In mostra all’ADI Design Museum / La strana coppia: Zanuso e Mendini
Non c'è modo più efficace per comprendere il linguaggio del design e le scelte culturali che lo sottendono che studiarne e analizzarne i prodotti, ovvero gli oggetti. Se poi se ne mettono a confronto due che abbiano la medesima destinazione d'uso, ma che siano frutto di autori diversi, appartenenti, per giunta, a scuole di pensiero storico-artistico diverse, sarà proprio il gioco delle loro differenze a renderne palese la comprensione. Esattamente come ci insegna a fare l'archeologia per la datazione e la classificazione dei manufatti, compariamo allora due poltrone, progettate a distanza di tempo da due designer che hanno in comune solamente l'area di formazione, Milano e il suo Politecnico, e una successiva carriera internazionale, portata avanti da entrambi nella città meneghina, ma non la temperie storico-culturale, né la poetica e neppure il linguaggio progettuale: la Poltrona Lady, (firmata da Marco Zanuso per Arflex nel 1951) e la Poltrona di Proust (firmata da Alessandro Mendini e autoprodotta con Studio Alchimia nel 1976).
Quando Marco Zanuso (1916 - 2001) concepisce la Lady, sperimenta, insieme alle forme di quel good design di cui è stato uno dei maestri più insigni, anche una nuova tecnica di imbottitura che farà scuola. Com'era nel suo modus operandi, egli, infatti, studia, su incarico della Pirelli, di cui Arflex costituiva il brand applicato all'arredamento, la possibilità di impiegare il nastro Cord e la gommapiuma in luogo delle antiche tecniche di imbottitura (molle metalliche e vari strati di feltro o crine) ottenuta da tre stampi che ne consentissero la produzione in serie, con il conseguente abbattimento dei costi e la velocizzazione del procedimento esecutivo, così come la cultura industriale di quel momento storico prevedeva un po' per tutte le merci. La silhouette sinuosa ed elegante della Lady, poi, così moderna e persino sensuale, con quei piedini in acciaio cromato che sembrano sospenderla nello spazio, come se galleggiasse, ne fanno un oggetto di una bellezza quasi struggente che ci parla dell'ottimismo della ragione proprio di quel rassicurante concetto di modernità insito negli anni del boom economico.
Se la Lady incarna dunque il linguaggio del modernismo in tutte le sue accezioni, la Poltrona di Proust, al contrario, lo contesta con evidente determinazione.
Alessandro Mendini (1931 - 2019) la crea infatti in un frangente culturale in cui, entrate ormai in crisi quelle ottimistiche certezze, retaggio di una lunga coda positivista, una nuova 'condizione', la 'condizione postmoderna', si sta affacciando al palcoscenico della storia. La Proust vede infatti la luce tre anni prima dell’uscita del fondamentale testo di Jean-François Lyorard La condition postmoderne, quasi a volerne preannunciare gli assunti.
Avversando, dunque, tanto il processo industriale, quanto la produzione in serie e la rassicurante bellezza del good design, Mendini intraprende un percorso esattamente agli antipodi di quello compiuto da Zanuso, che si concretizza in una sorta di à rebours, un ritorno cioè tanto al pezzo unico manufatto, quanto a forme 'acriticamente' desunte dalla tradizione, che il Movimento Moderno aveva risolutamente respinto.
Tale acriticità è di sicuro erede del bergsonismo e della casualità dadaista, ne è, anzi, l'ultimo epigono in campo artistico, del quale Mendini ci propone una interpretazione assai diversa, e sicuramente più 'sontuosa', gioviale e ironica rispetto a quella precedentemente offerta dalle varie declinazioni della sobria e severa arte concettuale. Per la Proust, l'architetto milanese si avvale infatti di una poltrona già esistente (ed anche piuttosto brutta, quasi consona all'estetica dell'antigrazioso di chiara matrice espressionista, alla quale, pure, egli fa l'occhiolino) prodotta industrialmente, su cui poi interviene con un procedimento di colorazione a piccoli punti (mentore Paul Signac) eseguito completamente à la main, che farà di ciascun pezzo un unicum. Inoltre, la forma della poltrona, un revival cippendal stampato, contraddice con fermezza la sintesi forma-funzione professata dal Movimento Moderno e, insieme alla sua livrea cromatica, fa di questa seduta un oggetto "sul crinale del kitsch, al limite del sublime" (qui su Doppiozero).
Mi viene spontaneo un parallelo, ovviamente non formale ma di contenuti, tra questi due designer e due artisti fiorentini del XV secolo, anzi, una proporzione: Zanuso : Masaccio = Mendini : Rosso Fiorentino. E spiego il perché. Entrambi gli artisti toscani, vissuti ciascuno all'alba di un momento storico-artistico in rivolgente mutazione, hanno infatti agito da iniziatori di linguaggi pittorici e da autori di modi nuovi di intendere l'arte. Esattamente come è poi accaduto a Zanuso e a Mendini che, trovatisi ad operare in stagioni di cambiamento economico e culturale, sono stati entrambi degli innovatori nel campo del design, se pur con modi poeticamente e tecnicamente assai dissimili tra loro.
Perciò: Zanuso (per il suo rigore scientifico, la sua creatività razionale e il suo sperimentalismo nell'uso della tecnologia) : Masaccio (per il suo rigore scientifico, la sua creatività razionale e il suo pionierismo nell'uso della prospettiva) = Mendini (per la sua creatività eccentrica e il suo acceso cromatismo) : Rosso Fiorentino (per la sua creatività eccentrica e il suo acceso cromatismo).
Comunque sia, non si può negare che, se accostati, Zanuso e Mendini costituiscano davvero una ben strana coppia, almeno di primo acchito.
Ed è proprio su questa strana coppia che all'ADI Design Museum si può visitare una mostra, fino al 22 giugno. Con la curatela di Pierluigi Nicolin, coadiuvato da un gruppo di ricerca composto da Nina Bassoli, Gaia Piccarolo e Maite García Sanchis, la rassegna è stata allestita da Leonardo Sonnoli che, insieme a Irene Bacchi, ha curato anche il progetto grafico del catalogo, edito da Electa (pp. 160, €. 30,00), con contributi critici di Aldo Colonetti, Manolo De Giorgi, Matteo Vercelloni, Sonia Calzoni, Giovanni Comoglio, Franco Raggi, Stefano Casciano, Amedeo Buccelleni.
Così ne scrive Nicolin:
"L'ADI mi ha invitato ad allestire nello spazio del Museo del Design una mostra sulle figure di Marco Zanuso di Alessandro Mendini chiedendomi di metterle a confronto e, se possibile, disporle in parallelo, affidandomi con questo il compito arduo di verificare la validità di un concetto particolare come quello che va sotto il nome di coincidentia oppositorum: una figura che pure guardando un modo di pensare il limite delle cose è pur sempre un tentativo di affrontare il paradosso dell'unione degli opposti."
Dopo un'anteprima biografica, con fotografie e testi collocati su tralicci lignei posti in prossimità del book-shop dello spazio progettato da Italo Lupi, Mara Servetto e Ico Migliore, la mostra e il dialogo fra i due protagonisti proseguono su sei moduli per parte, fronteggiantisi nel corpo centrale dell'edificio del museo.
L'opera dei due architetti-designer è infatti analizzata attraverso sei lenti tematiche cadauno, affrontate ricorrendo a disegni, modelli tridimensionali, oggetti di design, fotografie e testi, esposti al pubblico su delle intelaiature lignee che ricordano le quinte teatrali, chissà se anche in omaggio all'amore di Marco Zanuso per il teatro, che lo ha visto protagonista, insieme a Giorgio Grassi e a Giorgio Strehler della scena culturale milanese degli anni sessanta al Piccolo Teatro di Via Rovello prima, poi culminata nella sua progettazione e realizzazione del Teatro Studio di Lanza.
È bello pensarlo.
Le sei sezioni concernenti l'opera di Zanuso, trattano dei seguenti temi: Comfort, dove sono riuniti i lavori di design dedicati alle sedute, realizzati tra gli anni cinquanta e sessanta per Arflex e Gavina, tra i quali c'è la Poltrona Lady. Nuova estetica, che raccoglie i lavori più 'tecnonoligici' messi a punto tra gli anni sessanta e settanta per Brionvega, Kartell e Vortice. Grande scala, con i suoi interventi architettonici su grande scala, appunto, quali i due stabilimenti per Olivetti in Argentina e in Brasile e quello dell'IBM di Pomezia. Costruzione modulare, dove sono presentate le sue molte architetture fondate, sul principio della modularità, tra le quali primeggia, insieme allo stabilimento Brion di Caselle d'Asolo, il Teatro Studio di Milano. Innovazione, comprendente invece i suoi progetti più avveniristici, quali il telefono Grillo del 1966 (con Richard Sapper) che anticipa addirittura il telefono cellulare; il televisore Doney (Brionvega, 1962) la cui scocca trasparente sarà ripresa da Apple trent'anni dopo; l'abitacolo progettato per la mostra Italy: The New Domestic Landscape, curata da Emilio Ambasz al MoMA nel 1972, etc. Muri di Pietra, dedicato alle sue architetture più intime, come le case d'abitazione in varie zone del mondo e il cimitero Muda-Maè a Longarone del 1966, così evocatore di emozioni.
Le sezioni dedicate a Mendini, invece, sono così articolate: Alchimia, in cui sono raccolti i progetti da lui realizzati quando faceva parte del gruppo milanese Studio Alchimia (1977-1992), tra i quali la Poltrona di Proust. Global toys, il cui nome parafrasa quello della Global Tools (1973-1975) "una nuova scuola di architettura e design volta a sovvertire le dinamiche accademiche e produttive legate al progetto", dove sono esposti anche i suoi oggetti di redesign e le sue architetture utopiche. Decorazioni, che raccoglie per la maggior parte i suoi lavori per Alessi, di cui è stato a lungo direttore artistico, ideatore di straordinari progetti come il Tea & Coffee Piazza (qui su Doppiozero). Musei, dall'olandese Groningen Museum (1989-1994), al Triennale Museum di Incheon, nella Corea del Sud (2009), alle fermate Mater Dei e Salvator Rosa della metropolitana di Napoli. Case, Casa Olda, Val Taleggio Bg. (2006); Casa-Atelier Mendini, Milano, (1989); appartamento nr 50 di Le Corbusier nell'Unitè d'habitation di Marsiglia, (2016). Testo e Immagine, dove, accanto all’esperienza della Domus Academy (la scuola postuniversitaria di design da lui fondata a Milano nel 1982, insieme ad Andrea Branzi, Alessandro Guerriero, Valerio Castelli e Maria Grazia Mazzocchi) sono esposte al pubblico tutte le copertine delle riviste da lui dirette: Casabella (giugno 1970-marzo 1976); Modo (giugno 1977-1981); Domus (luglio 1979-luglio 1985); (aprile 2010-aprile 2011); Domus Novant’Anni, 2018; Ollo (1988-1990).
La rassegna allestita all'ADI Design Museum, nonostante il tema specialistico, è facilmente fruibile anche dal pubblico più eterogeneo. Vi risulta infatti piuttosto efficace il dialogo serrato ma non pedante, anzi piuttosto easy, tra la componente divulgativa (gli esaustivi apparati scritti e le fotografie) e la parte più spettacolare, costituita dagli oggetti di design veri e propri, esposti insieme alle maquettes delle architetture e alle copertine delle riviste. Grazie all'espediente delle "quinte teatrali" tridimensionali, poi, il visitatore è quasi indotto a costruirsi da sé un proprio percorso nel percorso, come se sfogliasse le pagine di un libro gigantesco e contemporaneamente potesse anche entrare dentro (in senso letterale) a piccoli ambienti costruiti in cui 'trovare' le cose di cui dicono i testi, come se stesse giocando ad una mini caccia al tesoro, divertente sì, ma anche molto istruttiva, che si rinnova di quinta in quinta, di tema in tema.
E questo è teatro e il teatro piaceva moltissimo tanto a Zanuso quanto a Mendini.