Speciale

La risemantizzazione romantica del bandito

17 Luglio 2011

Il merito di Walter Scott, in Ivanhoe, è stato quello di rimettere in auge, tra i primi e con maggior successo, l’età dei raid, il Medioevo, nella sua versione idealizzata, fatta di “tanti prodi campioni, ben montati e fastosamente armati”, pronti all’impresa e all’avventura, da ammirare “fermi sulle loro selle da combattimento come colonne d’acciaio”. In più ha gettato un ponte tra il mondo dei cavalieri e quello delle “bande di gagliardi fuorilegge” che vivono nelle foreste nelle canzoni popolari. Per esempio Gurth s’imbatte nei banditi di Robin Hood, che decidono di lasciargli i denari del suo padrone e protagonista del romanzo, ed anzi dichiarano: “È troppo simile a noi perché noi si possa dargli delle noie: i cani non aggrediscono i cani là dove ci sono in abbondanza volpi e lupi”. Inoltre danno la possibilità anche al servo di conservare i propri averi battendosi ai bastoni ferrati contro uno di loro in singolar tenzone; quando Gurth atterra l’avversario “ Bel colpo – esclamano i banditi – Vivano sempre i bei combattimenti e la vecchia Inghilterra!”. Quest’ultima battuta introduce l’elemento decisivo, ovvero la risemantizzazione politico-nazionalistica del Medioevo, ivi compresi i briganti (Robin Hood sarà infatti a fianco di Ivanhoe nell’aiuto portato a re Riccardo per riprendersi il trono).

 

In Ivanhoe fa da sottofondo alle avventure, fin dalle prime pagine, il conflitto etnico-politico che ancora cova sotto le ceneri tra i vinti Sassoni e i Normanni vincitori. Di Gurth e del suo padrone Cedric (padre del protagonista che proscrive perché fedele al normanno Riccardo e per dare in sposa la protetta Rowena a un nobile sassone) il priore Aymer dice al templare Brian che appartengono ad una “razza selvaggia fiera e intrattabile”. In tutto il ciclo dei romanzi scozzesi si delinea un grande affresco del conflitto tra Scozia ed Inghilterra, con una perenne reviviscenza del sentimento nazionale anche dopo l’unione del 1707 ad opera della turbolenta corrente dei Giacobiti, i legittimisti favorevoli al ritorno sul trono degli Stuart, spesso sconfinante nel banditismo come per Rob Roy. Scott si mostra “diviso tra due sentimenti, da un lato l’amore per le antiche tradizioni del suo paese e la nostalgia per l’indipendenza perduta, e dall’altro la soddisfazione assennata ma malinconica di appartenere al mondo moderno del progresso commerciale e della dipendenza dall’Inghilterra” (D. Daiches); e se in fondo prevale in lui ragionevolmente il secondo aspetto, offre però un potente impulso letterario alla causa dei popoli ancora privi di stato.

 

La risemantizzazione positiva del raider per eccellenza, il bandito, ricorre nella letteratura romantica di tutte le nazioni. Il fascino del proscritto, che si scontra con la società costituita ma spesso ingiusta e intollerante, si staglia con personalità abnorme e viene infine sconfitto, tocca evidentemente in profondità il sentire ferito e ribelle dello scrittore di primo Ottocento. Victor Hugo dedica un’intera opera, tra l’altro capace di scatenare vivaci polemiche come segno dell’irruzione di una nuova generazione sulla scena letteraria, a un proscritto per motivi politici, quel Don Giovanni d’Aragona che si cela sotto le spoglie di Hernani e dichiara all’amata Donna Sol: “Perché, se non lo sai ancora, io sono un bandito! Quando mi davano la caccia per tutta la Spagna, solo la vecchia Catalogna, con le sue foreste e i suoi monti inaccessibili, tra le sue rocce dove solo l’aquila può scorgerti, mi ha accolto come una madre. Sono cresciuto tra i suoi montanari liberi, poveri, severi e domani, se la mia voce fa risuonare questo corno, tremila dei suoi eroi giungeranno subito davanti a me”. In Ruy Blas si trova Don Cesare di Bazan che cambia invece la sua identità nel terribile Zafari per motivi molto meno ideali (“Ero ricco, possedevo terre e castelli: potevo permettermi il lusso di mantenere delle amanti. Bah! Non avevo ancora compiuto vent’anni e mi ero già mangiato tutto”) e tuttavia, quando il cugino Don Sallustio gli propone di far cadere in una trappola la Regina, rifiuta con sdegno mostrando comunque la propria superiorità morale: “Addio! Tra noi due, Dio sa distinguere il giusto. Coi cortigiani, coi vostri pari, Don Sallustio, io vi lascio per restare qui, tra i furfanti. Io vivo coi lupi, non coi serpenti.”

 

È la letteratura tedesca drammatica a delineare per prima la tipologia di bandito che circola durante il Romanticismo, quando Schiller riesce a mettere in scena a Mannheim nel gennaio 1782, con grande successo e pari scandalo, la tragedia I Masnadieri. Karl Moor, il protagonista allontanato dal padre per gli intrighi del fratello come già accadeva nella novella Per la storia del cuore umano di Schubart, possiede i connotati superomistici dell’eroe romantico bello e maledetto. Il ritratto tutto in negativo tracciato dal fratello Franz nella prima scena del primo atto, degno rappresentante della società filistea e attaccata al denaro, sbalza invece in rilievo per contrasto tutte le qualità grandi e funeste “dell’anima di fuoco”. Costretto alla rapina dalle invidie familiari, Karl ha con sé libertini e spiantati che in buona parte riesce a tenere a freno sottoponendoli a un codice d’onore e a trasformarli in veri combattenti, anche se l’elemento politico viene toccato fuggevolmente soltanto in una sua speranza: “Immagina un esercito di ragazzi in gamba come me, e la Germania diventerebbe una repubblica in confronto alla quale Sparta e Roma sarebbero conventi di monacelle”. Ancora una volta si imprime tuttavia nei raid narrati – la liberazione di un compagno o l’assalto a un ricco truffatore – la figura geniale, assetata di giustizia e libertà assolute, che da sé si dà la propria legge: “Egli non uccide come voi per il bottino; quando il denaro è a sua disposizione non se ne occupa più; è anzi il terzo della preda, che gli spetta di diritto, egli lo regala agli orfani o ne dispone per far studiare qualche giovane ben dotato. Ma se gli capita di poter fare la festa a uno di quei signorotti […]”.

 

Il racconto lungo Michael Kohlhaas di Kleist, indebitamente sfrondato della sua profondità metaforica e filosofica sulla legge e la giustizia, presenta l’ennesima storia di torti e di soperchierie che creano un feroce bandito. Il mercante di cavalli diventa così “uno degli uomini più onesti e al tempo stesso più spaventevoli del tempo suo […] Il senso di giustizia, infatti, fece di lui un brigante e un assassino”. Dopo una lunga lotta con la burocrazia egli ottiene finalmente che il barone Venceslao di Tronka venga condannato a ricondurgli i morelli sottratti e sfiancati dal lavoro nei campi e a ingrassarli di persona nelle sue stalle; dato che il signorotto ignora l’intimazione scatta il primo raid punitivo di colui che sarà il futuro terrore della Germania nordorientale: “Kohlhaas vendette la casa, spedì i bambini, ben sistemati in una carrozza, oltre confine, radunò, sul far della notte, anche gli altri servi, sette di numero, ognuno dei quali gli era fedele come oro schietto, li armò, li fece salire a cavallo, e si mosse verso il castello di Tronka […] Così cala dal cielo l’Angelo del Giudizio […] Quando spuntò il mattino, tutto il castello, fuorché le mura, era in cenere, e non si trovava più nessuno, se non Kohlhaas e i suoi sette servi”.

 

Il romanzo più che il teatro può però mostrare con maggiore efficacia il raid spiegato all’interno di una guerriglia nazionale. Ciò fa Balzac nel suo romanzo d’esordio, Les Chouans, che riprendendo per un’unica volta il modello storico di Scott lo avvicina al suo tempo, il 1799, e lo ambienta nella Bretagna ribelle alla piena annessione con la Francia rivoluzionaria. In questa zona arretrata il popolo, assai attaccato alla propria nobiltà legittimista (il marchese di Mountouran, detto Le Gars) e ai propri sacerdoti pronti a benedirne i fucili prima degli scontri durante le messe celebrate nella foresta, dà vita spontaneamente a una serie di azioni contro i reparti della guardia nazionale considerati come invasori. Il giovane Balzac, ancora animato da un temperato giacobinismo, si recò sul posto con curioso sguardo etnografico, e da ospite presso un barone del luogo restituì i caratteri “semiumani” degli Sciuani. In primo luogo si sofferma nelle prime pagine sul vestiario tradizionale e sull’aspetto fisico ai limiti dell’animalizzazione dei contadini bretoni: “Andavano a piedi nudi, avendo come solo vestito una grande pelle di capra che li copriva dal collo ai ginocchi ed un pantalone di tela bianca assai rozza, di cui la cattiva filatura segnalava l’arretratezza industriale del paese. Le ciocche lisce dei loro lunghi capelli si univano così abitualmente ai peli della pelle di capra coprendo così completamente i loro volti abbassati verso terra che si poteva facilmente prendere quella pelle per la loro”. Segue il carattere chiuso e sospettoso, fiero e indomabile con cui si devono confrontare i coscritti: “Tutti, borghesi e contadini, conservavano l’impronta di una malinconia profonda; il loro silenzio aveva qualcosa di selvaggio e sembravano curvati sotto il giogo d’uno stesso pensiero, terribile senza dubbio, ma accuratamente nascosto, perché le loro figure erano impenetrabili”. Infine, novità originale, la sensibilità verso il paesaggio di boschi, vallate e rocce di un’esotica provincia analiticamente e amorosamente dipinta in lunghe descrizioni, anche per il valore simbiotico con i personaggi e per il ruolo decisivo nell’attuazione di una guerriglia capace di tenere in scacco il formidabile esercito rivoluzionario.

 

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