Le lacrime del servizio pubblico greco

17 Giugno 2013

Su El Pais giovedì è apparsa una foto. Ritrae un tecnico donna al mixer video. Il tecnico si sta asciugando le lacrime. Piange la chiusura della sua televisione. E' una foto che non può non commuovere e infatti è diventata subito virale in Rete. Ma questa immagine è ideologica, come tutte le narrazioni che in questi giorni si sono costruite attorno alla notizia della chiusura del servizio pubblico greco.

 

 

L'immagine della donna in lacrime ha due letture entrambe possibili. La prima è una lettura liberista: quella donna piange per colpa dei dirigenti pubblici incapaci di amministrare in maniera efficiente un bene comune. In tempi di crisi non si possono più sostenere sprechi simili.
La seconda lettura è invece più socialista: quella donna piange per colpa delle politiche di austerità imposte dall'Europa alla Grecia: il taglio della spesa pubblica.
Quali delle due letture è quella giusta? Probabilmente nessuna delle due.
Vorrei provare a rimettere in discussione le retoriche attorno a questa notizia. La chiusura della radio-tv greca è l'occasione per tornare a parlare di servizio pubblico in Europa, soprattutto in tempi di crisi ma anche di importanti trasformazioni dei modelli editoriali tradizionali. Prima però è utile forse una sintesi degli eventi di questi giorni.

 

Non era mai successo nella storia europea. E' successo in Grecia per la prima volta l'11 giugno del 2013. Un governo ha chiuso per decreto i canali di servizio pubblico radio-televisivi del proprio paese: cinque stazioni televisive (ET1, Net, ET3, Ert World e Ert HD), 29 stazioni radio tra nazionali e locali, siti web, un settimanale, oltre all’Orchestra Sinfonica nazionale e l’Orchestra di Musica contemporanea. 2600 dipendenti pubblici improvvisamente disoccupati, i lavoratori che si barricano negli studi e continuano a trasmettere in streaming, come se ERT fosse una tv clandestina sotto assedio dell'esercito e non la radio “di Stato” greca. Nel frattempo migliaia di cittadini si riversano nelle piazze di Atene, Salonicco e altre città greche per manifestare contro la chiusura; il governo si spacca e gli alleati del primo ministro Samaras affermano che non firmeranno il decreto di chiusura; il ministro delle finanze minaccia chiunque ritrasmetta il segnale di ERT online; la Commissione Europea manda segnali ambigui affermando il ruolo centrale del servizio pubblico ma allo stesso tempo scrivendo che “la decisione delle autorità greche va vista nel contesto degli sforzi necessari di modernizzazione dell'economia greca che includono l'aumento dell'efficienza del settore pubblico”. E infine giovedì scorso l'EBU (European Broadcasting Union, l'associazione che riunisce tutti i servizi pubblici europei), ha scritto una lettera al governo, ha spedito il suo presidente ad Atene per negoziare e, come fosse un hacker, ha ripescato il segnale internet del canale di notizie (Net) della ERT e lo ha fatto rimbalzare sul suo satellite greco, facendo tornare la luce sugli schermi degli abbonati greci al satellite.

 

Questi in breve sono gli eventi. Non sappiamo ancora se il governo tornerà sui suoi passi o se resisterà alle proteste. Il portavoce del governo di Antonis Samaras, Simos Kedikoglou, ha promesso l'apertura di un'altra società, la ERIT, una nuova entità “moderna ma non pubblica” che dovrebbe nascere tra tre mesi e assumere non più di un migliaio di lavoratori. La narrazione dell'evento da parte del governo greco, ripresa senza discussioni dalla maggior parte dei media europei, ha ruotato tutta intorno al concetto di insostenibilità economica di un'azienda dai costi elefantiaci, “paradiso degli sprechi”, “tipico caso di sprechi incredibili”, “rifugio di vacche sacre”.

 

Il portavoce del governo di Antonis Samaras, Simos Kedikoglou, ha sottolineato che “i network pubblici hanno da 3 a 8 volte i costi delle altre televisioni”, e la loro privatizzazione “consentirà al governo di rispettare l’impegno preso con la Troika di ridimensionare gli organici della pubblica amministrazione di 2mila persone già entro la fine di quest’anno e di 14mila unità entro fine 2014”. La tv pubblica greca è stata dipinta dal governo stesso come un serbatoio clientelare per i partiti, una tv i cui bassi ascolti non giustificavano più l'enorme spesa annuale di 300 milioni di euro.
Qui vorrei fermarmi per un primo zoom. Alla lettura dei primi articoli, anche io sono stato tentato di pensare che in fondo il governo greco aveva ragione, che il servizio pubblico andava ripensato, che gli sprechi non sono più sostenibili in tempi di crisi. Poi però mi è sorto un dubbio: tutti i media si erano concentrati sui costi della ERT ma nessuno mi aveva detto quanti erano gli incassi. Allora mi sono messo a cercare i dati EBU relativi ai bilanci dei servizi pubblici europei. Ho un faldone di fotocopie di documenti EBU eredità del mio lavoro di consulenza per loro sull'integrazione fra radio e social media. E tra quei faldoni ho capito che la narrazione di Samaras era incompleta e ideologica. Il servizio radio-televisivo greco era sicuramente vittima della lottizzazione politica e degli sprechi ma la storia non era come la raccontavano.

 

 

E' vero che la ERT costava 300 milioni di euro, ma non è vero che questi soldi venivano dallo Stato. Venivano dai cittadini greci, che pagano ogni anno 51 euro in più sulla propria bolletta elettrica per finanziare il servizio. Il canone pagato dai greci è uno dei più bassi d'Europa e da solo finanzia l'88% dei costi del servizio pubblico greco. La pubblicità, quasi assente, copre il 5% dei costi, mentre i finanziamenti pubblici l'1% (3 milioni di euro). In Italia, tanto per fare un esempio, il canone copre il 59% delle spese della RAI e la pubblicità il 30%. E soprattutto, stando ai dati dell'EBU, gli introiti della ERT relativi al 2011 (ultimo dato disponibile) ammontano a 341,9 milioni di euro, cioè 41,9 milioni di euro di utile. Ergo, ERT non era un'azienda in deficit, cioè insostenibile per le casse dello Stato greco. ERT era un'azienda che probabilmente sprecava molte risorse, dove la lottizzazione era una pratica diffusa ma che, nonostante questo, non pesava sulle spalle dello Stato e non aveva debiti.
Un mio amico di Salonicco, Yiannis Christidis, sound designer e ricercatore universitario che ho sentito via Skype, mi ha detto: “La mia gente era solita lamentarsi di ERT e di come sprecava soldi, di come assumeva troppe persone, del supporto (leggero e discreto, devo aggiungere) che forniva al governo. Non puoi affermare che fosse un'azienda che funzionava davvero bene, ma qualità e indipendenza sono stati a lungo una caratteristica dei suoi contenuti. Ma non puoi chiuderla. E' un grande errore politico”.

 

Chiudere un'azienda senza debiti e con 2600 dipendenti è una decisione che non può essere presa dal giorno alla notte, senza passare da un Parlamento. Se poi si allarga l'orizzonte al contesto europeo e si dividono i costi dei servizi pubblici per il numero di abitanti ci si accorge che i costi del servizio pubblico greco erano inferiori alla maggior parte dei paesi europei (sempre fonti EBU, 2012). La ERT costava 27 euro per ogni cittadino greco. La Rai 48 euro per ogni italiano. La BBC 85 euro per ogni britannico.

 

 

La narrazione del governo greco fa acqua. Non solo perché omette di dire che l'azienda era ancora economicamente sostenibile ma anche perché dipinge il capitale umano della ERT soltanto come un eccesso di sprechi. Forse 2600 dipendenti per 5 tv, 29 radio e 2 orchestre possono sembrare troppi. Ma se non fosse una questione di numeri ma di qualità? Sono troppi se male impiegati e se scelti secondo logiche di lottizzazione e non di merito. Ma se li paragoniamo ad altri servizi pubblici sono nella media. La Grecia ha circa 11 milioni di abitanti e quindi ha 1 dipendente ERT ogni 4.230 abitanti. La Rai ha 11mila dipendenti, cioè 1 ogni 5.454 abitanti. La BBC 1 ogni 3.875. La Francia 1 ogni 4.333.
Quindi nonostante la lottizzazione, i dipendenti della ERT non rappresentano un “eccesso” più eclatante di altri paesi europei. E questo nonostante gli eccessi del governo attuale, che nel 2012, appena insediatosi, per non essere da meno dei suoi predecessori, fece assumere alla ERT 28 nuovi consulenti e segretari, a stipendi del 30% superiori a quelli del settore privato. Un primo ministro che chiude una tv perché “paradiso degli sprechi” dopo aver contribuito in prima persona all'aumento di quegli stessi sprechi merita una medaglia olimpica per il triplo salto carpiato con avvitamento più spettacolare della politica. Palette alzate: Dieci. Dieci. Dieci.

 

Ad Angeliki Gazi, professoressa associata di media studies all'Università di Atene, ho chiesto via Skype cosa ne pensasse. Gazi sostiene che “Samaras ha fatto lo stesso errore del primo ministro turco. Proprio nel momento in cui la Grecia stava intravedendo delle deboli luci, dei primi successi di riforme, ha agito con arroganza. ERT non era in deficit, andava riformata, ma non chiusa. Penso che questo ci porterà a nuove elezioni”.

 

Quindi ERT, seppure non fosse il miglior servizio pubblico d'Europa, non era nemmeno il peggiore e il più insostenibile. E allora? Basta questo per aggiungere la nostra voce a quella di chi chiede che ERT torni in onda così com'era? Se ERT è stata chiusa e non era il peggior servizio pubblico d'Europa, allora, con la stessa logica, dovrebbero chiudere ed essere privatizzati tanti altri servizi pubblici europei che non brillano per efficienza. E' questa l'unica soluzione alla riforma dei media pubblici? O forse è il caso di rivedere il ruolo del servizio pubblico nell'attuale contesto politico e mediale per adattarlo al presente? Che cos'è il servizio pubblico? Esiste un solo modello?
 

 

Dal servizio pubblico di massa alla massa dei servizi pubblici.

 

Non esiste un unico modello di servizio pubblico, innanzitutto. Hallin e Mancini (2004), hanno comparato i media e i sistemi politici in diversi paesi occidentali e hanno ravvisato tre macro-categorie di servizio pubblico: a) il modello “liberale”, rintracciabile in Gran Bretagna e nelle sue ex-colonie, un modello dove il servizio pubblico è prevalentemente indipendente dalla politica del governo; b) il modello “pluralista polarizzato”, con livelli considerevoli di politicizzazione, intervento dello Stato, lottizzazione e clientelismo, propri dei servizi pubblici dei paesi mediterranei come Italia, Spagna e Grecia; c) il modello “democratico-corporativo”, tipico dei paesi scandinavi, Olanda, Austria, Svizzera, Belgio e Germania, fortemente legato all'influenza di gruppi sociali organizzati, parzialmente indipendente dalla politica.

 

 

Ad ognuno di questi tre modelli corrispondono prodotti diversi, risultati di ascolti diversi, bilanci più o meno sani. Il modello “mediterraneo” è quello più inefficiente, per bilanci, qualità e share. Se il servizio danese detiene l'80% di share e la BBC ancora il 55%, agli ultimi posti della classifica europea ci sono nell'ordine Italia (40% la tv, 17% la radio), Grecia (22% la radio, 20% la tv); Croazia (20% radio e tv), Spagna (10% la radio), Portogallo (7% la radio). Il clientelismo e la lottizzazione politica erano pratiche sostenibili solo in periodi di vacche grasse ma non ora che la rete e il satellite frammentano sempre più gli ascolti e l'offerta generalista del servizio pubblico incontra sempre meno favore, soprattutto tra le fasce più giovani e attive dei paesi europei.

 

Secondo Paddy Scannell, storico della BBC, la missione del servizio pubblico dovrebbe essere l’inclusività. Perché il servizio sia inclusivo, dovrebbe impegnarsi a garantire l’accesso alle sue trasmissioni a tutti i cittadini residenti e a dar forma a una strategia editoriale capace di includere culturalmente e socialmente tutti i propri cittadini. Inclusione territoriale e culturale sono i due cardini della missione del servizio pubblico. In questa impostazione il canone d’abbonamento è sostenibile purché l’emittente fornisca programmi di qualità ad una porzione abbastanza estesa della popolazione. Garnham (1994) suggeriva che una percentuale (share) del 30 per cento sia un minimo accettabile, considerata l’alta competizione delle private. Il servizio pubblico sostenuto dal canone ha sempre dovuto cercare un complesso equilibrio tra programmi popolari e programmi elitari. Oggi questo compito è molto più difficile perché non esiste più un unico pubblico-Nazione (forse non è mai esistito, se non come comunità immaginaria) e la scelta generalista è in crisi.

 

Il senso del servizio pubblico, in questo attuale mix di crisi economica e trasformazione dei modelli economici dei media, andrebbe completamente rifondato. Non chiuso per decreto, ma ridiscusso a lungo e rifondato. Servirebbe una Costituente europea dei servizi pubblici.
Secondo il sociologo Tryne Syvertsen (1999: http://nurmandi.staff.umy.ac.id/files/2012/02/theorypublicservice.pdf), le definizioni di servizio pubblico storicamente sono sintetizzabili in tre grandi categorie. La prima risale agli albori del mezzo e dei monopoli: il servizio pubblico inteso come pubblica utilità, un servizio che lo Stato eroga a tutti i suoi cittadini e della cui manutenzione si fa carico pubblicamente, come nel caso del servizio postale, dei trasporti pubblici e delle reti stradali. In questa interpretazione tecnico-economica i criteri di valutazione del servizio sono la qualità del segnale, l’efficienza delle trasmissioni e della rete di distribuzione – che permette un accesso universale –, un canone uniforme, dei profitti regolati e trasparenti, infine manutenzione, ricerca e sviluppo di alti standard tecnici.

 

Il secondo significato di servizio pubblico ruota attorno al concetto di sfera pubblica e di bene comune. In questo senso il servizio pubblico si fa carico della gestione di un bene pubblico – la rete di trasmissione di segnali radio-tv – per metterlo al servizio della sfera pubblica nazionale. Uno spazio dove chi ascolta possa sentirsi un cittadino e non un consumatore, lontano dalla mercificazione dei contenuti e delle relazioni sociali.
Il terzo significato di servizio pubblico ruota attorno all’equazione tra pubblico e audience e ha iniziato a farsi strada alla fine degli anni ’80 quando le radio-tv pubbliche hanno dovuto iniziare a confrontarsi con la competizione dei media privati e la fuga di ascolti verso di essi ed è ora quella dominante, in gradazioni più o meno simili, nelle reti di servizio pubblico di tutta Europa.
Questi modelli sono in crisi più o meno pesante in tutta Europa. Resistono bene solo i servizi che, oltre a tagliare gli sprechi, continuano a investire in ricerca tecnologica ed editoriale, che aprono nuovi fronti sul web e in digitale, che tematizzano l'offerta e che inseguono i pubblici più giovani sulle piattaforme sociali.

 

Aveva ragione la sociologa norvegese Enli Gunn quando affermava (2008: http://con.sagepub.com/content/14/1/105.short) che i modelli attuali di servizio pubblico, ancora legati alla tradizione pedagogica novecentesca, non sono più sostenibili e che serve una nuova dimensione, la partecipazione. I media pubblici devono ripensarsi non solo come produttori di contenuti ma come produttori di socialità, strumenti in grado di creare connessioni e relazioni tra il pubblico, che è ormai una rete di medium più piccoli e non più una massa invisibile e indistinta. Non più solo informare e intrattenere, ma valorizzare il proprio pubblico, incorporarlo dentro il proprio flusso, lavorare per chi ascolta e non per chi governa.

 

Se fatto bene, il servizio pubblico è anche un volano economico. Un recente report della BBC dimostra come i soldi spesi per la BBC si traducano in un beneficio per il territorio e per l'economia culturale inglese. A fronte di una spesa di 5.2 miliardi di euro, la BBC genera un indotto di circa 10 miliardi di euro.
E ora spero che, tornando a guardare la foto della regista al mixer con cui abbiamo iniziato, possiate guardarla con altri occhi. Un po' meno liberisti e un po' meno socialisti.

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