El Conde: ritratto del dittatore come vampiro

19 Ottobre 2023

Un disco suona crepitando l’allegra Marcia di Radetzky. Mentre appaiono i titoli di testa – font goticheggiante rosa shocking che si staglia vezzoso sulle immagini in bianco e nero – la macchina da presa fruga una stanza disseminata di cimeli militari e si sofferma su un orinale di vetro poggiato a terra. 

Forse la chiave di lettura di El Conde, ultimo film di Pablo Larraín, vincitore del premio Osella per la migliore sceneggiatura all’ultima Mostra del Cinema di Venezia e da alcune settimane disponibile su Netflix, è già tutta qui. Il pitale che campeggia nel mezzo della stanza, oltre a essere una sorta di correlativo oggettivo del corpo vecchio e cadente del protagonista, ci mette sull’avviso: quello che stiamo per vedere è un film che maneggia un materiale sporco, disgustoso fisicamente e soprattutto moralmente. 

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Il primo elemento, il più ovvio, muovendoci in ambito horror, è il sangue. E infatti il voice over dal forte accento british inizia a raccontarci la storia dell’inquilino della stanza che abbiamo appena visitato, il nostro pseudo-Dracula (El conde, appunto: il conte), che “ha degustato il sangue umano da ogni angolo del mondo”. Per farla breve, questo vecchio piuttosto malmesso in tuta e scarpe da ginnastica (Jaime Vadell) altro non è che la forma finale di Claude Pinoche, soldato monarchico nella Francia del XVIII secolo che, dopo aver assistito alla morte di Maria Antonietta sulla ghigliottina, scopertosi vampiro e reazionario, ha superato le correnti generazionali per combattere “contro ogni rivoluzione, eterno suddito del suo decapitato re”. Fino a scegliersi una patria che di re non ne aveva, il Cile, per diventarne supremo comandante. Signore e signori, ecco a voi la genesi di Augusto Pinochet Ugarte, che nel 1973 ha rovesciato con un colpo di Stato il governo socialista di Salvador Allende diventandone il dittatore. 

Dopo anni di arricchimenti illeciti, incarcerazioni e torture; dopo aver violato qualsiasi diritto umano e divino, prima che per lui le cose volgessero al peggio, Pinochet ha finto nuovamente la propria morte e si è ritirato in una sperduta fattoria della Patagonia. Ed è qui che lo troviamo, molti anni più tardi, con la sola compagnia di sua moglie Lucia (Gloria Münchmeyer) e del suo maggiordomo (Alfredo Castro), un personaggio luciferino che sembra uscito da un romanzo di Dostoevskij (si chiama Fëdor), vampirizzato dal suo stesso padrone per meriti conquistati sul campo. 

Se, per citare il titolo di un altro film i cui protagonisti sono vampiri dei giorni nostri, solo gli amanti sopravvivono, il nostro Conte non ama più né la vita né nient’altro (“Chi ha detto che i vampiri vivono una vita senza amore? Il problema è che l’amore muore prima del corpo. Tragicamente un vampiro sa che l’amore non è eterno”) e dunque desidera morire. Stavolta davvero, smettendo di bere il sangue umano che lo tiene in vita da 250 anni. 

Tuttavia, una serie di misteriosi omicidi con tanto di sottrazione del cuore dai cadaveri, insospettisce i cinque figli del Conte: i quali, con una fin troppo ovvia metafora, pur non essendo mai stati vampirizzati, sono ancora più avidi del padre. Per mettere fine alla vita del vecchio e ottenere finalmente l’eredità che spetta loro, i cinque assoldano una suora. 

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Qui inizia la parte più grottesca e sgangherata del film, con la giovane e languida suor Carmen (una Paula Luchsinger perfetta nel ruolo) in missione “per conto di Dio”, che si ritrova a essere consulente familiare, commercialista, detective ed esorcista. Una Giovanna d’Arco – Larraín cita esplicitamente la Renée Falconetti del film di Dreyer, nel look, nelle pose e anche nelle inquadrature – che fruga le memorie familiari in cerca di testimonianze che inchioderanno tutta la famiglia e assicureranno il ricco bottino alla Chiesa. 

Malgrado i propositi iniziali, il Conte torna sui suoi passi (“Cosa c’è di più patetico di un vecchio che si innamora?”): immaginando una seconda giovinezza, briga per recuperare il bottino e scappare con lei. Carmen finge di ricambiare la seduzione (e un po’ ne è sedotta davvero) e si lascia vampirizzare, ma poi cerca lo stesso di sferrare l’attacco finale, fino all’intervento di una dea ex machina non così imprevedibile, ma non per questo meno sorprendente, che arriva a salvare il Conte, perché “se vuoi che una cosa sia detta chiedi a un uomo, se vuoi che sia fatta chiedi a una donna”.

Da Venezia, Gabriele Gimmelli ha scritto su “doppiozero” che come apologo El Conde “è talmente scoperto da rasentare il didascalismo (il neoconservatorismo come eterno ritorno di un ancien régime che letteralmente non vuole morire)”. E sul ruolo della donna che salva la situazione, strano alter ego della canonica Mina di Dracula, ci sarebbe da dire anche altro, ma non vogliamo esagerare con gli spoiler.

Rimane il dubbio su che cosa abbiamo appena visto. Una sceneggiatura di Buñuel girata da Wes Anderson o un progetto di Dreyer realizzato da Lanthimos? E la regia, strizza l’occhio più al Nosferatu di Murnau o a quello di Herzog? Il Conte, poi, non sfigurerebbe nella trilogia del potere di Sokurov, se non addirittura nell’ultimo Fairytale, nel quale Stalin, Mussolini, Hitler e Churchill, resuscitati dalla tecnologia digitale, dialogano fra loro alle porte dell’Oltretomba. 

Forse Larraín sta semplicemente parodiando se stesso: in fondo, questo film fa il doppio con El Club (2015), dove ritroviamo in parte gli stessi attori (Jaime Vadell e Alfredo Castro) e dei momenti di riflessione molto simili (sul tema della colpa, per esempio), anche se con una temperatura emotiva e una profondità del tutto diverse.

L’impressione è che il severo regista dei primi film (da Tony Manero a No. I giorni dell’arcobaleno, passando per Post Mortem), incentrati sulle devastanti conseguenze morali e materiali dell’atroce regime di Pinochet, più o meno da Neruda (2016) in poi abbia gradualmente ceduto al divertissement, trasfigurando in opera buffa o in tragedia ridicola i ritratti di dolore e umanissima fragilità a cui ci aveva abituato – compresi i non sempre riuscitissimi Jackie (2016) e Spencer (2021).

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In El Conde il gioco con gli stilemi del film d’autore e del film di genere è senz’altro reso godibile dall’affiatamento del cast e dai contributi tecnici, in particolare dall’ottima fotografia di Edward Lachman. Eppure il film sembra appagare con un po’ troppa facilità il nostro bisogno di disprezzo nei confronti di una figura storica spregevole, che il regista rende patetica come quella di un cattivo dei fumetti (pare che la prima idea di Larraín fosse quella di farne una miniserie). Non è un crimine, certo, ma forse è un peccato. 

Il surplus di prodotti culturali di alto profilo, creati a uso e consumo del pubblico delle piattaforme (El Conde è una produzione Netflix) ha dunque vampirizzato il cosiddetto “cinema d’autore”, trasformandolo nella parodia di se stesso? Se il trash, nella definizione ormai canonica di Tommaso Labranca, è emulazione fallita di un modello alto, nel caso del film di Larraín l’intento (auto)parodistico è talmente smaccato da far venire il dubbio di trovarsi piuttosto dalle parti del kitsch: qualcosa che compiace chi lo guarda con qualche mirata allusione al presente, ma che alla fine procura al massimo qualche brividino di disgusto estetico, senza smuovere granché al di sotto della superficie. 

E però, se anche fosse davvero così, Larraín avrebbe comunque centrato almeno un bersaglio: al pari del kitsch, che non a caso Kundera definiva “la dittatura del cuore”, così il potere, che si nutre (letteralmente e non) dei nostri cuori pulsanti, qualche volta si crea, mai si distrugge, ma sempre si trasforma. 

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