La bellezza della fiaba

29 Maggio 2015

Mentre stavo scrivendo questo articolo, ho visto al cinema Il racconto dei racconti, adattamento cinematografico della raccolta di fiabe Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, realizzato da Matteo Garrone. La mia impressione è che sia un film clamorosamente non riuscito, sotto tutti i punti di vista: recitazione, sceneggiatura, caratterizzazione dei personaggi, montaggio eccetera. Confesso di essere uscita dal cinema al primo tempo. Ma come è possibile, mi sono chiesta, che persone competenti e preparate come Garrone e la sua troupe facciano un autogol di queste proporzioni, e con una materiale così generoso e ricco quale è la fiaba? Possibilissimo. Anzi, con la fiaba il rischio di sbagliare è colossale. Perché ci sono pochi terreni scivolosi e impervi quanto le fiabe. Facilissimo, infatti, è travisare la loro natura, il loro spirito, capire dove risieda davvero la loro bellezza e importanza che non stanno mai, ma proprio mai in quello che sembra al primo sguardo.

 

Salma Hayek nel film Il racconto dei racconti, di Matteo Garrone 2015

 

Alcuni giorni fa, a un workshop di scrittura che ho tenuto all'Accademia di Belle Arti di Bologna, spiegavo ai ragazzi che la fiaba è una sorta di kit ideale per l'aspirante autore di libri illustrati. Una cassetta degli attrezzi dove è possibile trovare tutto quello che serve ed è necessario sapere, né più né meno, per raccontare o scrivere una storia. Il modo in cui la fiaba, – da quelle popolari delle più diverse epoche e latitudini, a quelle colte, autoriali, letterarie, del passato o contemporanee – offre i propri materiali è esemplare: come è evidente dagli studi degli strutturalisti, il cui più noto è Morfologia della fiaba di Vladimir Propp, la sua modularità quasi esplicita la rende un oggetto inconsapevolmente metaletterario che potrebbe avere grande efficacia didattica se non fosse per un elemento ingannevole quanti altri mai: la sua conturbante, abbagliante bellezza.

 

 

Giovanna Zoboli, Joanna Concejo, C'era una volta una bambina, Topipittori 2015

 

Dunque, teoricamente, per l'aspirante scrittore potrebbe essere sufficiente sottoporre una fiaba a molteplici, rigorose letture per portare a galla le sue regole interne allo scopo di impadronirsene: ritmo, struttura, definizione e caratterizzazione dei personaggi, aggettivazione, lessico, intrecci, motivi, ricorrenze, ripetizioni, irregolarità, scarti eccetera. E tuttavia, lo so per esperienza di editore, questo non accade quanto ci si aspetterebbe.

 

La fiaba somiglia a quei bruchi che per dissimulare la loro natura mettono in atto stupefacenti tecniche mimetiche, quali tinte e forme criptiche che hanno lo scopo di confonderli con foglie, steli, infiorescenze, fiori, rametti; oppure spine, finti occhi e colorazioni aposemantiche, che cioè servono come avvertimento contro possibili predatori. Qualora la metamorfosi riesca, dal bruco uscirà prima la crisalide e, quindi, faticosamente, la farfalla. E non c'è bellezza, è noto, più equivocata di quella di quest'ultima. Esattamente come non c'è ambito letterario più equivocato della fiaba, dove lo sguardo del lettore è continuamente distolto dalla precisione di ritmo, lessico e meccanismi narrativi e puntato su caratteri di superficie. Il bruco, infatti, è noto, contraffacendosi si salva.

 

Giovanna Zoboli, Joanna Concejo, C'era una volta una bambina, Topipittori 2015

 

Ricevo centinaia di riscritture di fiabe o storie mutuate dalla fiaba: fra queste solo una parte infinitesimale rivela una comprensione profonda e accurata del genere. La gran parte si perde nelle secche di una idea di magia la cui primaria espressione risiede in un ricorso fideistico e abnorme all'aggettivazione. Si cerca di emulare il fulgore del bruco, non accorgendosi che posto ha la bellezza nella sua strategia vitale. Dunque, lo si fa malamente.

 

Cercando un risposta sul perché questo accada, mi è venuta in mente una riflessione di Dieter Richter in Il bambino estraneo (Edizioni di Storia e Letteratura 2010): «Il popolo, i bambini, le fiabe: cosa potrebbe apparire più “autentico” di loro? In realtà però, devono la loro esistenza a un processo di delimitazione sociale e culturale nella moderna storia della civilizzazione dell'Europa. “Quando tutti i membri di una società condividono una cultura, il concetto di cultura popolare diventa superfluo.” Questa affermazione di Peter Burke (Cultura popolare nell'Europa moderna) definisce naturalmente una situazione iniziale ideale ed è, in realtà, applicabile prevalentemente alle cosiddette “società primitive”. Già molto precocemente – in seguito alla suddivisione del lavoro e alla crescente importanza della scrittura – si vanno formando una tradizione culturale “superiore” e una “inferiore”.»

 

Hans Christian Andersen, Joanna Concejo, I cigni selvatici, (trad. Maria Giacobbe), Topipittori 2010

 

E poco più avanti, Richter aggiunge: «Così come il “popolo” e i “bambini”, anche la “loro” poesia è il risultato di una separazione culturale. Per quanto riguarda la fiaba basta pensare che la letteratura “colta” europea del Medioevo (il ciclo di Artù, l'epica eroica) era fiabesca come gli scritti religiosi (le vite dei santi), la storiografia (le cronache), i trattati di scienze naturali (i Bestiari e gli Erbari) oppure i racconti di viaggi. La fiaba non esisteva come genere a se stante, piuttosto l'elemento fiabesco era parte costitutiva di quasi tutti i generi letterari, soltanto verso la fine del Medioevo si possono osservare gli inizi di un maggiore interesse per ciò che successivamente verrà chiamato “letteratura popolare”. Con la progressiva formazione di un nuovo paradigma vero-falso, che avrà grandissima influenza nella storia della cultura europea, si tenderà a distinguere sempre più fra narrazione inventata e historia vera. Il fiabesco viene deriso dalla gente colta e ritenuto sciocco, inutile o pagano, a meno che non faccia parte della tradizione “alta” o della scrittura sacra (Bibbia, antichi autori). Altrimenti al servizio di una più “alta verità” viene reso materia didattica per scopi morali, soprattutto dal pulpito (predicazioni per mezzo di favole didattiche) o nella letteratura edificante.»

 

Hans Christian Andersen, Joanna Concejo, I cigni selvatici, (trad. Maria Giacobbe), Topipittori 2010

 

Nelle parole di Richter è interessante rilevare l'esistenza di un 'fiabesco' anteriore alla fiaba intesa come genere letterario codificato successivamente, e presente come parte integrante di tutti i generi letterari, prima della definitiva separazione fra cultura “alta” e “bassa”. In questo senso l'impressione è che, oggi, una fra le complesse e numerose conseguenze dell'azzeramento della distinzione fra “alto” e “basso” della cultura di massa sia il ritorno in auge più che della fiaba, di quello che Richter definisce fiabesco, divenuto ingrediente primario in ambiti molto diversi e distanti fra loro. Le cause di un tale cambiamento potrebbero riscontrarsi, per esempio, nella distinzione ai nostri giorni sempre più debole, in qualunque ambito mediatico, fra narrazione inventata e historia vera, che si tratti di film, fumetti, romanzi, documentari scientifici, animazioni, video giochi, in cui i memi della fiaba sono capillarmente presenti. O nel modo in cui strutturalismo e narratologia, folclore, antropologia e psicoanalisi hanno sgombrato il campo da rigide distinzioni, polverizzando la fiaba nei suoi elementi costitutivi e restituendo alla fiaba, e al fiabesco, un posto d'onore fra quelle narrazioni, quegli immaginari in grado di simbolizzare le più profonde verità umane, storie in grado addirittura di curare e salvare, rese al posto che gli compete, strappate alla marginalità dell'inutile e dello sciocco. «Le fiabe sono vere», scrive, come è noto, Calvino, nell'introduzione alle Fiabe italiane, concetto caro anche a Walter Benjamin, e frequentato senza incertezze, fra gli altri, da Jung, Marie-Louise von Franz e Bruno Bettelheim.

 

Robert Browning, Antonella Toffolo, Il pifferaio magico di Hamelin, (trad. Umberto Fiori), Topipittori 2008

 

E tuttavia, in questa caotica fase di cambiamento che contraddistingue la nostra cultura, accanto ai nuovi paradigmi persistono, destrutturati, i vecchi. Così che fra i principali responsabili del fraintendimento della fiaba, per paradosso, si può individuare quel medesimo paradigma vero-falso fondativo della cultura europea. È la separazione fra forma e contenuto istituita da questa modalità di pensiero – per cui la forma, l'estetica, è dominio dell'arte e dell'irrazionale; il contenuto, territorio della morale, della scienza e della verità –, che continua a spingere, a tutt'oggi, a vedere nelle storie di magia, le fiabe appunto, una costruzione fantastica del tutto fine a se stessa, e nel fiabesco, polverizzato nei suoi elementi primari, una scatola di montaggio disponibile per ogni genere di intrattenimento, materiale elettivo per effetti speciali del tutto sganciati da riferimenti di senso. Come se il bruco fosse tale solo per mostrare finti occhi e variegate colorazioni. È in questo contesto che strumenti di consultazione ben congegnati e scritti sulla fiaba e sul fiabesco, capaci di guidare i lettori più o meno esperti in un ambito tanto vasto, variegato e scivoloso, si rivelano di importanza determinante.

 

Robert Browning, Antonella Toffolo, Il pifferaio magico di Hamelin, (trad. Umberto Fiori), Topipittori 2008

 

La nuova edizione del Dizionario della fiaba di Teresa Buongiorno, uscita nel 2014, a quindici anni dalla prima, assolve questo compito in modo efficace. Organizzato in tre sezioni, Storie e personaggi, Autori e opere e Appendici, ha il merito di offrire su ogni fiaba, dalle più note alle meno frequentate fino a quelle sconosciute ma non meno significative, informazioni, analisi, vicende storiche e geografiche, mettendone in luce attraverso le voci costitutive (trama, origine, varianti, fortuna) la complessità dei riferimenti, dei percorsi, degli esiti; indicando studi, riflessioni, sviluppi contemporanei che toccano cinema, teatro, illustrazione, letteratura, poesia, televisione, oltre a segnalare dettagliatamente il lavoro editoriale svolto negli ultimi anni su singole fiabe e raccolte, in numerose edizioni e collane.

 

Cliccando su alcune pagine del volume qui proposte, relative alla più celebre fra le fiabe, Cappuccetto Rosso, si può avere a colpo d'occhio un'idea della struttura e dei contenuti dell'opera. Un lavoro, quello di Teresa Buongiorno, che oltre a fissare di ogni tematica un quadro di riferimenti preciso, ne coglie anche gli aspetti più sottili, inattesi, problematici, affermando con energia come la qualità simbolica, letteraria, culturale della fiaba e del fiabesco costituisca un patrimonio di grande valore da maneggiare con attenzione e competenza.

 

Interessanti anche le tre introduzioni al Dizionario a firma di Vinicio Ongini e dell'autrice, dalle quali emerge in tutta evidenza come il fenomeno del riaffermarsi della fiaba e del fiabesco, come componenti essenziale della nostra cultura contemporanea sia una delle ragioni della riproposta del volume nella sua edizione riveduta e aggiornata.

 

Dizionario della Fiaba, Edizioni Lapis 2014

 

Scrive Vinicio Ongini: «Le fiabe sono tornate. Si è tornati a cercarle e ad “usarle” più di quanto si facesse venti o trent’anni fa. È stata la trasformazione rapidissima dell’Italia in società multiculturale ad alimentare questa nuova ricerca di fiabe. Un cambiamento inimmaginabile (una metamorfosi, come nelle fiabe) con la presenza di donne, uomini, bambini, provenienti da Paesi e culture lontanissime. Sono quasi sei milioni gli immigrati in Italia, di essi un milione sono bambini e ragazzi e un milione sono donne che lavorano come tate, colf e badanti nelle nostre case, “lettrici forti”, come mettono in evidenza una recente mostra itinerante e una ricerca dal titolo Così vicine, così lontane, promosse dalla Provincia di Roma. Non a caso, nell’editoria per ragazzi degli ultimi vent’anni sono nate collane di fiabe del mondo, anche nelle lingue di provenienza degli stranieri che vivono in Italia, a volte raccolte e trascritte dalla loro voce, come è accaduto a Milano con il progetto “Fili di fiabe”, che ha coinvolto le mamme straniere e le mediatrici culturali. Ma altre tracce di vita delle fiabe si incontrano in luoghi inaspettati, come l’esperimento delle fiabe piantate nell’orto, a partire dal romanzo di Cipollino di Gianni Rodari, in una scuola primaria di Treviso; o la raccolta di fiabe in italiano e in altre lingue che le mamme italiane e straniere portano all’ambulatorio del pediatra Andrea Satta, a Valmontone, vicino Roma; o il laboratorio dei “ciabattini interculturali”, costruzione di scarpe con materiali poveri a partire dai modelli trovati nelle fiabe, Cenerentola prima di tutte, al Museo nazionale d’Arte Orientale di Roma. [...] C’è un altro indizio della vita attuale della fiaba, o comunque di una sua forma di resistenza: la sua presenza nei media. Una dimensione che modifica le regole stesse del raccontare. Ci sono siti nati negli ultimi anni dedicati al digital storytelling, il raccontare storie digitale, comunità telematiche che si incontrano in rete per scambiare storie.»

 

 

 

Teresa Buongiorno, Dizionario della fiaba, Lapis 2014

 

E spiega Teresa Buongiorno: «Il bicentenario dei Grimm ci ha inondato di recuperi fiabeschi, quasi un rifugio in tempo di crisi, come è accaduto già negli anni Cinquanta, quando il gruppo oxfordiano di filologi e medievisti inventò il fantasy, per ritrovare i valori su cui orientare l’educazione delle nuove generazioni. Ma non è questo il motivo che mi ha indotto a metter mano a una nuova edizione di questo Dizionario, dopo quindici anni dalla prima uscita, quanto la notizia che alcuni biologi hanno ipotizzato che nel nostro DNA, accanto ai geni, unità ereditarie, figurino i memi, unità di trasmissione culturale. Come a dire che gli archetipi, di cui parlano antropologi e psicanalisti, sono innati e per questo si ritrovano in tutte le culture. Fantascienza? Può darsi, ma l’ipotesi è sufficientemente intrigante per indurci a verificare quanto la concezione e la conoscenza del patrimonio fiabistico si sia evoluta e modificata.»

 

E conclude con una notizia interessante sulla vitalità della fiaba e del fiabesco e sulla loro importanza come componente estetica fondamentale nella produzione di senso: «...è proprio la scuola che in questi ultimi anni ha fatto ricorso alla fiaba, come repertorio di culture comuni, oltre ogni confine geografico: e se Giufà ci apparenta a tutti i popoli del Mediterraneo, altre fiabe trovano riscontro in culture d’oltreoceano. Non a caso gli indios delle foreste amazzoniche praticano ancora riti d’iniziazione che ricordano l’abbandono nella foresta di Hänsel e Gretel e di Pollicino.»

 

Teresa Buongiorno, Dizionario della fiaba, Lapis 2014

 

In un magnifico studio sulla fiaba scritto nel 1976 da Beatrice Solinas Donghi, La fiaba come racconto (nella sezione Autori e opere del Dizionario della fiaba a proposito di questo e della sua autrice si afferma che furono i primi ad affermare la qualità letteraria della fiaba), si legge: «Al narratore orale è precluso il grigiore e l'uso dello sfumato; i mezzi con i quali ottiene la sua meccanica interiore di momenti sospensivi e risolutori debbono potersi mandare facilmente a memoria (che è come si capisce la prima esigenza di ogni narrativa non scritta); essere semplici, perciò, e nello stesso tempo abbastanza brillanti da colpire l'attenzione. Mancandogli le sottigliezze dell'analisi psicologica e le risorse descrittive del naturalismo, capaci di restituire sulla pagina l'immagine di un mondo «reale», il narratore orale è condannato, per farsi ascoltare o anche solo per tenere insieme i suoi racconti alla ingegnosità coatta e alla bravura scoperta. Tra parentesi, penso che proprio questa necessità di farsi ascoltare, preceduta e seguita dall'altra necessità non meno urgente di farsi ricordare da chi la narra, spieghi come mai le fiabe della tradizione popolare siano generalmente, nei risultati artistici, molto superiori ai «generi» della letteratura popolare scritta; per esempio il romanzo d'appendice. Il guaio, per simili romanzi, fu proprio d'essere scritti, cioè fissati per sempre così, come venivano messi giù da mestieranti con poco tempo a disposizione, premuti dalla necessità di guadagno. Nella fiaba orale, al contrario di quel che si potrebbe pensare, la faciloneria è molto più rara; si direbbe che in essa gli apporti delle successive generazioni e la cura della «memorabilità» del racconto (cioè, nei risultati, della sua concisione, vivezza e coerenza interna) siano riusciti a sostituire il travaglio dello scrittore coscienzioso.»

 

Teresa Buongiorno, Dizionario della fiaba, Lapis 2014

 

Dovrebbe dare spunti di riflessione (soprattutto a chi oggi attinge alla fiaba e al fiabesco nella produzione culturale, per l'infanzia e non), quanto si afferma in questo brano: che cioè sia stata la necessità di farsi ricordare e ascoltare dal pubblico la causa della bellezza della fiaba, e la sua popolarità il motore della qualità superiore della sua forma, della sua riuscita estetica. Considerando il successo straordinario del fiabesco e delle fiabe attraverso tutte le epoche e i continenti, viene da pensare che proprio questa bellezza, questa sua scienza, intelligenza vivida della forma sia la prima responsabile della loro longevità. La bellezza, cioè, come strategia vincente di sopravvivenza, esattamente come avviene per bruchi e farfalle. Può darsi che proprio questa oggi sia la lezione più importante che le fiabe hanno da offrirci.

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