L’albero del bene e del male e le consolazioni del pomodoro

26 Marzo 2023

Food writing, food literature, food fiction sono “etichette” diventate in uso per indicare un fenomeno comune nelle società occidentali degli ultimi decenni, vale a dire la vasta produzione letteraria in cui il cibo è oggetto di ricerca, studio, intrattenimento, insomma è sfondo culturale o protagonista di un interesse che non sembra accennare a diminuire.

Un interesse che meriterebbe di essere a sua volta oggetto di studio. Personalmente sono sempre rimasto colpito da un parallelismo, credo solo apparentemente azzardato, con la produzione pornografica, anch’essa enorme seppur di natura completamente differente ma sostanzialmente coerente all’affermarsi del food writing…

Una coincidenza che fa pensare quando si riflette che il food writing e la pornografia si sono progressivamente dilatati a partire dagli anni Settanta-Ottanta, vale a dire in presenza di una società dei consumi maturi, quella dove il consumatore occidentale è ormai saturo di ogni acquisto, quella dove il diabete e le malattie del benessere (eccessi alimentari) erano diventate epidemia, quella stessa società dove collezionavamo orologi di plastica che altro non erano che ripetizioni infinite delle variazioni dello stesso orologio. 

Non si può pensare che sazi di cibo e sesso – nella nostra società consumi voluttuari per definizione – l’unico modo di consumare di più era farlo immaterialmente? E allora ecco il food writing e la pornografia sommarsi ai consumi reali che non potevamo più aumentare; anche perché ci sono limiti naturali e fisiologicamente oggettivi in ognuno di noi ad impedirlo.

È un accostamento solo apparentemente azzardato più che una stranezza se si pensa che nell’economia dei consumi, i beni voluttuari non sono mai saturabili realmente – come il pane, l’acqua e i beni primari in genere – ma risultano sempre sostituibili e sostituiti in infinite declinazioni del piacere ricercato…

È da poco nelle librerie I dieci pomodori che hanno cambiato il mondo del giornalista americano William Alexander, edito da Aboca. Un testo che rientra nel miglior food writing – lato intrattenimento – almeno quando il lettore cerca curiosità e leggerezza, quando l’evolversi dei consumi di un alimento diventa un viaggio nella storia del costume di intere popolazioni, nei loro gusti, nella loro economia, nella loro cultura tra salute e malattie, tra realtà e immaginazione con soprattutto gli aneddoti a fare da collante tra studio e curiosità.

L’alimento in questione è evidentemente il pomodoro. Il taglio è giornalistico, il tono sempre leggero seppur documentato. A spasso nel mondo e nella storia potrebbe essere un “titolo sinonimo” per indicare il mood del libro. Peraltro è una storia curiosa quella del pomodoro. In Europa inizia nei primi decenni del Cinquecento come conseguenza della “rivoluzione colombiana” successiva alla scoperta dell’America ma che per il pomodoro si ferma lì, sostanzialmente negli erbari e negli orti botanici. Occorreranno infatti circa tre secoli perché del pomodoro ci sia anche una “storia sociale” vale a dire un utilizzo diffuso, condiviso, comunemente riconosciuto. Nello stesso periodo, il cacao, la vaniglia, il peperoncino, i peperoni, la quasi totalità delle zucche e la quasi totalità delle varietà di fagioli (unica eccezione il fagiolo dell’occhio, autoctono), dalle Americhe ebbero tutti una veloce accettazione mentre il mais e la patata, soprattutto quest’ultima, stentarono a entrare nei consumi quotidiani. Facile oggi capire il perché: in un mondo dove ogni generazione conosceva almeno due carestie nel corso della propria vita, introdurre nella dieta alimenti essenziali sconosciuti era un rischio: la diffidenza era solo una “strategia di sopravvivenza”, troppo rischioso lasciare il certo per l’incerto, anche se il certo per la maggioranza non era il nobile grano ma i più comuni e “rozzi” farro, sorgo, miglio, panico, avena, segala, fave secche, veccia, scandella. Se il mais in Europa era subito diventato un “grano turco” (nel significato di estraneo) ma comunque riconoscibile come grano, per la patata si entrava nel regno dell’estraneo e dell’ignoto…

A conferma di ciò, le nuove “spezie” arrivate dalle Americhe quali il cacao, la vaniglia o il peperoncino erano state subito altra cosa... le spezie infatti erano sempre state cibi da ricchi per i quali non era necessaria nessuna strategia di sopravvivenza con cui campare i giorni. Per i ceti agiati, privilegiati consumatori di spezie, la sopravvivenza non era un problema. Il cibo, qualunque fosse, era soprattutto una voglia…

Per il pomodoro fu ancora diverso, il pomodoro che non era né spezia ne nutrimento (la materia alimentosa, dei vecchi trattati) non bastarono tre secoli…

Tornando al libro, in oltre trecento settanta pagine (troppe?) l’autore, con lo sguardo del turista curioso, segue le tracce dei pomi d’oro o pomi d’amore (un altro nome con cui compare inizialmente negli erbari) tra le due sponde dell’oceano, dagli inizi fino alla diffusione globale dei nostri giorni e alle implicazioni ecologiche e relative alla sostenibilità, in un mercato che da qualche anno anche da noi in inverno vede un consumatore assuefatto a verdure estive date per scontate.

Tra le pagine forse più interessanti per un lettore italiano – perché trattano di vicende meno conosciute – sono quelle in cui il pomodoro trova la sua lentissima affermazione negli Stati Uniti. A partire dalla sua diffusione solo nei primi decenni dell’Ottocento, sorprendentemente accostato da guaritori itineranti come rimedio per il colera e toccasana generico. Di lì a breve, dagli anni Trenta del XIX sec. in poi, sarebbe entrato nelle cucine delle case eleganti di oltre oceano, preambolo di una diffusione più vasta e popolare fino ai trionfi del Ketchup e dell’industria alimentare che sarebbero seguiti.

Torno nuovamente a un pomodoro solo apparentemente più personale. Credo che la ricerca intrapresa sui motivi della lunga resistenza degli europei a questo frutto sia stata una delle ragioni (l’altra la scoperta del cartiglio originale per il vitto destinato agli equipaggi delle galere genovesi) per le quali decisi di non esercitare la professione di nutrizionista. Troppo riduzionista una visione solo dietetica per tutta la complessità conoscitiva, emotiva, identitaria dell’atto alimentare. Con l’apparentemente inspiegabile e tribolata conoscenza del pomodoro mi arrivava la consapevolezza che non fosse un caso che l’albero nell’Eden fosse stato “l’albero della conoscenza del bene e del male”. 

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Non era solo l’albero della disobbedienza a Dio e del peccato originale ma era anche il simbolo della necessità della conoscenza di fronte al cibo e alla natura. Bisogno di cibo e necessità della sua “sapienza”, questo per la nostra specie è sempre stato un tutt’uno fin da quando nudi e sostanzialmente disarmati, erravamo in comunità nomadi setacciando il creato; queste in fondo le remote origini di comportamenti alimentari “scritti” nel nostro Dna.

Nel caso della diffidenza e della resistenza ai pomodori del XVI secolo e dei secoli seguenti avevo davanti tutta la complessità del gesto e dell’azione del mangiare da parte di quel corpo complesso – reale quanto invisibile – che è una comunità, piccola o grande che sia. Era il corpo delle comunità della società preindustriale e contadina in cui “il consumatore” era ancora di là da venire e che senza alcuna conoscenza scientifica dovevano orientarsi nel labirinto della natura come in quello dei propri bisogni. Era quello un corpo collettivo in cui ogni possibile novità veniva soppesata e sperimentata nei campi, negli orti, in cucina e infine nei corpi. Era sempre tribolato il percorso per cui un potenziale alimento, di cui non c’era una cultura collettiva d’uso e consumo (cos’altro sono le tradizioni se non questo?), poteva entrare a far parte del proprio cibo, della propria cultura, della propria identità. 

Oggi quel corpo collettivo appare irriconoscibile – ucciso dal corpo del consumatore che siamo, ognuno monade individuale di se stesso – o nel migliore dei casi quel corpo è ormai lontanissimo, invisibile ai più anche nel pranzo di Natale.

Inconsapevolmente lo avvertiamo solo per mancanza, quando sgomenti la scelta del cibo ci dà ansia, quando ci ingozziamo senza una ragione apparente, quando cerchiamo i pomodori d’inverno come fossero arance, quando tutta la comune conoscenza su vitamine, sali minerali, proteine, antiossidanti ci lascia più informati ma anche soli davanti agli scaffali, eppur in compagnia della miglior nutrizione possibile.

Sì, ormai lontani dall’albero del bene e del male, ormai lontani dal corpo collettivo cui appartenevamo, ognuno di noi ha il privilegio di ogni possibile nutrizione. 

Straordinario privilegio di consumatore il nostro: noi che scegliamo, compriamo, godiamo di ogni possibile nutrizione, sempre senza alcuna consolazione.

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