Le nostre facce ci perseguitano

20 Novembre 2014

Le nostre facce ci perseguitano. Raramente un'epoca storica è stata tanto fondata come la nostra sul volto umano, reiterato nelle sue forme più photoshoppate o esposto nella sua nuda banalità in milioni di selfie online. Il viso è divenuto il tramite contemporaneo che permette all'individuo di esistere oltre le parole, secondo i parametri di una comunicazione intesa come un “metterci la faccia”, e se i lineamenti di una persona sono ora la suprema fonte di conoscenza in una cultura già così estremamente orientata verso il visivo, iniziano a farsi sentire gli effetti collaterali di una corsa alla bidimensionalità dell'umano. L'annuale esposizione al Macro di Fotografia – Festival Internazionale di Roma dedicata quest'anno al ritratto contiene in sé i limiti di questa esperienza : girando per le sale della mostra si avverte quasi una resistenza verso questo susseguirsi di volti che pur in modalità più lenta e stratificata del solito si esibiscono allo sguardo.

 

Marco Delogu, Luce AttesaMarco Delogu, Luce Attesa

 

Un primo interrogativo sorge intorno al relazionarsi dello spettatore alle immagini, e concerne se e quanto all'aumento dei visi visualizzati ogni giorno corrisponda un reale contatto con esse. Così un allestimento che tratti il tema del ritratto sembra riassumersi cinicamente in un elenco di facce, facce, facce, che chiedono ognuna una reazione al loro esporsi, un sentimento di empatia, o ascolto difficile da ricavare da menti già sature. Dunque non può più valere l'idea che ogni volto umano valga a priori l'attenzione che richiede il vedere: pensiero ingenuo, figlio di un tempo in cui il gesto di scrutare dei lineamenti fisici non era alterato da una loro anomala proliferazione.

 

Bisogna pertanto confrontarsi con questa stanchezza dello sguardo che inizia ad emergere, inevitabile in una società basata sulla bulimia visiva; una spossatezza che inscritta nel contesto delle relazioni umane pregiudica la capacità di conoscere veramente l'Altro, investiti come siamo dall'enorme numero di facce che pretendono di raccontare le proprie storie, di essere riconosciute, o almeno registrate momentaneamente nella retina di chi guarda. Se una lezione si apprende dal festival diretto da Marco Delogu è che il concetto di ritratto perde valore se esibito nella sua nuda essenza quale “riproduzione figurativa o fotografica delle sembianze di una persona” (dal Dizionario della Lingua Italiana Devoto-Oli): è la forma impressa a questa rappresentazione che può aprire il varco attraverso il quale l'esperienza visiva diviene un esercizio di apprendimento.

 

Fotografia – Festival Internazionale di Roma » Anarchici dall'Archivio di StatoFotografia – Festival Internazionale di Roma » Anarchici dall'Archivio di Stato

 

Mostrare può non significare nulla se non è accompagnato da una riflessione sui termini di tale modalità comunicativa, e allora ecco che i nomi che maggiormente rimangono nella memoria all'uscita dal Macro sono quelli di pochi artisti che hanno reinventato l'immagine umana, assoggettandola a una precisa consapevolezza del mezzo fotografico che prescinde dall'illusione di una riproposizione fedele della realtà, qui intesa sia come palese presenza inerte dell'oggetto che come indifferenza meccanica dello strumento di riproduzione.

 

È infatti l'affermazione che guardare non è affatto un'azione scontata che eleva alcune opere proposte nella mostra a sintomatiche spie di rivelazione di un mondo la cui identità visiva è molto meno sicura e prevedibile di quanto l'ovvietà del volto di un individuo possa suggerire. Tra gli altri, il lavoro di Asger Carlsen in Hester e Wrong, in cui tramite un sofisticato uso del ritocco digitale vengono creati mostruosi ibridi umani, quasi un'eco delle bambole deformi di Hans Bellmer: duplici teste che sporgono da un solo collo, arti raddoppiati, spostati o mutilati, in una materia carnale duttile che dichiara una perfetta coerenza con un concetto di rappresentazione che pone la sua origine non nello scatto, ma nella sua post produzione digitale.

 

Asger Carlsen, Hester e WrongAsger Carlsen, Hester e Wrong

 

Allora è negli artisti che bisogna confidare per ritrovare un senso all'immagine corporea? Sì, se le loro opere sono esse stesse una reazione alla presenza dell'altro, e non solo una mera constatazione di questa. Ancora, i Crani di Antonio Biasiucci affrontano l'uomo ricercandolo nella sua essenza freddamente terrena, ciò che rimane della vita dopo la completa consunzione della carne, astraendola nella sua schietta materialità. Visioni che elaborano quel residuo di alterità, di un dis-umano insito nelle pieghe dell'umanità, operando per sottrazione di identità, contesti, storie.

 

Antonio Biasiucci, CranioAntonio Biasiucci, Cranio

 

Altrove i ritratti sembrano nutrirsi proprio delle situazioni in cui sono collocati, e le facce acquistano significato in quanto testimoni di precise circostanze. I visi degli anarchici schedati tra la fine dell' 800 e l'inizio del secolo scorso, conservati nell'Archivio di Stato, i Beats di Larry Fink, in definitiva facce, facce, facce, e la comune sensazione che di nuovo ritorni il sopracitato problema odierno di essere capaci di ascoltare le parole che vogliono dirci questi volti, o se questi riescano realmente a comunicarci qualcosa, e decidere a quali offrire i propri occhi, data l'inevitabile esigenza di selezione. Se sia una questione di educazione allo sguardo dello spettatore, o al contrario di capacità di chi ritrae di attirare la sua attenzione è argomento scivoloso, dai confini incerti; ciò che è possibile trarne è però la solida convinzione che il volto umano non acquisti un valore o un senso solamente per il suo essere visibile: è solo quando smette di essere una faccia per divenire altro, che l'immagine – e per estensione, un festival di fotografia – acquista un significato efficace.

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