Meridiano Heaney / La poesia di Seamus Heaney

30 Agosto 2016

Esce oggi il Meridiano Mondadori Seamus Heaney. Poesie (1966-2013), a cura di Marco Sonzogni; introduzione di Piero Boitani. Pubblichiamo in questa occasione il primo di quattro momenti, a cura di Marco Sonzogni: un’antologia in miniatura tra due passi del discorso pronunciato dal poeta irlandese a Stoccolma in occasione del conferimento del Premio Nobel per la Letteratura.

 

 

Seamus Heaney (Mossbawn, Castledawson, Irlanda del Nord, 13 aprile 1939; Dublino, Repubblica d’Irlanda, 30 agosto 2013) è tra i poeti più conosciuti, letti e studiati—non solo del nostro tempo e non solo di lingua inglese.

 

ph. Giovanna Iorio

 

Con Poesie (1966-2013)—un volume di ampio e profondo respiro umano e artistico che unisce per la prima volta le due corpose antologie d’autore: New Selected Poems 1966-1987 (1990) e New Selected Poems 1988-2013 (2014)—Mondadori mette a disposizione di lettori e di studiosi italiani una delle voci più pure e potenti della poesia mondiale. Senza soluzione di continuità scorrono tutte le poesie distillate da Heaney in quanto stepping stones: pietre di passo assolutamente indispensabili nel suo cammino poetico. Dal paesaggio rurale della fattoria paterna alla campagna dublinese; dalle maglie urbane di Belfast e di Dublino a quelle metropolitane di Londra e Los Angeles; dai banchi di scuola di Anahorish e Derry alle cattedre di Harvard e Oxford; dai lutti familiari alle tragedie civili; dalle vicissitudini di storia locale ai conflitti di un mondo globalizzato: quasi cinquant’anni di versi con cui il Bardo di Bellaghy ha esplorato a fondo la natura umana, raccontando a se stesso e ai suoi lettori le scelte indivuali e collettive che siamo chiamati a compiere.

 

Non appena le agenzie hanno diffuso la notizia della morte di Heaney (pochi instanti prima, si sarebbe poi saputo, di essere operato al cuore), un vero e proprio tsunami di ricordi e tributi—personali e istituzionali; sul piano umano come su quello letterario—si è rovesciato su Dublino, sulla famiglia e sugli amici del poeta da ogni angolo del mondo. Dimostrazioni di affetto, riconoscenza e ammirazione che non accennano ad esaurirsi—alimentate anche dalla pubblicazione postuma di diverse poesie, tra cui spiccano due corpose e notevoli traduzioni. Una, pubblicata pochi mesi dopo la scomparsa del poeta, dall’italiano di Pascoli: una silloge di madrigali intitolata L’ultima passeggiata e tristemente premonitrice (il timor mortis pervade come un basso continuo tante poesie edite dal 2006, anno in cui il poeta è colpito da un’ischemia, al 2010). L’altra, pubblicata pochi mesi fa, dal latino di Virgilio: il liber sextus dell’Eneide (testo cui Heaney era particolarmente legato e che lo ha accompagnato tutta la vita). Anche l’eco post mortem dell’inconfondibile cifra poetica di Heaney mi ha convinto a iniziare questa presentazione della sua opera in versi partendo da tre fini.

 

La prima fine, citata in epigrafe, è quella del saggio introduttivo del Meridiano, firmato da Piero Boitani e intitolato Dalla terra al vento. La poesia di Heaney, infatti, traccia un arco esplorativo e narrativo testo tra terra e aria: la mano che ha deciso di scavare il mondo impugnando la penna riconsce lo spirito e lo sforzo che occorrono per affondare la vanga nel terreno (prima poesia del primo libro: Digging/Scavare) o per accompagnare un aquilone vero il cielo (ultima poesia dell’ultimo libro: A Kite for Aibhín/Un aquilone per Aibhín) alla continua scoperta e testimonianza, con le sue parole, della «musica di ciò che accade». Il verso citato—«Gleaning the unsaid off the palpable» (v. 12)—si trova in un testo che Heaney ha dedicato al padre: The Harvest Bow (La ghirlanda della mietitura), dalla raccolta Field Work (Lavoro sul campo, 1979). L’etimologia stessa del verbo to glean—un pedigree di matrice agricola, per così dire, che attraversa la lingua inglese dalla Bibbia (Ruth ii 7) a Byron (Child Harold: Cantos I & II ii lxix 95) passando per Chaucer (The Legend of Good Women Prol. 75) e Langland (Piers Plowman C. ix. 67), Shakespeare (As You Like It iii v 103) e Keats (When I have Fears That I May Cease to Be 12), e forse legato anche alla voce celtica *di-glenn- (Vergleichende Grammatik der keltischen Sprachen ii 539)—significa spigolare, racimolare, raccogliere ma anche scoprire, capire, rendersi conto. Un verbo, dunque, che rispecchia la personalità e la poetica di Heaney.

 

La seconda fine è quella di una poesia che Heaney considerava particolarmente rappresentativa della sua scrittura: A Drink of Water/Un sorso d’acqua, anche in questo caso da Field Work (Lavoro sul campo, 1979). Il verso conclusivo lascia in consegna un ammonimento—«Ricordati del donatore»—che il poeta legge, «quasi del tutto sbiadito», sull’orlo della tazza di una vicina di casa che andava «ogni mattina ad attingere acqua» alla pompa della famiglia Heaney, «percorrendo barcolloni il campo» come «un vecchio pipistrello». Voglio fare mio questo invito e percorrere il campo dei dodici libri di poesie che Heaney ha pubblicato dal 1966 al 2010, ricevendo tutti i più importanti riconscimenti letterari, animato da doppia gratitudine: ricordando il donatore nordirlandese e insieme a lui i suoi donatori italiani. Le parole del poeta—dodici poesie suddivise in quattro capitoli—saranno accompagnate da quelle dei traduttori e da una breve nota di commento, rispettando il «debito di fedeltà verso il mistero» dell’ispirazione che il poeta ha sempre salvaguardato.

 

La terza fine, per concludere, è quella del Meridiano, chiuso da un testo in prosa. Crediting Poetry (Sia dato credito alla poesia, 1995)—il discorso pronunciato da Heaney a Stoccolma in occasione del conferimento del Premio Nobel per la Letteratura—è, per chi scrive, il saggio più intimo e incisivo sulla sua poetica. Ho quindi pensato di incastonare simbolicamente le dodici poesie scelte per «Doppiozero»—un’antologia in miniatura che presenta di noti e altri meno conosciuti al pubblico italiano—tra due passi di questo saggio: quello iniziale, di matrice biografica, descrive le origini del viaggio umano e poetico di Heaney; quello finale, di matrice letteraria, riassume accoratamente e lucidamente la portata estetica ed etica della sua poesia.

 

ph. Giovanna Iorio

 

Non credo ci sia viatico migliore per viaggiare nella poesia di Heaney—e a illustrazione della motivazione con cui l’Accademia di Svezia ha voluto assegnargli il più alto riconoscimento letterario: la bellezza lirica e la profondità etica con cui ha dato voce e risalto alla dimensione miracolosa del quotidiano e al valore sempre attuale del passato—di quelli del testo menzionato sopra, A Drink of Water/Un sorso d’acqua:

 

Veniva ogni mattina ad attingere acqua


come un vecchio pipistrello percorrendo barcolloni il campo:

la tosse convulsa della pompa, lo strepito del secchio


e il lento diminuendo nel riempirsi


annunciavano il suo arrivo. Ricordo


il suo grembiule grigio, lo smalto bianco butterato


del secchio colmo e il cigolio


acuto della sua voce come il manico della pompa.


Notti in cui una luna piena saliva oltre il suo tetto


per ricadere dentro la sua finestra e posarsi


sull’acqua apparecchiata.


A cui ho attinto per bere ancora, per essere


fedele all’ammonimento sull’orlo della sua tazza,

Ricordati del donatore, quasi del tutto sbiadito.

 

Traduzione di Marco Sonzogni.

 

***

 

da Crediting Poetry (Sia dato credito alla poesia, 1995):

 

"La prima volta che mi imbattei nel nome della città di Stoccolma, non immaginavo certo che un giorno l’avrei visitata, e tanto meno che vi sarei stato accolto come ospite dell’Accademia di Svezia e della Fondazione Nobel. A quel tempo, un esito simile non era soltanto al di là di ogni previsione: era semplicemente impensabile. Negli anni Quaranta (ero il figlio maggiore di una famiglia sempre più numerosa che viveva in campagna nella contea di Derry) affollavamo le tre stanze di una tradizionale abitazione rurale dal tetto di paglia e vivevamo una specie di vita rintanata che era più o meno isolata, emotivamente e intellettualmente, dal mondo esterno. Era un’esistenza intima, fisica, creaturale, nella quale i rumori notturni del cavallo nella stalla oltre il muro della camera da letto da un lato si confondevano con i suoni delle conversazioni degli adulti nella cucina oltre il muro dall’altro lato. Naturalmente, registravamo tutto ciò che succedeva – la pioggia tra gli alberi, i topi nel sottotetto, un treno a vapore che passava sferragliando sui binari oltre il campo dietro casa – ma come se fossimo immersi nel torpore dell’ibernazione.

Astorici, presessuali, sospesi tra l’arcaico e il moderno, eravamo sensibili e impressionabili come l’acqua potabile che tenevamo in un secchio nel retrocucina: tutte le volte che il passaggio di un treno faceva tremare la terra, la superficie di quell’acqua si increspava delicatamente, concentricamente, e in assoluto silenzio. Ma per noi non era soltanto la terra a tremare: anche l’aria intorno a noi e sopra di noi era viva e mandava segnali.

Quando il vento scuoteva i faggi, scuoteva anche un filo metallico legato al ramo più alto del castagno, che scendeva con un’ampia curva e si infilava in un buco nell’angolo della finestra di cucina per finire nella pancia del nostro apparecchio radio dove un piccolo pandemonio di borborigmi e gracidii cedeva improvvisamente il posto alla voce di uno speaker della BBC, con l’effetto sorpresa di un deus ex machina. E dalla nostra camera da letto sentivamo anche quella voce, che trasmetteva da oltre

e da dietro le voci degli adulti in cucina, così come sentivamo spesso, dietro e oltre ogni voce, i segnali frenetici e penetranti dell’alfabeto Morse.

Captavamo i nomi dei vicini pronunciati nell’accento locale dei nostri genitori e, nel risonante inglese dello speaker, i nomi di bombardieri e di città bombardate, di fronti di guerra e di divisioni militari, il numero degli aerei persi e dei prigionieri catturati, delle perdite subite e delle avanzate compiute; e sempre, naturalmente, captavamo anche quelle altre due parole, solenni e stranamente energizzanti: “il nemico” e “gli alleati”. Ciononostante, nessuna delle notizie su questi spasmi del mondo entrava in me come terrore. Se c’era qualcosa di inquietante nei toni dell’annunciatore, c’era qualcosa di torpido nella nostra comprensione di ciò che era in gioco; e se c’era qualcosa di colpevole nella nostra ignoranza politica in quegli anni e in quel luogo, c’era qualcosa di positivo nella sicurezza in cui, come risultato di tutto ciò, vivevo.

Il tempo di guerra, in altre parole, fu per me tempo preriflessivo. E anche pre-alfabetico. A suo modo, pre-istorico. Poi, con il passare degli anni, acquistai una maggior consapevolezza di ascolto e allora mi arrampicavo su un bracciolo del nostro grande sofà per avvicinare l’orecchio all’altoparlante. Ma non erano ancora le notizie a interessarmi; ciò che mi attirava era l’eccitazione di una storia, come la serie poliziesca con Dick Barton, agente speciale britannico, o magari l’adattamento radiofonico delle avventure di un asso della RA F di nome Biggles, tratto da uno dei libri del capitano W.E. Johns. Ora che anche gli altri bambini si erano fatti più grandi e nella cucina c’era un gran daffare, dovevo incollarmi all’apparecchio per concentrarmi nell’ascolto, e in quell’assorta vicinanza al quadrante imparai a conoscere i nomi delle stazioni straniere: Lipsia, Oslo, Stoccarda, Varsavia e, ovviamente, anche Stoccolma. Mi abituai, inoltre, a sentire brevi spezzoni in lingue straniere quando l’indice faceva il giro dalla BBC a Radio

Eireann, dall’accento di Londra a quello di Dublino, e anche se non capivo cosa si diceva in quei primi incontri con le gutturali e le sibilanti delle parlate europee, avevo già iniziato un viaggio nella vastità del mondo che, a sua volta, divenne un viaggio nella vastità del linguaggio, un viaggio in cui ogni punto d’arrivo – nella poesia come nella vita – è risultato essere una pietra nel guado di un fiume più che una destinazione, ed è quel viaggio che oggi mi ha portato a questo posto prestigioso. E, tuttavia, questo palco mi sembra più una stazione spaziale che una pietra di guado: per questo, per una volta in vita mia, posso indulgere nella sensazione di essere al settimo cielo".

 

 

Morte di un naturalista

da Death of a Naturalist (Morte di un naturalista, 1966):

 

Tutto l’anno la fossa del lino suppurava nel cuore

del circondario; lino verde dalla testa greve


vi era macerato, sotto il peso di zolle enormi.

Ogni giorno sudava nel sole assillante.

Bolle gorgogliavano delicatamente, mosconi


tessevano una forte garza di suoni attorno all’odore.

C’erano libellule, farfalle maculate,


ma il meglio era la bava tiepida e spessa


delle uova di rana che crescevano come acqua coagulata

all’ombra degli argini. Qui, ogni primavera


riempivo interi vasetti di gelatinose


macchioline da disporre su davanzali a casa,


su scaffali a scuola, e aspettavo e osservavo finché


da quei puntini all’ingrasso non fuoriuscivano,


svelti natanti, i girini. Miss Walls ci raccontava


che il papà-rana si chiamava rana toro


e gracidava e la mamma-rana


deponeva centinaia di ovetti da cui poi nascevano


le rane. Si poteva anche prevedere il tempo con le rane,

ché erano gialle quando c’era il sole e brune


quando pioveva.

 

Poi un giorno di calura in cui i campi puzzavano

di letame nell’erba le rane inferocite


invasero la fossa del lino; mi infilai tra le siepi

sentendo uno sguaiato gracidio che mai

avevo udito. L’aria era ispessita da un coro di bassi.


Giù in fondo alla fossa rane dal ventre greve se ne stavano [impettite

sopra le zolle; le gole flaccide pulsavano come vele. [Qualcuna saltava:

i tonfi e i plop erano oscene minacce. Altre stavano ferme

come bombe di fango innescate, le tozze teste scoreggianti.

Ebbi nausea, voltai le spalle e corsi via. i grandi re della [melma

si erano radunati là per vendicarsi e sapevo

che se avessi immerso la mano le uova me l’avrebbero

 

Traduzione di Marco Sonzogni.

 

Non sorprende che questa poesia abbia dato il titolo alla raccolta di cui fotografa le coordinate topografiche ed esistenziali attraverso gli occhi attenti e sorpresi dell’infanzia. L’esperienza del mondo naturale è un rito di passaggio che porta Heaney—tra familiarità e curiositas, conoscenza e consapevolezza, sorpresa e paura—a riconoscersi coraggiosamente in un “gran rifiuto”. La parola “morte”—preferita nel titolo al “fine” della prima versione a stampa nella rivista «Poetry Ireland» (1965)—indica infatti un’esperienza definitiva, che segna per sempre. La natura non sarà più oggetto né di esperienza panica, né di pura contemplazione meravigliata, né di curiosità e studio fine a se stessi (tutti significati, antichi e moderni, del termine naturalist), bensì una strada che porta alla fine dentro se stesso e dentro alla propria storia. Una vera e propria «recherche du temps perdu» del poeta, «una riflessione sulla perdita: del tempo, dell’infanzia, dell’intimità con la natura, di una lingua e di una cultura» come l’ha definita Elmer Kennedy-Andrews.

 

ph. Giovanna Iorio

 

La penisola

da Door into the Dark (Una porta sul buio, 1969):

 

Quando non hai più niente da dire, guida

per un giorno intorno alla penisola.


Il cielo è alto come su una pista di decollo,

la terra non ha segnali: non c’è arrivo

 

ma un attraversamento, pur sempre sfiorando l’approdo.

A sera gli orizzonti si bevono il mare e i colli,


il campo arato ingoia la facciata sbiancata a calce


e sei di nuovo al buio. Ricorda, adesso,

 

il litorale invetriato e il ceppo controluce,


lo scoglio dove i frangenti si sbrindellavano in stracci,

gli uccelli sospesi sui lunghi trampoli,


isole galoppanti nella nebbia verso il largo,

 

e torna a casa, ancora con niente da dire,


tranne che ora decifrerai ogni paesaggio


con questo: cose fondate sulla propria forma e basta,

acqua e terra ai loro estremi.

 

Traduzione di Roberto Mussapi.

 

Heaney ha scritto questi versi—uno dei tanti esempi di poesia-meditazione di cui era maestro—dopo un giro in macchina lungo una penisola nordirlandese di cui non viene detto il nome, ma che l’articolo determinativo segnala come numinosa, luogo primordiale e preistorico. Un luogo che assume così il ruolo di proto-destinazione in cui tutte le cose sono «fondate sulla propria forma e basta»: «acqua e terra», essenze estreme e dunque pure e incorruttibili, che sono e restano libere dalle parole con cui si cerchi di esperimerle (anche il nome geografico, quindi, non è necessario, benché Heaney l’abbia poi identificata con la penisola di Ards, a est di Belfast). Questa realizzazione diventa subito misura, memoria e monito per chi ha scelto la scrittura come strumento di conoscenza e di testimonianza.  

 

 

Una canzone nuova

da Wintering Out (Traversare l’inverno, 1972)

 

Ho incontrato una ragazza di Derrygarve


e il nome, muschio potente e perduto,

richiamava del fiume le lunghe curve,


il lampo blu di un martin pescatore al tramonto

 

e pietre di guado come neri molari

affossati nell’acqua, lo smalto sibillino

del mulinello, il Moyola


dilettoso sotto alberi d’ontano.

 

E Derrygarve, ho pensato, era soltanto:

musica scomparsa, acqua crepuscolare –

un’amabile libagione del passato


versata da questa fortuita figlia vestale.

 

Ma è ora che si sollevino le nostre lingue fluviali

e cessino di lambire il fondo di rifugi natii


per inondare, con un abbraccio di vocali,

possedimenti recintati da consonanti.

 

E arruoleremo upperlands e Castledawson,

e ciascun insediamento fortificato –


come i prati del candeggio dall’erba ripresi –

un vocabolo, come bullaun e rath.

 

Traduzione di Marco Sonzogni.

 

In questo altro testo toponomastico, e con l’intercessione musaica di una ragazza, Heaney recupera la tradizione, il profumo e il suono di nomi gaelici. «E il nome agì», con Montale: basta quindi un vocabolo per riversare il sinuoso abbraccio di vocali del fiume Moyola su possedimenti recintati da consonanti. Heaney stesso ha spiegato il significato allegorico di questa poesia: «Io vedo le consonanti come la presenza inglese in Irlanda e le vocali come la presenza indigena. La poesia è stata scritta nei primi anni ’70, è una poesia sui diritti civili nella quale le vocali protestano contro il dominio delle consonanti. Parla dal punto di vista del popolo irlandese indigeno che ha perduto la lingua irlandese. Esso capisce che deve far suo l’inglese e renderlo altrettanto nativo quanto parole irlandesi originali come rath e bullaun. Ma anche i colonizzatori devono accettare di essere naturalizzati e cominciare ad abitare l’Irlanda immaginativamente». Diversi critici hanno sottolineato come le parole e le immagini scelte dal poeta alternino richiami all’insurrezione e alla lotta ad accostamenti pacifici: un contrasto voluto che riflette come Heaney prediliga muovere il suo pensiero bilanciando, come ha scritto Henry Hart, contrary progressions.

 

Prosegue qui.

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