kar Wai? Finalmente l’Alba potrebbe rispondere alla domanda: “Come sarebbe La dolce vita di Fellini se fosse girata dal regista de L’amica geniale?”. Dopo aver traghettato con perizia l’amatissimo best seller di Elena Ferrante in una serie TV co-prodotta da Italia e USA, Costanzo sembra immaginare qui una sorta di “notte brava” di Lenuccia Greco. 

Mimosa (Rebecca Antonaci), ragazza pudica e un po’ naïf, una sorta di equivalente romano della protagonista de L’amica geniale, vive il sogno di una notte fra le stelle della Hollywood sul Tevere degli anni '50. D’altronde, quello di lavorare nel cinema e magari di essere notata fra le comparse che tutti i giorni affollavano Cinecittà (non manca qui un’esplicita citazione di Visconti e il suo Bellissima), era all’epoca il sogno di un po’ tutte le ragazze. Ed era il sogno anche di quella che è poi diventata il triste simbolo di molte di loro: Wilma Montesi.

Il gioco di specchi fra la vita (e la morte) di Wilma e quella di Mimosa, su cui si basa Finalmente l’Alba, recupera un sentimento dell’epoca, l’accensione della morbosa fantasia di giornalisti e lettori su un caso di cronaca nera – uno dei primi, dopo che la censura imposta dal fascismo aveva proibito la diffusione di simili notizie – che andava a svelare un mondo torbido di ricchezza e glamour, ma anche di droga, orge, sfrenatezze. Un caso la cui risonanza mediatica fu, di fatto, la scintilla d’avvio della dolce vita di via Veneto, poi immortalata da Fellini nel suo film e resa icona dal bagno di Anita Ekberg nella fontana di Trevi. Come ricorda Stephen Gundle, che alla forza mitopoietica dell’affaire ha dedicato nel 2012 Dolce vita. Sesso, potere e politica nell'Italia del caso Montesi, qualcuno all’epoca scrisse che quello della Ekberg era “il secondo pediluvio più famoso della storia”. Il primo, infatti, era legato a un dettaglio equivoco del caso Montesi: la famiglia della giovane, talmente preoccupata di doverne difendere il “buon nome” a costo di cadere nel ridicolo, finì per dichiarare che il decesso di Wilma, ritrovata senza calze, era dovuto probabilmente a un malore mentre si bagnava i piedi nel mare di Ostia. 

Nella Dolce vita le allusioni al celebre caso sono numerose: non ultima, nel finale, la mostruosa creatura marina portata a riva dai pescatori, che agli occhi dei contemporanei rievocava fin troppo bene l’immagine del ritrovamento del cadavere della ragazza sul litorale di Torvaianica; e c’è addirittura chi ha visto, nella giovane (Valeria Ciangottini) di cui Marcello (Mastroianni) non riesce a udire la voce, una vera e propria incarnazione del fantasma di Wilma, destinato a rimanere inascoltato. 

All’allusione implicita di Fellini (che comunque si faceva assistere in sceneggiatura da Flaiano, Pinelli e Rondi), Costanzo (che invece fa tutto da sé) preferisce la citazione esplicita. Fin dai primi minuti, lo spettatore di Finalmente l’Alba deve avere ben chiaro che Mimosa è in tutto e per tutto una alter ego di Wilma: come lei ha 21 anni, una sorella dal nome omologo (Wilma e Wanda, Mimosa e Iris), un padre falegname e un fidanzato che lavora in polizia (col quale peraltro sembra avere un legame non proprio ardente di passione). 

E ancora non basta: dopo aver accompagnato la sorella a Cinecittà per un casting, Mimosa la perde di vista e, nel tentativo di ritrovarla, si infila in una saletta dove stanno proiettando un cinegiornale che dà notizia del ritrovamento di un cadavere sulla spiaggia di Torvaianica. Il corpo della ragazza si sovrappone alle immagini di Wilma sullo schermo: persino il più distratto degli spettatori, a questo punto, deve aver capito. 

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Ph. Eduardo Castaldo.

Scelta per caso e per capriccio dalla star Josephine Esperanto (una Lily James un po’ Rita Hayworth un po’ Elizabeth Taylor) dapprima per farle da ancella nel peplum che si sta girando a Cinecittà e poi in una lunga notte a zonzo per Roma, Mimosa vive quella che potrebbe essere stata l’ultima sera di Wilma Montesi: un festino in quel di Capocotta, nella tenuta del marchese Ugo Montagna. 

La lunga sequenza della festa sciorina il sulfureo campionario delle depravazioni dei ricchi e corrotti “capocottari”, così note agli avidi lettori di rotocalchi di quegli anni lontani, con tanto di protagonisti reali della vicenda giudiziaria: da Piero Piccioni (Gabriele Falsetta) accompagnato dalla fidanzata Alida Valli (Alba Rohrwacher) a Anna Maria Moneta Caglio (Fabiola Morabito), da Giò Stajano (Michele Bravi) agli artisti di via Margutta. Tutti volubili, capricciosi, cattivi, insidiosi, proprio come Josephine che, gelosa della preferenza che sembra accordare a Mimosa il bell’attore Sean Lockwood (Joe Keery), fa di tutto per metterla pubblicamente in imbarazzo. 

Un campionario umano che, ieri come oggi, dovrebbe indignarci, spaventarci, o al limite indurci a qualche riflessione. Eppure non riusciamo a provare alcunché di autentico, neppure ribrezzo. Forse perché, escludendo Willem Dafoe in un ruolo azzeccatissimo di mediatore d’arte e vita (si occupa di tradurre effettivamente il parlato americano degli attori, che non sono doppiati, a beneficio tanto della protagonista quanto degli spettatori), nessuna performance è indimenticabile. O forse perché un film è tanto più riuscito quando sa cogliere, e a più livelli, lo spirito del suo tempo. Che è in fondo la ragione per cui La dolce vita è divenuto, nel corso degli anni, il mito che tutti conosciamo. 

I minuti passano, e nonostante Mimosa continui come una sorta di carrolliana Alice a ripetere che è tardi e che deve tornare a casa, la sua fascinazione nei confronti di questa mescolanza di meraviglia e orrore, la porta ad arrivare – finalmente – all’alba. Ma anche a un finale fin troppo didascalico, in cui la ragazza comprenderà che diventare adulte significa anche scoprire che dietro i trucchi e gli imparruccamenti si nasconde spesso un vuoto fatto di tristezze e di miserie. 

“Nessun posto è come casa propria”, diceva Dorothy alla fine del suo viaggio nel Mago di Oz; e nessun posto, ovviamente, è altrettanto magnifico quanto la Città Eterna. Ancora una volta, nel caso non l’avessimo capito, Costanzo pensa bene di aggiungere il voice over di Lily James che legge i versi tratti da Passerò per Piazza di Spagna (sic!) di Cesare Pavese (scritto, come gli altri testi di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, per l’attrice statunitense Constance Dowling) nel momento esatto in cui la protagonista sta scendendo la scalinata di Trinità dei Monti nella luce smarrita, dove il tumulto delle strade sarà il tumulto del cuore.

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Ph. Eduardo Castaldo.

Il momento “poetico” viene però interrotto sul più bello da un ruggito. La leonessa scappata dalla gabbia di Cinecittà, che sta seminando il panico in tutta Roma, mostra i denti – ricostruiti in CGI come tutto il resto – alla nostra giovane protagonista che sta lì, ferma e chiara. E se sulle prime il pensiero corre inevitabilmente ai fenicotteri e alla giraffa di La grande bellezza di Sorrentino – altro remake inconfessato, ma incredibilmente più riuscito, della Dolce vita – la presenza di un felide di grossa taglia in funzione “allegorica” ci costringe, malgrado tutto, a tornare a Fellini, e per la precisione a uno spot pubblicitario per un noto istituto di credito (“La tua amica banca” era lo slogan della campagna), realizzato dal regista alla fine degli anni Ottanta.

“Ma perché vuole tenere il suo leone in cantina?”, chiedeva lo psicanalista Fernando Rey al protagonista Paolo Villaggio, che gli raccontava di aver sognato l’incontro, in un seminterrato, con un leone in lacrime. “Suvvia, non lo faccia piangere, a volte l’orgoglio, la fierezza, e anche una certa aggressività possono farlo sentire più sicuro nella vita”. 

Ebbene, nella vita come nel cinema, talvolta si è chiamati non solo a dimostrarsi all’altezza dei propri sogni, ma anche a verificare se valga la pena metterli in pratica. E a questo punto, viene da chiedersi (e da chiedere a Saverio Costanzo): valeva davvero la pena di resuscitare, per l’ennesima volta, lo spettro del caro Federico? 

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