Come disegniamo i nostri luoghi / La camera di Henriette

29 Dicembre 2020

La camera di Henriette. Schizzi, mappe e disegni di paesaggi identitari, il nuovo lavoro di Maria Pia Pozzato, uscito quest’estate per la Biblioteca di Semiotica di Meltemi, è un libro enigmatico, che, come non di rado capita ai libri di semiotica, non si capisce bene in quale scaffale della biblioteca collocare. Il suo titolo dice qualcosa solo a chi ha letto la Vita di Henry Brulard (1890), evocando uno degli schizzi contenuti nella famosa autobiografia di Stendhal. D’altra parte, però, il sottotitolo suggerisce come non (solo) di critica letteraria si tratti, di come l’oggetto di studio prescelto sia piuttosto legato a una molteplicità di rappresentazioni spaziali che si riconoscono per il fatto di essere precarie (schizzi) ed emotivamente connotate. La bella copertina, come da idea di fondo del libro, aggiunge di suo, chiarendo quale sia il riferimento: si tratta di disegni che evocano il momento fondamentale della fanciullezza, legati all’identità nel senso più individuale che si può attribuire a questa parola. 

 

Del resto, basta scorrere le prime pagine dell’introduzione perché tutto venga chiarito. I saggi contenuti nel volume partono dalla letteratura, prendendo in esame gli schizzi contenuti nel testo stendhaliano. Essi vengono discussi e analizzati nel primo capitolo come prototipo, sublime concretizzazione letteraria di un’esigenza tutt’altro che aristocratica, ovvero avvertita da ognuno, di riconoscere ai luoghi di infanzia un carattere fondamentale nella costruzione del percorso esistenziale, della propria storia di vita. Da qui l’idea, sbocciata per caso nella mente dell’autrice durante il corso universitario di Sociosemiotica dei luoghi che tiene all’università di Bologna, di una singolare ricerca: “Disegna una sorta di mappa del tuo luogo d’origine, all’interno della quale, da qualche parte, compaia la tua casa”. È questo il quesito che dal 2013 al 2017, Maria Pia Pozzato ha posto ai suoi studenti, provenienti da ogni parte del mondo. Ne è venuto fuori un corpus molto ricco (circa duecento disegni) che, in prima battuta, è stato esaminato da un team interdisciplinare (costituito dall’autrice e dai geografi Emanuele Frixa e Alessandra Bonazzi). Sebbene i risultati di questa ricerca fossero già stati pubblicati (in inglese, da Springer), si fa strada l’idea che questo corpus, nel frattempo arricchitosi di contributi provenienti da un ambito sociale più ampio e stratificato di quello dei soli studenti, meritasse di essere preso in considerazione come sfida intellettuale innanzitutto rivolta alla semiotica e che, quindi, fosse da rileggersi interamente per il tramite del punto di vista e della “cassetta degli attrezzi” della disciplina. 

 

Maria Pia Pozzato, in apertura del volume, ci tiene a fare un elenco dei suoi ispiratori, esibendo un prestigiosissimo pedigree di studiosi e intellettuali che hanno intrapreso un cammino simile. Inizia con Lévi-Strauss, sorprendendolo in un passaggio dei suoi Tristi Tropici (1955) a fare i conti con la nostalgia della campagna francese, suo luogo d’infanzia. Lo lascia ai suoi tristi tropici. E passa a elencare altri riferimenti. C’è Louis Marin, il cui studio sulle mappe (contenuto in Della rappresentazione, 1994, e in altri testi significativi) si rivela di fondamentale importanza per le analisi a venire. È proprio lui a suggerire come studiare le figurazioni spaziali possa essere un originale viatico verso l’esplorazione di interi sistemi culturali e politico-economici. Ci sono Denis Bertrand (di cui viene evocata l’analisi di Germinal, 1985), c’è Manar Hammad (con i suoi studi sullo spazio e sul medio oriente arabo, ambedue del 2003). Ci sono i côté (chez Swann e côté de Guermantes) letterari richiamati da Proust nella sua Recherche e pure Calvino che, ne La strada di San Giovanni (1990), racconta di sé bambino, trascinato a forza dal papà in montagna per occuparsi dell’orto di famiglia, dal cui itinerario appare una vera e propria grammatica dei valori in cui l’alto finisce per designare agli occhi del piccolo tutto ciò che di negativo c’è nella sua vita. C’è Maurice Merleau-Ponty, al cui monito viene ricondotta l’audacia di voler sondare, attraverso gli schizzi in esame, caratterizzati dall’essere frutto di una richiesta imprevista ed estemporanea, l’emergenza del “senso del mondo allo stato nascente”, non ancora corrotto dalla riflessione razionale.

 

Ma c’è anche il riferimento a Gaston Bachelard di La poetica dello spazio (1957). Che forse più di altri contraddistingue il punto di vista adottato nella ricerca, ispirando l’idea che lo spazio di casa possa essere considerato come spazio poetico, affettivo, legato alla parte più intima del sé, la cui ripresa, il suo richiamo (riverbero) “ci invita a un approfondimento della nostra esistenza”. Ecco che allora il corpus di disegni diventa un vero e proprio “corpus di sogni” che saranno la chiave per entrare nel peculiare modo di affrontare la vita di ognuno. E infine arriva Umberto Eco, con le sue mappe dei posti fantastici. Anche la lettura dei suoi lavori ha un ruolo nell’economia del volume: Storia delle terre e dei luoghi leggendari (2013) si occupa, infatti, non di rappresentazioni fittizie ma di luoghi che nonostante fossero inesistenti si caratterizzavano per il fatto di essere creduti veri da coloro che li avevano disegnati. I luoghi di infanzia sono così. Sono allo stesso tempo luoghi concreti e costruzioni dell’immaginario. 

Ma andiamo al sodo. Pozzato, nel primo capitolo del volume, passa in rassegna alcuni esempi tratti dalla letteratura. Nelle illustrazioni letterarie, questi luoghi così emotivamente coinvolgenti scompaiono. Succede nel caso di Austerlitz di Winfried Sebald (2001). La hall dove il protagonista, fortunosamente scampato all’olocausto, incontra per la prima volta i suoi nuovi genitori a Londra, nonostante l’intensa descrizione, non viene disegnata ma semplicemente indicata in una mappa, nella convinzione che la sua messa in forma visiva sarebbe in fin dei conti risultata banalizzante. Succede qualcosa di simile anche allo schizzo che dà il titolo al volume quello della camera di Henriette, madre prematuramente mancata di Henri Brulard. 

 

Camera di Henriette.


Lo schizzo è stavolta estremamente schematico, indica un momento preciso, quello del fulmineo balzo della mamma dal materasso su cui giaceva il figliolo verso il proprio letto. Un frangente solo a prima vista insignificante ma, d’altra parte, fondamentale nel ricordo che il bimbo avrebbe portato con sé della madre. Nello schizzo rivediamo i rapporti spaziali che regolano gli elementi della camera (porte, finestre, letti, etc.) ma non la protagonista né tantomeno il suo gesto atletico. Al contrario, riconosciamo il posizionamento dell’osservatore: come a dire che non è il “che cosa” (il balzo della mamma) a essere necessario ma il “chi” del punto di osservazione, la presa che questo momento deve avere avuto su di lui. In tal modo Stendhal riesce a riportare il discorso sul piano emotivo, chiamando il lettore a proiettarsi in questo spazio, a pensarsi in quello scenario, lasciandosi alle spalle ogni velleità di dominare cognitivamente l’episodio. Ancora interessanti sono alcuni casi tratti del medesimo romanzo, in cui si mostra come il fatto che uno dei personaggi possa compiere un tragitto, spostandosi nello spazio fra due case vicine, possa dirla lunga sulla sua identità e il suo stato d’animo. La breve distanza che Henry percorre fino a casa del nonno – illustrata con un apposito schizzo – segna, infatti, il passaggio da un ambiente disforico a uno euforico, dall’oppressione alla felicità segnata. 

 

Tragitto verso casa del nonno.


Un altro schizzo descrive la legnaia in cui soleva lavorare il piccolo falegname Lambert, miglior amico di Henry, venuto anche lui a mancare prematuramente. In questo caso, alcuni elementi affettivi, come le trottole che il piccolo amava intagliare, vengono, nello schizzo che correda il testo scritto, riportati fuori scala a sottolinearne l’importanza emotiva. 

 

Legnaia.


Ne viene progressivamente fuori una vera e propria grammatica di soluzioni espressive chiamate a rendere conto della dimensione emotiva, a “spiegare” il punctum, delle individualissime emozioni dei personaggi quasi-reali chiamati in causa. 

Un medesimo meccanismo regola le immagini del corpus, i tanti disegni del proprio luogo d’origine, richiesti ai partecipanti della ricerca empirica. Essi rispondono a una serie di procedure di spazializzazione che possono essere lette proprio in funzione del ruolo poetico, emotivo che si ritrovano a svolgere nella vita dei loro autori. C’è, per esempio, una comune tendenza a “insularizzare” le mappe. In questo caso, il proprio spazio di origine viene separato dal resto del territorio in cui si ritrova inserito e, d’altra parte, raccolto in una sorta di segno grafico inglobante. Interessante rilevare come i vari schizzi che chiamano in causa come luogo d’origine Venezia, città arcipelago, forniscano una sorta di inventario tensivo che va da un massimo di “insularità” (costruzione della città come sommatoria di isole) a una vera e propria totalità integrale, in cui il mare finisce per scomparire. 

 

Rappresentazioni di Venezia.


Molto belli sono anche i casi di “anime divise in due” (vedi gli esempi della Romania, della Turchia, della Siria) in cui i partecipanti provenienti dall’estero provano a costruire nello schizzo degli elementi di continuità visiva fra i loro luoghi del cuore, come facessero parte di un’unica rappresentazione spaziale. 

 

Italia e Siria.

 

Italia e Romania.


Altre volte, partecipanti con più case in giro per il mondo possono, al contrario, tendere a enfatizzare la distanza che li separa, incarnando una sorta di identità cosmopolita – sempre più comune fra i giovani – fondata sul primato della relazione a prescindere dalle radici. 

 

Identità cosmopolita.


Un altro problema indagato in un capitolo a sé, è quello della costruzione utopica o distopica del luogo d’origine. In alcuni disegni, si tende a dare una rappresentazione del proprio isolato come hortus conclusus: in questo caso gli edifici sono colorati e i personaggi impegnati in attività euforiche come cantare e suonare, in una rappresentazione che chiama in causa tutti i sensi e quindi funziona come richiamo olistico. 

 

Modello di Hortus conclusus e rappresentazione a esso ispirata.


Un altro luogo “felice” viene raffigurato piccolissimo fra una grande montagna e il mare: costruire scenari fantastici è un modo di giocare con la rappresentazione che diventa misura della sua presa emotiva. Ancora in un altro disegno, gli elementi fondamentali della vita quotidiana prendono vita e galleggiano nella composizione: si tratta di una velleità per così dire animista. Altre volte, la casa può, però, diventare simbolo di tutto ciò che di negativo c’è della vita, uno spazio da cui si è fortunatamente riusciti a fuggire. Uno dei disegni omette di raffigurare una finestra, in cui, a detta del suo autore, “era successo qualcosa di brutto”: la procedura di cancellazione dalla rappresentazione in questo caso fa il palio con la rimozione psicanalitica. 

 

Miniaturizzazione.

 

Casa animista.

 

Finestra mancante.


C’è, infine, una tendenza a evocare il proprio luogo di origine sulla base di stereotipi locali, legati a monumenti o a luoghi turistici, comunque riconoscibili nell’immaginario. Uno schizzo di Caserta chiama in causa la reggia mettendola al confronto con la propria casa, che diventa così una sorta di doppio affettivo della famosa dimora regale. 

 

Reggia di Caserta e casa d'infanzia.


Fra gli altri, c’è anche il mio luogo d’origine, Siracusa: la qual cosa mi fa chiedere, chissà come l’avrei raffigurata io. E manca quello dell’autrice. Una tale mancanza è la chiave per penetrare il valore esistenziale di questo originalissimo progetto. 

Fin qui, l’articolazione del libro. Che, data l’originalità, merita forse una riflessione ulteriore. Mio convincimento è, infatti, che per rendere atto del suo posizionamento all’interno del panorama della semiotica italiana possa essere di una qualche utilità riflettere su due questioni teoriche sostanziali. La prima ha a che fare con una discussione intorno al novero dei suoi ispiratori, domandandosi se manchi qualcosa o qualcuno. La seconda, con un inquadramento complessivo del percorso intellettuale di Maria Pia Pozzato, la cui pregnanza mi sembra rappresenti una risorsa ineludibile per la disciplina. 

La risposta veloce alla prima questione è ovviamente sì: l’autrice non esita a dichiarare che altri riferimenti potrebbero essere indicati. Ma a ben vedere c’è una assenza che più di ogni altra può essere notata. Mi riferisco a quella di Roland Barthes. Mi sembra che, nonostante la sua mancanza fra i riferimenti del libro, Maria Pia Pozzato sia la semiologa italiana che maggiormente abbia mostrato di voler farsi carico (a prescindere dagli argomenti studiati e dai metodi utilizzati, ovviamente differenti) di continuare uno specifico stile intellettuale che potremmo definire barthesiano.

 

A cosa si può ascrivere una tale affermazione? Qual è la peculiarità della posizione di Barthes a cui Pozzato si mostrerebbe affine? Per renderne atto, si può fare appello al posizionamento che ambedue adottano di fronte al problema della conoscenza. Si tratta di un vero e proprio orientamento epistemico che si estrinseca nel fatto di voler mantenere il proprio contributo di studiosi all’interno di una consapevolezza politica complessiva, che, di proposito, viene dichiarata in partenza. Non è un caso che una tale consapevolezza si rivolga innanzitutto verso se stessi, portando a una esposizione della propria posizione. È infatti vero che, al contrario di Eco, che amava rappresentarsi, soprattutto nei suoi interventi, come sguardo totale, punto di vista siderale, allo stesso tempo divinamente longanime verso le umane debolezze e loro ironico fustigatore, Barthes preferiva proporsi come parte in causa, scegliendo la strada della critica del proprio punto di vista e dell’esposizione del proprio feticcio individuale al pubblico. Risultato di un tale atteggiamento sarebbe stato quello di dare forma concreta a una precisa scelta epistemologica, insofferente di distinguere fra soggetto (di osservazione) e oggetto (osservato) come entità a sé stanti, in modo che le enunciazioni di qualsiasi soggetto potessero sempre essere riportate alla loro istanza enunciativa, inchiodate al famoso “chi lo dice”. Barthes prende sul serio il problema del “chi lo dice”, non come dichiarazione di principio da archiviare frettolosamente, quanto come prassi esistenziale.

 

La sua scrittura si presenta, insomma, come una costante autodenuncia, dichiara “chi lo dice” (salvo rifuggire dalla sua stessa immagine di autore), enuncia la propria vita intima e politica, esponendola senza riguardo. Ogni attestazione generale di Barthes è, dunque, sempre frutto di una tale messa in cornice, del preventivo posizionamento del suo sguardo di parte. Ne deriva una felice parzialità che non nasconde di essere tale: fin dai suoi esordi, per esempio, egli usava definire la semiotica (si veda al proposito il capitolo finale di Miti d’oggi, 1957) come una disciplina vocata a decostruire il velo ideologico della società borghese, postulando, pertanto, una propria posizione di studioso politicamente orientata proprio dall’essere antiborghese. C’è di più. Un tale gesto critico – rivolto, come si è detto, in primis, verso se stessi – permette di gettare un’ipoteca su corpora imprevisti, autorizzando un allargamento dello spettro di indagine della nascente disciplina del senso verso i territori inesplorati dello spazio intimo come l’autobiografia, il discorso amoroso o le fotografie di famiglia. Il personale diventa politico – come da slogan sessantottino – e in quanto tale legittimo oggetto di analisi. Se è vero che, nella disciplina, la strada dell’analisi dei media e la “demistificazione” diventano velocemente predominanti, Barthes trova proprio nello spazio intimo la via di fuga. Tutto l’ovvio che segna l’accademia può essere così etichettato come studium, da dare per scontato, per passare a ciò che veramente conta che è il punctum. La chiamata che i testi esercitano sulle nostre vite di individui non è al di fuori della semiotica, sembra suggerire Barthes, mettendoci, come lettori e testimoni del suo percorso, di fronte a questioni personalissime come il suo dolore “intraducibile” di persona travolta dal lutto per la perdita della madre (La camera chiara, 1980). 

 

Ed è a questo punto che possiamo porre la seconda questione, legata al contributo specifico di Maria Pia Pozzato. La cui carriera, mi sembra, si sia caratterizzata proprio per la pervicacia con cui ha rifiutato di “depersonalizzarsi” nascondendosi dietro un punto di vista azimutale sul sociale. Il suo itinerario è quello di analista testuale, i cui temi sono sempre scelti come segno di partecipazione politica, spesso legata alla questione femminile, osservata dal punto di vista rovesciato del discorso dominante, incarnato ora in tv ora dalle eroine del romanzo rosa, con l’idea di andare a stanare lo stereotipo introiettato dall’educazione sentimentale femminile, decostruendolo. Ancora, specularmente, arrivano gli studi sul potere omologante della tv (Lo spettatore senza qualità, 1995) e i suoi libri di analisi di teoria dell’analisi del testo. È suo un romanzo erotico, intitolato L’allievo (2002), di cui si è fatto un gran parlare (rigorosamente sottovoce) fra i portici bolognesi: anche questo lavoro è segno della sua scelta di esporsi personalmente come intellettuale a tutto tondo che sceglie pervicacemente di stagliarsi oltre ogni pudicizia piccolo borghese. Ma è, negli ultimi anni, che la sua produzione si riconosce per questa volontà ancora più chiara di esplorazione dello spazio intimo. Basti pensare al suo lavoro sulle foto di nozze (2012). In questo caso, l’analisi si muove alla ricerca di una struttura semiotica significante del matrimonio, immortalata dalle fotografie.

 

Pur essendo legate alla vita privata del gruppo familiare (più o meno allargato agli amici) e non direttamente collegate alla dimensione pubblica, Pozzato è convinta che la loro analisi non sia fuori tema, che non si tratti affatto di un tema extra-semiotico. Ma che, al contrario, se correttamente interrogate, le foto di nozze possano rivelare la loro organizzazione semiotica ampia – in un range di considerazioni che va dal canovaccio segnato dall’organizzazione antropologica del tempo delle festa fino alle strategie di messa in discorso del fotografo – e in costante divenire. 

E ritorniamo alla Camera di Henriette. Se, come si è visto, il movimento compiuto dal saggio sulle foto di matrimonio è quello di rivelare la semioticità del tempo familiare della festa, la camera di Henriette va oltre. Andando a concentrarsi su un territorio ancora più ristretto. È allora che perfino il vagheggiamento emotivo dello spazio nato, nella sua messa in forma estemporanea e irriflessa, sfocata dal tempo e idealizzata nel ricordo, si offre allo sguardo semiotico.

 

Ed è qui che il discorso di Pozzato, si configura come una sorta di prosecuzione del lavoro di Barthes: siamo di fronte, insomma, al tentativo di delineare una vera e propria teoria del punctum. Che si concretizza – lo si è visto – a partire dall’assenza delle persone care e degli spazi intimi. Nonostante la sua forza semiotica, il sentimento di una tale assenza – della mancanza – è difficilissimo da comunicare. Pozzato prova a riflettere su quali possano essere le procedure della sua messa in forma, mettendosi in gioco personalmente. Lo si capisce dal fatto che si preoccupi di dedicare un tale tentativo alla propria madre (e di conseguenza al proprio luogo d’origine). Ci piace pensare che questa dedica rappresenti il sottile filo rosso, il ponte che collega la sensibilità di semiologa engagé dell’autrice a quella del suo archetipo intellettuale Barthes. 

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