3 / La tenacia del parassita
Uno degli aspetti più rilevanti della rivoluzione pasteuriana, spiega Bruno Latour in I microbi, è l’immediata connessione fra il momento della ricerca e quello delle applicazioni, senza le abituali mediazioni imposte da industriali o militari. Sulla Revue scientifique, nata negli anni Sessanta dell’Ottocento, si comincia a invocare la necessità di sfuggire alla degenerescenza (il termine francese ha il pregio di evidenziare il differenziale del mutamento). Bisogna affidarsi alla medicina, soprattutto a quella preventiva, per garantire il progresso nell’ordine e attenuare il conflitto fra salute e ricchezza (health e wealth): la seconda è minacciata dalla prima, le malattie rallentano la produzione, frenano il commercio. Le periferie sono pericolosi serbatoi microbici, da cui il morbo può dilagare anche nei palazzi delle classi agiate e del potere economico-politico. Dopo la disfatta di Sedan del 1870 si fanno pressanti le invocazioni per la resurrezione della nazione francese: alla medicina si chiede salute e salvezza, luoghi di lavoro sanificati, soldati robusti per la revanche. Non a caso nel ciclo dei Rougon-Macquart, composti a partire dagli anni Settanta e ambientati al tempo del Secondo Impero, il portavoce di Émile Zola è il dottor Pascal a cui è dedicato l’ultimo dei venti romanzi (Medusa, 2008). Lo sguardo del medico indaga i mali biologici e sociali che percorrono l’albero genealogico della famiglia e che scorrono lungo la società intera; il sogno del dottore è la fabbricazione di un elisir di lunga vita, a base di cervella di montoni, in modo non dissimile dalle contemporanee sperimentazioni tentate dal grande neurologo Brown-Séquart.
La diffusione del pasteurismo non fu però immediata. I medici sono a lungo perplessi e timorosi sul ricorso alle vaccinazioni, molti igienisti faticano ad associare il contagio alla presenza del microbo. All’esposizione d’igiene a Londra nel 1884, dove si esaltano le tecniche disinfettanti, ad esempio contro il colera, la batteriologia non è che un’increspatura di superficie, nota Latour. E un attento cultore dei progressi nelle scienze come Jules Verne, nell’immaginare in I cinquecento milioni della Bégum (1879) un’utopica città della salute, la pacifica France-Ville, ignora l’innovazione pasteuriana. Ma quest’ultima offre non solo la possibilità di svelare quei nemici invisibili che si nascondono nell’aria che respiriamo e nell’acqua che beviamo, soprattutto indica finalmente dove è opportuno colpire. Nel compiersi della transizione della medicina dall’empiria alla scienza, diventa possibile lavorare sul corpo della società intera, dalla sperimentazione sugli animali si è passati a quella sugli uomini, comincia la pratica della vaccinazione di massa. L’alleanza con i pasteuriani consente agli igienisti di rendersi moderni facendo di tutti gli altri dei superati: sanno intercettare gli spostamenti dei microbi nei “punti di passaggio obbligati”, là dove avviene la trasmissione del morbo, senza ricorrere alla pratica di sgombrare gli ospedali o di costruire nuovi “lazzaretti”. I loro piani di risanamento vengono accolti dai poteri pubblici; riforme sanitarie, in Francia e altrove, sviluppano il sistema antisettico nelle sale chirurgiche, dove le amputazioni provocavano un numero altissimo di infezioni mortali. Bastano elementari precauzioni per impedire la trasmissione dei germi infetti responsabili della cancrena: l’igiene delle mani dei medici, il lavaggio delle piaghe, la disinfezione degli strumenti chirurgici, insomma la pulizia assoluta di tutto ciò che entra in contatto con il ferito, mediante le sostanze alla base dell’antisepsi dell’epoca, acido fenico, sublimato, iodoformio. Il dottor Semmelweiss, ricordato da Céline nella sua tesi di laurea in medicina (1924), consigliava ai medici, reduci da un intervento chirurgico, di lavarsi le mani con una soluzione di cloruro di calcio prima di assistere una partoriente, al fine di evitare per trasmissione batterica l’insorgere delle febbri puerperali. Ma si era ancora negli anni Quaranta dell’Ottocento, Semmelweiss non poteva contare sul sostegno delle scoperte microbiche di Pasteur: venne deriso e osteggiato dalla corporazione dei medici che non gradivano farsi passare per untori.
Nuovi attori, i microbi, ovunque presenti come terzi in tutte le relazioni, compaiono sulla scena sociale, ma accanto a loro giungono i pasteuriani, che sanno svelarne la presenza e debellarli. Se volessimo ottenere rapporti sociali puri, dovremmo estirpare i microbi, ma per farlo dobbiamo mettere ovunque, nei punti di passaggio, i rappresentanti degli igienisti. Solo dopo che il birraio avrà pastorizzato la birra, solo dopo che l’allevatore avrà pastorizzato il latte di mucche o pecore, si potranno avere scambi economici con i clienti. L’epoca, scrive Latour, si riempie di persone che si fanno portavoci di forze pericolose e oscure, da conoscere e controllare. Come Pasteur, anche Freud trova dei tesori fino ad allora ignoti, non solo nei lapsus e nelle inezie della vita quotidiana, ma nel marciume e nelle immondizie delle soffitte o delle cantine della vita psichica. Nuovi attori ridefiniscono il legame sociale, si insediano “fra” medico e paziente, eschimese e antropologo, partoriente e ostetrica, prostituta e cliente. E se non vuole corrompersi o sfaldarsi, la società deve fare entrare nel gioco delle relazioni umane anche i microbi. Già allora si levavano voci a ricordare quel che abbiamo sentito negli ultimi mesi: il contagio ci rende tutti solidali gli uni con gli altri, “nessuna scienza come l’igiene impone altrettanta solidarietà alle società umane”, i suoi benefici vanno estesi a tutti, perché una casa malsana minaccia una città intera.
Le paure di quel finire dell’Ottocento, non molto diverse da quelle che coltiviamo oggi, rinnovano l’immaginario arcaico del morbo che insidia la salute umana: l’innovazione scientifica non cancella il passato mitico alle sue spalle, spesso lo risveglia lungo i solchi tracciati da credenze millenarie, cristallizzate in tradizioni popolari o fedi religiose. La scienza nascente dell’igiene sorge sullo sfondo di una società moralistica, che avverte il senso della decrepitezza di quell’Occidente che aveva confidato nelle “magnifiche sorti e progressive”. La sperimentazione ha indicato con esattezza l’identità dell’impuro e il pretesto scientifico consente al fantasma puritano della pulizia di incarnare il male nel nuovo diavolo microbico. La Nanà, cocotte adolescente protagonista del romanzo che Zola compone nel 1880, muore sfigurata dal vaiolo (e con lei il figlio di tre anni), mentre la Francia subisce la disfatta sotto i colpi dei cannoni prussiani. Nanà (il greco nanos o nannos equivale a piccolezza microscopica) muore per colpa di un virus, ma lei stessa è il virus: è la “mosca d’oro” che diffonde nel bel mondo aristocratico e alto-borghese la putredine delle periferie di Parigi, propaga l’infezione e decompone il corpo sociale del Secondo Impero, già in via di disfacimento. La circolazione del parassita sconvolge le norme del matrimonio e le consistenze dei patrimoni, interrompe la catena dell’eredità mentre trasmette un’ereditarietà malata.
Per sconfiggere gli agenti delle malattie infettive si rinnovano i benefici dell’igiene, vita all’aperto, bagni in mare, purezza dell’aria, altitudine della montagna. Pulire significa ora cacciare gli agenti microscopici portatori di corruzione, espellere la sporcizia in cui si annidano i parassiti che diffondono l’epidemia. La terapeutica filosofica che Nietzsche sviluppa in L’Anticristo (1888) si risolve in una crociata per sconfiggere i microbi, ha mostrato Michel Serres in “L’Anticristo: una chimica delle sensazioni e delle idee” (Hermès IV, La distribution, Éditions de Minuit, 1977). Il testo di Nietzsche è centrato attorno alla dinamica dell’infezione e del contagio, fa ricorso al lessico abituale dell’ingiuria che prende in prestito i suoi “valori” dalla putrefazione e dalla deiezione. Le “metafore ossessive” più frequenti formano una costellazione in cui a prevalere sono “marciume”, “decomposizione”, “sporcizia” e “corruzione”, e poi “epidemia”, “parassita”, “degenerescenza”, come se il libro fosse un figlio, non proprio legittimo, dell’età pasteuriana, parente comunque di un confuso darwinismo sociale.
Il parassita da combattere è diventato il cristiano, “l’uomo animale malato”, che rinnega e calunnia la naturalità del vivere in ogni suo istinto e pensiero, che prende le parti di tutto quanto è debole e malriuscito, in nome di quei “disvalori” che sono la pietà e la compassione. I sacerdoti, scrive Nietzsche, rappresentano “una specie parassitaria di uomini, che prospera unicamente a spese di tutti i sani organismi vitali”; come tutti i parassiti, essi intervengono negli eventi naturali primari, nascita, matrimonio, malattia, morte: “tutte le cose della vita sono ordinate in modo che il prete è ovunque indispensabile”.
Sotto il lessico della microbiologia, Nietzsche riattiva il vecchio linguaggio della purificazione, torna sulle orme di una formazione culturale attiva da secoli, se non da millenni. Più che un’analisi virulenta del cristianesimo, siamo di fronte, rileva Serres, alla descrizione fantasiosa delle attività dei virus virulenti: il medico in cui il Nietzsche dell’Anticristo si incarna precede la rivoluzione di Pasteur, ignora gli anticorpi e i vaccini. La medicina ippocratica e la psicopatologia della pulizia chiedono di estirpare una malattia contagiosa, invocando una catarsi tragica per espulsione dei vermi infetti. La batteriologia viene interpretata e tradotta in forme religiose, la salute / salvezza impone la cacciata dei microbi e del male, rinnovando il gesto immemoriale del sacro. Nietzsche / Zaratustra compie la sua iniziazione sulle alte vette, lava il terreno con acqua lustrale, apre un tempio, uno spazio chiuso da cui ha cacciato tutti i demoni, nuovi capri espiatori fattisi microscopici. In fondo, anche Nietzsche non fa che comporre un libro sacro. L’Anticristo è un trattato di religione, dove il prefisso anti, che nell’etimo greco rimanda al “contro”, a ciò che contrasta, sembra piuttosto indicare ciò che sta di fronte come a specchio. L’avversione si esprime nei termini delle dicotomie ordinarie che si radicano nell’arcaicità della pre-scienza; non anti ma ante, prima dall’etimo latino, non tanto perché Nietzsche riporta in auge la religiosità cara a Dioniso, quanto perché scrive un nuovo catechismo, forse il più antico del mondo, qualcosa di simile al Levitico: emana prescrizioni di purezza, stabilisce norme relative ai sacrifici, alla consacrazione e alla custodia del tempio.
Dieci anni prima, nel 1878, Umano, troppo umano aveva annunciato fin dall’inizio “una chimica delle sensazioni e delle idee”, secondo la forma tradizionale dell’interrogazione filosofica: come una cosa può nascere dal suo contrario? la ragione dalla sragione, la generosità dall’egoismo, la verità dall’errore, ecc. Le opposizioni binarie si rivelano banali esagerazioni, fondate su quella piega platonica della Ratio occidentale che induce a pensare un’essenza, una cosa in sé, dimentica della sua origine. In realtà, non esiste né azione generosa né punto di vista disinteressato, si tratta semplicemente di sublimazioni in senso chimico, in cui l’elemento fondativo si è come evaporato, ma che l’indagine severa può riscoprire. Le vecchie opposizioni, proprie di una fisica degli elementi e di una metafisica delle essenze, scompaiono, rileva Serres, con la nuova chimica del Settecento: solido, liquido, gassoso non sono opposti, come vuole la concezione popolare, siamo di fronte a vaporizzazioni, a volatizzazioni, in cui avviene il passaggio dal solido al gassoso (come nella produzione dei profumi), talora grazie alla potenza energetica del fuoco. Al posto di essenze stabili, che fisserebbero per sempre un’identità immodificabile, ecco le trasmutazioni della materia, al posto di oggetti intesi come sostanze invarianti, ecco un succedersi di fasi. Ma della biochimica nascente, quella che con Pasteur mostra il microbo intervenire nei punti di soglia fra materiale e organico, fra la morte e la vita, tra fermentazione e putrefazione, Nietzsche riattiva il sottosuolo teologico, l’arcaico feticismo del puro e dell’infetto: sogna la “grande salute” espellendo la decomposizione, è avverso ai miasmi che si spandono come gas, ai vapori impuri che penetrano nascostamente nei corpi e nelle menti. Le ideologie morali, quelle che sorgono dal risentimento dei deboli nei confronti dei forti, degli schiavi nei confronti dei signori, sono ai suoi occhi i precipitati di una reazione; la corruzione cristiana si propaga secondo una biochimica del contagio, distilla il suo veleno seguendo il flusso decadente della pietà che indebolisce la forza. Diffondendo tali vizi malsani e morbosi, il Dio dei cristiani ha dichiarato la sua inimicizia alla vita, alla volontà di potenza che incrementa la salute. Per invertire la necessità fisica che spegne l’energia lungo la deriva entropica, per compiere la transvalutazione vitale, l’oltre-uomo ha bisogno della Volontà che produca l’elevazione di potenza.
Una volta individuati i germi vettori del male – l’ebreo, Paolo, il prete, il cristiano –, L’Anticristo può procedere ad espellerli, secondo l’arcaica logica sacrificale. È facile riconoscerli perché non amano la pulizia: i cristiani hanno chiuso i bagni pubblici nei luoghi in cui l’Islam li aveva aperti, ricorda Nietzsche. Zaratustra sale in alta montagna, abbandona l’aria corrotta della pianura; ripete, rovesciato, l’evangelico discorso della montagna, che a sua volta rovesciava i valori del mondo, il discorso, che non è mai sceso a valle, sugli ultimi che diventano primi. Pasteur aveva compiuto i suoi esperimenti sulla Mer de Glace del Monte Bianco, Pouchet si era recato sui Pirenei, alla Madaletta. Il freddo dei ghiacciai è uno dei grandi principi della cosmologia nietzschiana, ha osservato Gaston Bachelard (L’air et les songes, 1943; Psicanalisi dell’aria, Red, 2007); grazie ad esso l’aria è resa dinamica e purificatrice, acquista virtù offensive, quella gioiosa cattiveria che risveglia la volontà di potenza. Già il Michelet di La montagna (1868, Il Nuovo Melangolo, 2001), esaltando la virtù rigeneratrice e il valore di iniziazione delle cime alpine, consigliava di vivere in Alta Engadina, a Sils Maria, proprio dove si reca Nietzsche, in fuga da Genova, città marinara dei miasmi e del treponema pallido. La metaforica nietzschiana della “grande salute” si declina nel contrasto fra alto e basso: l’aria delle grandi altezze è la sostanza della libertà e della gioia oltre-umana, consente all’essere di farsi aereo e di rendere la terra leggera: “il mio Alfa e Omega è che tutte le cose grevi divengano lievi, tutti i corpi danzanti, tutti gli spiriti uccello”. La metafisica nietzschiana si avventa contro il cielo, l’oltre-uomo si afferma innalzandosi: voglio e volo si dicono in latino con la stessa parola, volo. “Noi siamo Iperborei”, così esordisce L’Anticristo, la nostra vita è in disparte, fra i ghiacci, lontano dalla “putrida pace” e dalla sozzura del moderno. Il surgelato impedisce la corruzione, blocca la reazione microbica, protegge dalla mescolanza, conserva la purezza del cristallo. Sulla “montagna incantata” si aprono i sanatori, nell’illusione che la pulizia delle altezze possa guarire i tubercolosi, quando in realtà, per la minore pressione atmosferica, ai malati mancava il respiro per carenza di ossigeno.
Non so se Nietzsche apprezzasse il formaggio, quello che precede l’epoca della pastorizzazione, e che si sviluppa da una acclimatazione della putredine. Il formaggio richiede un “brodo di coltura” in cui siano presenti micro-organismi, funghi che macchiano il biancore del latte. Se eliminiamo la sporcizia, finiamo per vivere in uno spazio fragile, un organismo troppo pulito è già sull’orlo della malattia: il Nietzsche spesso infermo non ha compreso che Pasteur ha reso scientifico Mitridate, che non si tratta di perseguire la separazione fra sporco e pulito, di tradurre l’arcaico contrasto fra bene e male in quello tra salute e malattia. “L’inferno è la separazione fra il paradiso e l’inferno”, scrive Michel Serres. La saggezza contadina e la verità scientifica parlano a una sola voce: bisogna acclimatare il male, trasformare il veleno in farmaco, il bacillo in vaccino, “addomesticare” il lievito, come facciamo da migliaia di anni per produrre vino, pane e birra. Molti antibiotici hanno origine da microorganismi: la tirotricina, scoperta da Réné Dubos nel 1939, è sviluppata a partire dal Bacillus brevis (presente in alcuni formaggi); la penicillina, prima che Alexander Fleming la riscopra nel 1928, era stata osservata nella muffa depositata in un pozzo. Per inibire la crescita batterica e uccidere i microbi, facciamo ricorso ad antibiotici isolati dal metabolismo di alcune specie di Penicillium, fungo dalle cui specie ricaviamo formaggi. L’antisettico non è asettico e l’asettico non è segno di salute, ma di décadence, quella che Nietzsche attribuisce alla debolezza cristiana e di cui è invece interprete eminente. L’antico Zaratustra è stato, agli occhi di Nietzsche, il primo ad aver tradotto la morale in termini metafisici e dunque è anche il primo che può rendersi conto del suo fatale errore. Ma lo Zaratustra che si fa profeta dell’oltre-uomo rimane invischiato nella dicotomia arcaica di bene e male, la esprime nel contrasto fra salute e malattia, ricondotte a pulizia e sporcizia. Anche Nietzsche, come Heidegger nei confronti della tradizione ebraica, è portatore di un “debito impensato”: lui, che si voleva nemico del platonismo, della filosofia colpevole di aver inventato il mondo “vero” dell’aldilà, trasforma il regno intelligibile delle idee nel cosmo purificato delle grandi altezze, dove volano gli spiriti liberi e i rapaci. Il mondo intelligibile è passato dai bagni, le Idee sono pulite e purificate, ignorano il fango e il marciume; grazie a un lavoro di filtraggio, la Ragione si è fatta pura, ha elevato la sua diga di fronte all’inondazione dello sporco e della putrefazione.
Il brodo di cultura dell’Anticristo è lo stesso su cui sorgerà il nazismo, l’odio verso l’impuro, il meccanismo di espulsione del parassita: il “discorso epidemiologico per il popolo” ha sostituito quel “platonismo per il popolo” che era per Nietzsche il cristianesimo. Ma la salute, ricorda Serres, ha la forma del formaggio, accoglie l’impuro, lo integra e se in fa forte, lascia agire la putredine. Detestare il formaggio, il pane lievitato, il vino fermentato, cioè le materie che hanno subito una metamorfosi, è già un segnale di decadenza, dell’orrore ascetico di sporcarsi le mani. Pane e vino sono già sostanze transustanziate (prima di esserlo nel simbolismo cristiano), hanno fermentato sulla pasta e bollito nel mosto; panificazione e vinificazione sono trasmutazioni di sostanze. È il formaggio, non l’oltre-uomo, ad essere “al di là del bene e del male”. Al pane e vino transustanziati nel corpo e sangue di Cristo, l’anticristo replica con il sangue marcio dei teologi, con il corpo corrotto dalla malattia paolina, in nome del vino dionisiaco. Ma la chimica dei lieviti, sviluppata dagli studi di Pasteur col conforto delle pratiche agrarie, spiega che la fermentazione non è il bene di contro al male della putrefazione: sono la stessa cosa da cui si producono due esiti opposti, generazione e corruzione. Cristo, il trasmutatore di liquidi – dall’acqua al vino nelle nozze di Cana, dal vino al sangue nell’ultima cena, dal vino all’aceto sulla Croce della Passione –, esorta i discepoli ad essere sale della terra. Una parabola evangelica ricorda che il Regno di Dio è simile al lievito che una donna nasconde nella farina per farla fermentare, rinunciando al pane azzimo, senza lievito né sale e olio, della tradizione della Pasqua ebraica. Nietzsche riconosce che il cristiano è un lievito, ma lo intende come un virus, un micro-organismo che decompone.
Chi ha vissuto a contatto con i parassiti, nel campo di sterminio, fra pulci, pidocchi, il rischio del tifo e di altre patologie contagiose, chi ha tratto dalle scalate in montagna una lezione morale, non disprezza l’impuro. In uno dei racconti di Storie naturali (1966), Primo Levi attribuisce alla tenia (è lei L’amico dell’uomo a cui allude il titolo del racconto) una capacità poetica, a ricordarci che la creatività affonda le sue origini, non nella testa, ma nell’intestino, in quelle zone oscure piene di spore di cui si compone anche il nostro Es, luogo informe di mescolanze da cui può sorgere il nuovo. Dal letame sorge la fertilità del terreno agricolo, nascono i fiori in Via del campo, anche “nella storia, come nella natura, il marciume è il laboratorio della vita”, ricordava il Marx del Capitale. Rievocando, nel capitolo “Azoto” del Sistema periodico (1975), le prime esperienze da chimico nel dopoguerra, Levi racconta la vana ricerca di escrementi di gallina per trarne rossetto con cui abbellire le labbra delle donne. “L’idea di ricavare un cosmetico da un escremento, ossia aureum de stercore, mi divertiva e mi riscaldava il cuore come un ritorno alle origini, quando gli alchimisti ricavavano il fosforo dall’urina […]. Così fa la natura: trae la grazia della felce dalla putredine del sottobosco, e il pascolo dal letame, e ‘laetamen’ non vuol forse dire ‘allietamento’? così mi avevano insegnato in liceo, così era stato per Virgilio, e così ritornava ad essere per me”. L’episodio suona conferma della lezione politico-morale che Levi – lo ricorda il capitolo “Zinco” – aveva ricevuto nel suo primo giorno di laboratorio all’Università torinese, nel 1938, al tempo delle leggi razziali. Il tenero zinco, il “metallo noioso” con cui si facevano i mastelli per la biancheria, è arrendevole di fronte agli acidi, ma “resiste ostinatamente all’attacco” quando è molto puro. Levi non cede alla tentazione, “disgustosamente moralistica”, di elogiare la virtù immacolata o la purezza come protezione dal male. È solo l’impurezza che “dà adito ai mutamenti, cioè alla vita. […] Perché la ruota giri, perché la vita viva, ci vogliono le impurezze, e le impurezze delle impurezze: anche nel terreno, come è noto, se ha da essere fertile. Ci vuole il dissenso, il diverso, il grano di sale e di senape: il fascismo non li vuole, li vieta, e per questo tu non sei fascista; vuole tutti uguali e tu non sei uguale”.
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