Paesaggisti, architetti, artisti, botanici / Le città? Prendiamole a picconate
La nuova generazione di paesaggisti ha una soluzione estrema ed efficace per risolvere alcuni dei problemi delle città contemporanee: prenderle a picconate. Sono quelli cresciuti nell’influenza del pensiero di Gilles Clément e della sua idea di Terzo Paesaggio, che ha spostato drasticamente l’attenzione dai giardini per signora bene alla potenza della natura vegetale che s’insinua fra gli interstizi delle città, cresce fra le fessure delle materie desolatamente inerti di cui sono costituiti edifici, strade e ogni cosa che l’uomo appoggia alla terra, soffocandola. Ed è proprio questo il problema, quello che i tecnici chiamano sigillazione del suolo. Perché è un problema? Giusto per citare quello che è più evidente, è per la sigillazione del suolo che quando piove giusto un po’ più del normale, le strade si allagano con relativi danni a cose e persone.
È solo un altro dei regali di un’idea di città nata nel Novecento, dove inizia a essere concepita come il contenitore della forza lavoro delle fabbriche. La sostanziale continuità mantenuta nel tempo sia dalla casa che dalla città si è dissolta di fronte alle necessità dell’industria, è il primo vero cambiamento dalla loro comparsa. Nel Novecento le città abdicano e si trasformano nel luogo deputato alla gestione del fenomeno di geografia urbana risultato dalle forti immigrazioni per esigenze di manodopera e dal conseguente incremento accelerato della popolazione.
Da qui si genera il modello della città industriale dominante fino ad oggi. La progettazione della nuova città è concepita come servizio alle esigenze dell’industria, il fine è costruire grandi espansioni urbane in poco tempo, la presenza di grandi masse fa nascere la questione dell’abitazione operaia. In Inghilterra si usano termini come town planning city, town design, urban design, civic art, mentre i francesi usano art urbain, i tedeschi städtbau, costruzione della città. Ildefonso Cerdà, urbanista e ingegnere spagnolo, usa urbanizaciòn per definire il fenomeno dell’accelerata immigrazione urbana. In Italia dal 1908 per definire il medesimo fenomeno si usa il termine urbanesimo. To urbanize inglese invece è l’atto di rendere urbano un luogo. In Francia dal 1910 si usa urbanisme.
Il termine urbanistica entra nel vocabolario italiano di diritto solo nel 1929, quando viene fondato l’Istituto Italiano di Urbanistica. La terminologia deriva dalle esigenze conoscitive e operative della nuova città industriale e non solo non tiene conto del senso della città fin dalla sua nascita, ma impone una visione della città totalmente sradicata dal territorio che la contiene. Il senso precedente era di un rapporto di interdipendenza città/campagna, quello moderno è totalmente urbanocentrico e la dicotomia è irreversibile. Nel mondo latino urbs/urbis definisce la città in contrapposizione ad arx/arcis, cittadella e a rus/ruris, campagna. Urbs, come l’inglese town, contiene il significato di recinto, mura. L’abitare indigeno e quello tradizionale sono studiati con invidia, ci si affanna a costruire newtowns e cités nouvelles col solo risultato di verificare che standard e servizi sociali non sono sufficienti per far nascere una vera città. L’effetto città, rigorosamente cercato e progettato, non si realizza, non nasce, solo la griglia è evidente. La gente non riesce a riconoscersi in uno spazio progettato da un tecnico, e quando dà segni di ribellione, vengono visti come risultati dell’ignoranza e dell’ingratitudine.
L’idea di città moderna nasce quindi in tutta Europa per risolvere i problemi generati dal sistema industriale e si mette al suo servizio. Il problema principe sono le smisurate masse di aspiranti operai che lì si riversano dalle campagne. Che fare? diceva uno che di operai se ne intendeva, gli urbanisti moderni la risposta ce l’hanno pronta: una bella colata di cemento e asfalto, e costruiamo a più non posso. Che ci fosse bisogno di respirare, all’inizio del Novecento non era ancora visto come un problema, dopo qualche decennio qualcuno se ne accorge e quando il secolo finisce la situazione è diventata talmente imbarazzante che non si può più far finta di nulla. Che fare?
Nel frattempo tra le varie figure che si occupano di quello che ormai è diventato un grosso problema, cresce d’importanza quella del paesaggista, la cui disciplina ha una storia travagliata e, almeno in Italia, non ancora completamente e ufficialmente riconosciuta. Non è questo il luogo in cui entrare nei tecnicismi disciplinari, valga solo dire che negli ultimi decenni la cultura che orbita intorno alla parola paesaggio è diventata sempre più complessa e foriera di soluzioni innovative. Tra queste, c’è una via francese particolarmente fertile di proposte interessanti. Nel suo testo Poetica della zappa. L’arte collettiva di coltivare giardini, edito recentemente da Derive e Approdi, Pablo Georgieff riporta alcune esperienze concrete di azioni mirate a ridare letteralmente vita alle città. Georgieff è un argentino di origine veneta formatosi in Francia insieme a Gilles Clément, che ha firmato la prefazione del libro, e fa parte dell’atelier Coloco, un gruppo di paesaggisti, architetti, artisti, botanici che lavorano insieme con sede a Parigi.
Il testo di Georgieff è il risultato di decenni di lavoro sul campo, è un testo operativo, a volte formato da trascrizioni d’interventi che l’autore ha fatto durante workshop, altre da descrizioni di lavori in tutta Europa. Mi è capitato di presentare il suo libro e avere l’occasione di incontrarlo e ho iniziato chiedendogli di spiegarmi una delle frasi che s’incontra durante la lettura: La libertà è di natura muscolare. Dall’idea di libertà, che come ogni muscolo si atrofizza se non viene utilizzata, è partita la conversazione, Pablo ci ha parlato di sprogettazione, di come ogni progetto venga affrontato in gruppo dove ognuno ha un suo apporto personale senza ci sia necessariamente un leader, di come questo modo di procedere sia a volte, parole sue, un vero casino, ma che dà sempre risultati più che validi. L’Atelier Coloco è riuscito, per esempio a coinvolgere gli abitanti dello Zen di Palermo, storicamente portato a esempio del disastro delle periferie, attraverso quello che chiama l’invito all’opera, in sostanza, siamo davanti a uno spazio da trasformare? bene, invece che chiuderci negli studi e cominciare a pensare, mettiamoci a lavorare con le mani, facciamo.
Spesso i paesaggisti contemporanei si trovano ad affrontare spazi completamente sigillati da asfalto e cemento da trasformare in giardini. È qui che interviene il paesaggista giardiniere picconatore. L’asfalto in sé non è un elemento negativo, è anzi un materiale naturale derivato dal bitume che da millenni viene utilizzato per esempio per l’impermeabilizzazione delle imbarcazioni. Dagli anni Cinquanta però, per ragioni economiche, in alcune miscele è stato aggiunto amianto. Il paesaggista picconatore allora si trova davanti a un problema. Non basta picconare l’asfalto per toglierlo e arrivare alla terra, va analizzato per sapere se si tratta di un rifiuto pericoloso da trattare in maniera speciale. L’operazione da semplice diventa complessa. Ma con le dovute precauzioni si sono ricavati giardini da parcheggi picconando l’asfalto, così ha fatto l’Atelier Coloco e altri studi come Wagon Landscaping, un altro studio di paesaggisti francesi, anche loro allievi di Gilles Clément. Si può dire che sta crescendo una generazione di nuovi paesaggisti che hanno un atteggiamento nei confronti del progetto che si potrebbe definire sociale, di coinvolgimento di chi poi usufruirà concretamente degli spazi su cui si interviene, coinvolgimento che va dall’ideazione alla realizzazione concreta. La cultura del paesaggio sta cambiando, troviamo paesaggisti che continuano a fare i giardini dei ricchi, quelli che attaccano la città col piccone, fino a movimenti come quello di Fuck For Forest, un collettivo norvegese fondato nel 2004 che attraverso filmati porno amatoriali raccoglie fondi per salvare le foreste.