Due mostre a Venezia / Jacques Henri Lartigue e Henri Cartier-Bresson

22 Settembre 2020

A Venezia sono attualmente in corso due importanti mostre: Le Grand Jeu di Henri Cartier-Bresson e L’invenzione della felicità di Jacques Henri Lartigue. Poco distanti l’una dall’altra, offrono la possibilità di confrontare due modi completamente diversi di concepire la fotografia. Per Cartier-Bresson è vivere nel turbine degli eventi, per Lartigue vuol dire stare fuori dal tempo e vivere nel suo mondo dorato. Entrambi, tuttavia, sono uniti da un’irrefrenabile “pulsione fotografica”.

“Io non ho mai mostrato le mie fotografie, salvo ai miei amici e familiari. Del resto è per loro e per me che le facevo, per gioco”: è questo il manifesto di Jacques Henri Lartigue, riproposto su una parete della casa dei Tre Oci, dove è in corso una mostra monografica. Anche la firma è giocosa, dopo l’ultima lettera del cognome appare il disegno di un sole proprio come lo traccerebbe un ragazzino: un cerchio e tanti raggi intorno. A Ferdinando Scianna, Lartigue rivela che le fotografie le aveva fatte per se stesso, come “in estate si fanno marmellate di albicocche quando sono al colmo del sapore e del profumo. Per conservare, di quel regalo della natura e della vita, una traccia”. Ma a me, ribadiva, “piacciono le albicocche fresche, molto meno la marmellata. Il palpito di vita, fulmineo, irripetibile, prezioso”. Così è l’auto che sfreccia velocissima al Grand Prix de l’Automobile Club de France o lo scroscio d’acqua sulla spalla di Arlette Rebuffel in spiaggia a Monte-Carlo (1953). Con ancora maggiore intensità quel palpito è reso dall’espressione furba della moglie Madeleine Messager, seduta a fare la pipì sul water di una stanza d’albergo durante il loro viaggio di nozze a Chamonix (1920). Con lo sguardo direttamente in macchina e le mani appoggiate sulle ginocchia, sembra una bambina che lo osserva divertita. Lartigue si riflette in quello sguardo. Come per la marmellata, cerca di preservare ciò che invece marcirebbe.

 

Jacques Henri Lartigue, Coco, Deauville, 1938.


La sua opera toglie peso alle figure umane, agli animali, alle città. La fotografia, che lui stesso definisce «arte del transitorio», non ha nulla di “pietroso” o di fisso. Lartigue sfugge a Medusa, non la guarda negli occhi. Come Perseo, vola con sandali alati e la leggerezza del suo sguardo solleva i soggetti delle sue immagini, li trae verso l’alto, ne evidenzia gli slanci, ne dispiega le forme. Estenua la materia senza annientarla. Le sue immagini sono eteree, fatte quasi di nulla: i merletti degli abiti femminili, le velette che coprono i visi, gli abiti gonfi di pieghe. E, ancora, una palla sospesa sopra la testa della domestica Dudu, una ruota d’automobile che sembra deformata da una potenza invisibile. Ogni elemento sembra fatto d’aria, è facile sollevarlo da un suolo che sembra addirittura non esistere, sfidando in ogni dettaglio la legge assoluta della gravità. Immagini cariche di mistero, tanto più attrattive in quanto prive di consistenza. Non ci sono tragedie, morti, sofferenza e nemmeno l’intenzione di trasmettere chissà quale messaggio edificante, non siamo dinnanzi al dolore degli altri.

 

Jacques Henri Lartigue, Grand Prix de l’Automobile Club de France detta anche L’automobile deformata, 1913 ma diffusa da Lartigue nel 1912.


Jacques Henri Lartigue, Anna la Pradvina, detta anche “la signora con le volpi”, Avenue du Bois, Parigi, 1911.


Davanti alle foto di Lartigue si è liberi di interpretare o di desiderare, per questo ne siamo attratti. Quelle immagini non mostrano che eventi marginali, movimenti infinitesimali, atti transitori. Non hanno alcuno scopo, se non quello di conservare la memoria, senza alcun compiacimento. Splendide località, bellissime donne, gare automobilistiche, esperimenti di volo, i volti del superfluo di una perenne vacanza. John Berger ci ricorda che guardare una foto significa mettersi nella stessa disposizione visiva del fotografo, riproporre esattamente, tra gli infiniti possibili, lo stesso atto compiuto dal fotografo. Guardare, come fotografare, “è un atto di scelta”. E la scelta di Lartigue è estremamente precisa: fotografa la sua vita e lo fa per se stesso e i suoi amici. I suoi 129 diari composti da fotografie e commenti sono destinati conservare una memoria esclusivamente privata. Non sono pensati per essere pubblicati. Lo saranno solo molti anni più tardi, su invito di Richard Avedon. 

 

Lartigue conserva la sua esperienza solo per sé. Trasforma il reale non in monumenti ma in fantasmi, inconsistenze evocate anche nel titolo del suo primo diario: Mémoires sans mémoire. I ragazzini che saltano e le donne che sembrano volare, ricordano l’evanescenza dei fantasmi, ciò che Roland Barthes definiva un piccolo simulacro, l’eidòlon emesso dall’oggetto, ovvero “lo Spectrum della fotografia, dato che attraverso la sua radice questa parola mantiene un rapporto con lo “spettacolo”, aggiungendovi quella cosa vagamente spaventosa che c’è in ogni fotografia: il ritorno del morto”. La fotografia di Lartigue non ha nulla di spaventoso. Conserva invece la radice profonda che unisce “spettro” a “spettacolo”, quel verbo “specere”, guardare, perché Lartigue vive per guardare. La vita è uno spettacolo e Lartigue è un giocoso voyeur. Le parole chiave della sua estetica potrebbero essere forma, stile, decorazione, illusione, spettacolo di una classe sociale ricca e agiata di cui lui faceva parte.

 

Le sue foto non sono realtà artefatte, sono naturalmente frivole, impalpabili, aeree. Una leggerezza che equivale a una fuga. Ma da cosa, se la sua vita assomiglia tanto a un’interminabile vacanza? Dal tempo che scorre inesorabile. Il segno del tempo è quello che la sua incessante opera di registrazione ha sempre cercato di cancellare mediante le pagine del suo diario. Non c’è nessuna aspettativa poiché futuro e passato vengono livellati in un continuo istante declinato al presente. La storia che viene narrata non è la storia del tempo in cui vive, ma unicamente quella del proprio tempo e della propria vita. Un gioco. Per questo Lartigue dà alla felicità immagini di leggerezza. Le sue donne sono svagate, pensose, divertite, sbarazzine, seducenti, esuberanti. Comunicano una sensazione di levità, sospensione, di silenzioso e calmo incantesimo. Come si può distogliere lo sguardo da Coco a seno nudo sdraiata sulla spiaggia di Deauville (1938), dallo sguardo magnetico di Renée Perle (1930), più volte fotografata, dal cappello di piume di Gaby Deslys al Casino di Parigi (1918)?

 

Queste foto saranno rese pubbliche solo molti anni dopo. Nel 1963, durante un viaggio negli Stati Uniti, Jacques Henri Lartigue mostra le sue fotografie a Charles Rado, che rappresenta l’agenzia Rapho a New York. Costui, a sua volta, le mostra a John Szarkowski, allora giovane conservatore del Museum of Modern Art, che immediatamente gli propone di esporle. Nel 1963 il fotografo ha già quasi 70 anni, è conosciuto soprattutto come pittore, ma Szarkowski non esita a presentarlo come il “padre” di Henri Cartier-Bresson e dell’“istante decisivo”. Qualche anno dopo la mostra di New York, Richard Avedon gli propone di cercare nelle sue fotografie e di riscrivere il suo diario. Avedon e Bea Feitler scelgono le fotografie della Belle Époque, ma anche quelle degli anni Venti e Trenta ed altre più recenti. Gli album nei quali il fotografo collega le fotografie e i testi alle didascalie sono l’occasione per ripercorrere la sua vita, come accade per la mostra alla Casa dei Tre Oci. Le pareti ricordano le pagine di un diario, la scansione è quella degli album di famiglia: la Belle Époque, gli anni Venti e Trenta, i Quaranta e i Sessanta e così sino agli ultimi anni.

 

Henri Cartier-Bresson Bougival, France, 1956, épreuve gélatino-argentique de 1973 © Fondation Henri Cartier-Bresson / Magnum Photos.


Il titolo della mostra, L’invenzione della felicità, è davvero una felice intuizione se, come credo, intende richiamarsi al senso più autentico dell’inventare, che è quello di trovare ciò che esiste, scoprire ricercando ciò che si presenta davanti a noi. Le foto di Lartigue sono la testimonianza di una felicità perseguita come stile di vita, privatamente conservata, scatto dopo scatto, fortuitamente e fortunatamente pervenuta a noi, che possiamo goderne, a condizione di richiamare alla memoria le parole che Susan Sontag, nel saggio Contro l’interpretazione (1964), utilizza per la funzione della critica. “Anziché di un’ermeneutica, abbiamo bisogno di un’erotica dell’arte”, sottolineando che l’interrogativo preminente dovrebbe essere non “cosa significa”, ma “come mai è quello che è”.

 

Se per Lartigue nel gioco della vita l’accento cade sulla libertà, per Cartier-Bresson è la regola che conta. All’“occhio del secolo” venne suggerito di fare una selezione fra tutte le immagini che avesse mai scattato. Nel 1973, quando il disegno prende il sopravvento sulla fotografia, a richiesta di due collezionisti di Houston, John e Dominique de Menil, decide di realizzare la sua Master Collection, trecent’ottantacinque, “stampe perfette delle mie foto migliori”, il Grand Jeu.

Dopo il primo sguardo in macchina e il secondo davanti ai provini per scegliere la stampa “giusta”, è il terzo sguardo a decidere le forme e i contenuti da cui origina la mostra. Il Grand Jeu è interamente riprodotto all’ingresso, come una sterminata scacchiera sospesa. Cartier-Bresson non spiega le motivazioni di questa disposizione, le immagini sono solo numerate. Si potrebbe pensare che le abbia scelte nel modo in cui le scattava, mettendo sulla stessa linea di mira la testa, l’occhio e il cuore, come era solito affermare.

Ma è solo l’inizio, perché la mostra si articola in ben cinque distinti percorsi, alimentati dalle stesse foto della Master Collection, ciascuno con una propria autonomia, affiancando al coordinamento generale di Matthieu Humery, la curatela di Sylvie Aubenas, Javier Cercas, Annie Leibovitz, François Pinault e Wim Wenders.

 

E così accade che ci sfilano davanti, anche più volte, immagini di un campionario visivo talmente famigliare da essere ormai ampiamente condiviso. La rapidità del suo sguardo comunica agilità, mobilità, disinvoltura, non diversamente dal ritratto che Jean Clair ci fa dello stesso Cartier-Bresson: “grande trampoliere silenzioso, la Leica indolentemente e morbidamente appesa alla estremità del braccio destro, come una fionda a quello di un monello, l’ho visto intrufolarsi nelle assemblee e nelle folle con la grazia e la sicurezza di un eroe di Beaumarchais”. Nelle sue immagini si alterna una successione di avvenimenti che si incastrano uno nell’altro: una storia in cui si racconta una storia nella quale si racconta una storia e così via. L’istante perfetto non è un semplice punto, ma il punto in cui molti istanti si legano fra loro. Una combinazione tra l’attimo fortuito dei surrealisti, che aveva conosciuto e ammirato, e la sua passione per la pittura, con la quale si era formato negli anni Venti.

 

Annie Leibovitz la definisce “composizione intuitiva”, aspetto su cui si sofferma anche François Pinault, affascinato dalle immagini che mostrano la casualità del quotidiano. Nelle sezioni espositive di entrambi è presente la foto di un giovane in salopette senza camicia, in piedi sulla banchina, ripreso di schiena, che osserva quella che probabilmente è la sua famiglia, a qualche metro da lui su una chiatta. Una donna, a sua volta guardata da un’altra donna, tiene tra le braccia un bambino: il piccolo sorride all’uomo, la donna sorride al bimbo, un cane osserva l’uomo. “Cartier-Bresson assume lo sguardo del giovane”, scrive Annie Leibovitz. Le immagini che suscitano in noi un senso di fascino e stupore mostrano un mondo immobile catturato in movimento, sono il risultato di uno stato di grazia di spazio, luce e tempo. La “composizione intuitiva” a volte diviene ossessione geometrica e passione per la forma. Nel caos della realtà si deve saper scegliere ed è lo stesso Cartier-Bresson ad alimentare il mito della sua rapidità e precisione: “il tiro fotografico…Scattare la foto è la mia passione. […] Non mi interessa il risultato, solo il tiro”. E ancora: “sono un fascio di nervi. Ma questo per un fotografo è un asso nella manica. Io non rifletto mai, agisco in fretta! Faccio fuoco!”.

 

Eppure, a ben riflettere, la potenzialità eversiva risiede nell’esatto opposto dell’enunciato. Dinanzi al perfetto equilibrio delle sue immagini scompare ogni aspetto legato alla cattura dell’istante, alla violenza insita nell’atto del colpire, si neutralizza l’immagine del fotografo come cacciatore. Di fronte alle sue immagini di reportage, si comprende come sia possibile arricchire lo spirito e dilettare i sensi. La facoltà che i teologi medievali attribuivano all’arte, ovvero docere et delectare, diventa l’anima delle sue immagini. Le domande che sorgono sono sempre le stesse: dove si trova il confine tra etica ed estetica? E l’estetica è superiore all’etica? In questo caso non vi è differenza: la giustizia coincide con la giustezza. “L’uomo e la sua vita, così breve, così fragile, così minacciata. […] Io mi occupo quasi esclusivamente dell’uomo. I paesaggi sono eterni, io vado di fretta”, afferma Cartier-Bresson.

 

Henri Cartier-Bresson Dimanche sur les bords de Seine, France, 1938, épreuve gélatino-argentique de 1973 © Fondation Henri Cartier-Bresson / Magnum Photos.


Per questo le immagini sono epifanie in cui il mistero dello scorrere del tempo diventa, per la frazione di un secondo, quasi miracolosamente accessibile. La parte della mostra curata da Javier Cercas si sofferma proprio su questa idea. Si intitola L’imminenza di una rivelazione. Ma di una rivelazione che non si compie, poiché il centro dell’immagine sembra essere assente, fuori dall’immagine stessa. Un ossimoro, ma proprio in questa assenza di verità, Cercas ritrova il senso delle foto che ha scelto: “persone che aspettano un evento, o che cercano di spiare qualcosa attraverso un muro o una recinzione, invitati a una festa di gala che si voltano sorpresi verso qualcuno che attira la loro attenzione o li chiama (…), un gruppo serrato di monache che, come uno stormo compatto di passeri, sembra paralizzato a un angolo di strada”. Non si sa cosa aspettano. Le domande restano senza risposte. Sono espressione di un punto cieco e nella loro mancanza di risposta, nel loro vuoto, risiede quello che permette di non “rivelare appieno il proprio significato o di non smettere di dire quello che hanno da dire”.

 

Anche Wim Wenders è affascinato dal gesto di guardare. Non solo le immagini agiscono come catalizzatori dello sguardo, ma sono esse stesse fonte del desiderio di guardare. I soggetti guardano, come guarda il fotografo e chi guarda le fotografie. Questa è un’altra forma di perfezione, l’oggetto della visione scivola di sguardo in sguardo sino a chiudere una sorta di cerchio ideale intorno all’immagine. Sembra che Cartier-Bresson sia in grado di spingersi sin dentro a ciascuno di noi. La sua passione per il surrealismo non è solo la predilezione per le coincidenze, ma la capacità di sapere in anticipo cosa accadrà. Una forma di veggenza che ha in sé qualcosa di razionale. Il Grand Jeu, ricorda giustamente Sylvie Aubenas, è “fare le carte a qualcuno per prevedere il futuro” e Cartier-Bresson, mentre costruisce l’impalcatura visiva della Master Collection, fa le carte a se stesso e a chi guarda, poiché al colpo d’occhio, che serve ad ognuno per accertarsi che il mondo esiste, suggerisce un modo di vedere che si spinge oltre la visibilità manifesta delle cose. Il mondo deve stare innanzitutto dentro chi guarda. Il modellino di Leica in legno e metallo che Saul Steinberg regala a Cartier-Bresson, esposta nella sezione di Wim Wenders, suggerisce che Cartier-Bresson non fotografa quello che vede, ma vede quello che fotografa. 

 

Visitare entrambe le mostre significa, anche involontariamente, mettere a confronto due modi di esprimersi e, soprattutto, due visioni del mondo. I corpi senza peso di Lartigue e l’esperienza del peso delle cose di Cartier-Bresson. È questa la relazione che si può stabilire, al di là di ciò che in modo molto smart propose John Szarkowski, ovvero l’idea dell’istante decisivo. Lartigue dissolve la materialità dell’esperienza e la trasforma in istanti che sono fuori dalla storia mentre Cartier-Bresson nutre di solidità corporea anche la più immateriale delle idee, ne rende la “pesante” perfezione. Le mostre hanno soprattutto il merito di riproporre l’antica e sempre giovane idea della Kalokagathìa, di un impegno civico che passa attraverso il culto del bello e di una bellezza che si nutre della necessità del buono. E questo, in questi tempi di decadenza etica in cui i reggitori dell’ordine del mondiale sono anche i fautori di un progressivo pauperismo culturale, non è poco.

 

 

 

Henri Cartier-Bresson, Le Grand Jeu, Palazzo Grassi, Venezia fino al 10.01.2021

Jacques Henri Lartigue, L’invenzione della felicità, a cura di Denis Curti
Marion Perceval, Charles-Antoine Revol,
Casa dei Tre Oci fino al 10.01.2021

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