Kultura

7 Ottobre 2015

Molti studiosi e molte discipline hanno provato a definire sinteticamente il termine «cultura», ma tale operazione presenta notevoli difficoltà. L’ambito in cui la cultura opera è infatti estremamente vasto e articolato. E negli ultimi anni si è fatto ancora più ampio. La cultura, perciò, dev’essere considerata non un semplice insieme organizzato di forme espressive, norme e valori, ma un vero e proprio mondo. Un mondo concreto e fisicamente sperimentabile, dove operano soprattutto i fenomeni di consumo, la moda, i media e l’industria culturale. Un mondo che dunque è sempre più globale e dominato dal capitale delle multinazionali, ma anche in grado di funzionare secondo la logica propria del Web e dello spettacolo mediatico. Un mondo comunque che non è più secondario e periferico, ma è riuscito a conquistare una posizione centrale nell’immaginario collettivo e individuale. E pertanto, proprio per questo motivo, è in grado di trasformare radicalmente la vita quotidiana delle persone e ambiti primari della società come la politica e i mercati.

 

 

È evidente inoltre che in tale mondo si stanno sempre più sviluppando due processi: la mercificazione della cultura e la culturalizzazione della merce. Mercificazione della cultura perché quest’ultima si è fatta mercato, dunque abnorme offerta d’informazioni, immagini, suoni, prodotti e marche da consumare. Culturalizzazione della merce perché quest’ultima ha progressivamente arricchito la sua capacità di creare significati e valori e di farli circolare nella società.

 

In apparenza, la situazione si presenta come paradossale, perché è noto che il capitalismo ha un assoluto bisogno di mantenere in vita l’autonomia della cultura. Le comunità umane, infatti, possono dedicarsi alle attività commerciali solamente se al loro interno sono ben sviluppati gli scambi culturali e comunicativi tra gli individui. La sfera economica ha necessariamente bisogno perciò della sfera culturale, che è in grado di dare vita a un ambiente affidabile dove il commercio possa aver luogo. Dunque il capitalismo per produrre valore economico deve ricorrere al ruolo socialmente svolto dalla cultura, eppure tende nello stesso tempo a soffocare tale cultura e a indebolire quelle fondamenta che rendono possibile le sue relazioni commerciali.

 

Com’è noto, già negli anni Quaranta Max Horkheimer e Theodor Adorno hanno sostenuto all’interno del volume Dialettica dell’illuminismo che l’industria culturale produce delle merci culturali che sono massificate, rigidamente definite e ricevute passivamente dai loro destinatari. Ma oggi, come hanno evidenziato i sociologi inglesi Scott Lash e Celia Lury nel volume Global Culture Industry, i prodotti culturali sono caratterizzati da un processo non più di omogeneizzazione, bensì di differenziazione. Essi inoltre sono indeterminati, perché si trasformano continuamente nel corso dei loro molteplici processi di circolazione sociale. Pertanto, sono dotati di una vita autonoma ed è possibile persino ricostruirne la biografia e gli spostamenti.

 

Ciò è possibile perché il funzionamento dell’odierna industria culturale globale si basa, più che sulle singole merci, su soggetti fortemente comunicativi come le marche. Le quali riescono a ottenere questo risultato perché si caratterizzano per la loro capacità di dare vita a relazioni sociali e per il loro possesso di una storia e una memoria, grazie alle quali sono in grado di alimentare l’identità dei prodotti. E perché sono in grado di operare attraverso la differenziazione. Ciascuna marca produce cioè valore economico grazie alla sua natura differente rispetto ai concorrenti. E tale differenza nasce dal divertimento, dalle emozioni e dalle esperienze generate nel consumatore. Vale a dire che quanto più una marca riesce a generare una sensazione di soddisfazione nel consumatore, tanto più è in grado di creare un legame forte e specifico con quest’ultimo, che pertanto è disposto a pagare un prezzo più elevato per tutto quello che gli viene offerto.

 

Se ciò avviene, è anche perché attualmente è in atto un processo di trasformazione del sistema economico, il quale sta andando verso una particolare forma di economia “allargata” che tende a inglobare nella produzione il consumatore, rendendo quest’ultimo ma anche ogni attività di produzione di significati (simboli, narrazioni, immagini) un soggetto in grado di generare valore economico.

 

In tale tipo di economia, sono le marche a svolgere il ruolo fondamentale, così come nel capitalismo industriale a svolgere lo stesso compito era la fabbrica. Se quest’ultima aveva la necessità di controllare i processi di produzione interni ad essa e perciò la sua forza lavoro, le marche devono svolgere la stessa funzione rispetto alle relazioni che si sviluppano nella società, la quale diventa così una vera e propria “fabbrica sociale”. È dunque al suo esterno che il sistema economico oggi riesce ad accumulare valore sfruttando il lavoro che viene quotidianamente svolto da parte dei consumatori e della società in generale. In società come quelle ipermoderne, che sono fortemente “mediatizzate” e dove gran parte della vita sociale è stata “messa in rete”, le marche, infatti, non devono fare altro che tentare di operare in qualità di mezzi di comunicazione, cioè come strumenti relazionali, come ambienti autonomi dove i produttori e i consumatori possono stabilire una connessione reciproca. Allo scopo di trasformare in valore economico tutto quello che prende vita dentro la società, cioè quel surplus di innovazioni, idee e creatività che gli individui producono all’interno delle loro esperienze quotidiane.

 

 

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