Le radici del male
Esistono autori che si rifiutano di compiacere i gusti del pubblico e si impegnano invece a riflettere, a qualsiasi prezzo e anche a loro spese, su temi generali come quello della condizione umana. Tra questi si colloca Maurice Dantec, nato nel 1959 e scomparso nel 2016, a poco più di cinquant’anni.
Nonostante il romanzo Le radici del male (Minimum fax, 2023) sia già comparso in Italia per i tipi di Hobby Work (1999) così come altri (La sirena rossa e Babylon Babies) sempre dal medesimo editore, la sua personalità di autore non è ancora emersa pienamente. Per anni è stato considerato uno scrittore marginale, adagiatosi sulla corrente fantascientifica americana del cyberpunk, incline all’imitazione e privo di autonomia. In realtà i francesi, prima soprattutto di Houllebecq, non erano più abituati a una letteratura disturbante di critica sociale e quindi ad uno scrittore visionario e apocalittico, “cattolico futurista” come amava definirsi. La sua storia disordinata e altalenante lo vede acclamato come l’erede di Lovecraft per poi cadere nell’oblio, nell’abuso di farmaci e nella psicosi. Egli è pessimista sul futuro dell’umanità, in un mondo “generatore di sofferenze” e lancia strali contro “il piccolo sindacato di funzionari culturali e di artisti agevolati”. Anticonformista e provocatore, abbandona gli studi per inseguire la passione musicale e fonda il gruppo rock “Etat d'Urgence”. In seguito lavora per Gallimard con cui pubblica Le radici del male nel 1995, acclamato esempio di thriller tecnologico. Dopo gli attacchi dell’11 settembre, sempre più ostaggio di farmaci e droghe, aderisce alla lotta di Bush contro il terrorismo, considera i nuovi campi di concentramento come Guantanamo “quartieri residenziali-popolari… dalla morte lenta” per cui “capitava di chiedersi quando i detenuti si sarebbero rivoltati per davvero”. Ritiene altresì che la tv trasformi «la gente in fantocci» e che le grandi aziende farmaceutiche mirino a «creare una mutazione genetica» o il controllo tramite acceleratori neuronici e droghe sintetiche. Con gli anni esaspera il pessimismo, in realtà una sorta di noia e apocalissi in cui si mescolano il Dna e Gesù, la musica rock e i buchi neri. Definisce l’islam “il comunismo del deserto”, ritiene inevitabile il suo conflitto con l’occidente, si converte al cattolicesimo e viene definito “profeta, mistico, soldato cristiano, sionista pro-americano, in breve ultimo scandalo della letteratura francese”. I romanzi sono lo specchio delle sue angosce. Babylon Babies da cui nel 2008 il film Babylon A.D., è la storia del mercenario Cornelius Toorop che deve scortare dalla Russia al Canada una donna con due gemelli geneticamente modificati. Toorop ha idee e regole precise: “Mai camminare nel senso del vento, mai voltare la schiena a una finestra, mai dormire due volte nello stesso posto, rimanere sempre nell’asse del sole, non avere fiducia in niente e nessuno”. Sirena rossa è strutturato con gli stessi protagonisti per un’altra avventura, tradotta al cinema nel 2002 con Vin Diesel protagonista. Villa Vortex descrive un mondo schiavo della tecnologia con muri, abissi, tunnel che disintegrano la città e divengono loro stessi gli assi portanti dell’urbanistica del futuro. Compare in questo scritto per la prima volta una riflessione teologica con l’evocazione dei cristiani gnostici e dei pensatori della Kabala. Anche Cosmos Incorporated è un romanzo dell’anticipazione che esplora la società post-umana dominata da macchine in cui compaiono tracce del passato, ricordi ancora vivi accompagnati da sensazioni profonde. Dantec è a favore di un mondo senza Dio e predilige le parabole catastrofiche dove il caos sommerge l’umanità e solo pochi eletti sopravvivono. “Chi continua a pensare che le piccole macchinazioni democratiche … resteranno in piedi nei prossimi anni è lo stesso ciarlatano che ha venduto due paci mondiali e ha imposto due guerre universali nel Ventesimo secolo”. A chi gli chiede se anche in Canada, dove si era trasferito, permane la sua sofferenza risponde: “Il politicaly correct fa danni anche in un Québec antiamericano, antisemita di sinistra, anticristiano, anticanadese che sostiene i principi di Hezbollah e quelli del Gay Pride”. Ormai inviso ai salotti letterari rompe con quel mondo nel 2004 quando discute sulla “islamizzazione dell’Europa” e “lo scioglimento dell’occidente”. L’America rimane per lui l’ultimo baluardo della sovranità occidentale, e quando viene accusato di essere scivolato verso l’estrema destra risponde che: “Le mie idee non sono coniugabili con l’arco politico francese. Ci sarebbero state meno reazioni se mi fossi abbonato a Rouge, rivista della sinistra estrema”.
La vicenda di Le radici del male è raccontata quando si è già compiuta la spirale omicida che ha portato il protagonista Andreas Schaltzmann ad essere ricercato in tutta la Francia come il “Vampiro di Virty-sur-Seine”. In quella località nei pressi di Parigi, intorno agli anni 1990, costui si convince di essere rimasto solo a combattere i nazisti e gli alieni che vogliono ridurlo all’asservimento. Non calcola freddamente, non premedita, ma delira soggiogato dalla follia. Vive in una «realtà» irreale, da incubo, si difende come può: uccide e si nutre del sangue delle vittime. L’esordio del romanzo è fulminante: “Andreas Schaltzmann si è messo ad ammazzare perché il suo stomaco marciva”. Il protagonista, nato in Germania, nell’adolescenza è costretto per il lavoro del padre a cambiare spesso domicilio, elemento che contribuisce a destabilizzare una personalità già fragile, scossa dalle liti fra i genitori e dal disprezzo della madre che lo insulta continuamente. Compie violenze da solo, a vent’anni è ricoverato in un ospedale psichiatrico, sembra riprendersi ma scivola nell’isolamento della psicosi di essere braccato da forze estranee. “Il mondo presentato in televisione proiettava un’immagine falsa dell’umanità, spacciandola per una caotica costellazione di nazioni. Il globo invece subiva lo stesso giogo di ferro degli alieni schiavisti e dei loro complici terrestri. Non esistevano frontiere e il mondo era un solo, vasto territorio unificato dalle tenebre.” Arrestato nel dicembre del 1993 si spara in bocca con una carabina a Utah Beach in Normandia presso il monumento ai caduti, ma non muore.
Entra a questo punto in scena il narratore, il neuroscienziato Arthur Darquandier incaricato di lavorare al caso con criminologi, come la diafana Svetlana Terekhovna, “proveniente da quella misteriosa ‘scuola’ di psicologi-ipnotizzatori russi che aveva affascinato l’Occidente all’epoca della Guerra fredda” e il dottor Stefan Gombrowicz, neuropsichiatra collaboratore di istituzioni americane. Si cambia registro perché si passa dall’indagine sugli omicidi al soggetto che li ha commessi. Si affaccia l’aspetto affascinante e magmatico dell’esplorazione della mente del criminale che ha ucciso. Interviene la scienza con i suoi strumenti diagnostici che cercano di fornire risposte al quesito di fondo: era sano di mente? E se non lo era, che risposta la collettività può dare: carcere, manicomio, cure esterne?
Il tema è affascinante, basti pensare al Moosbruggen di Musil, ed è cruciale perché si collega a quello sulla possibilità del superamento della malattia mentale se possibile. Ma se non fosse possibile, che fare? Come proteggere la società, come si interroga Arancia Meccanica, film o romanzo che sia? Nel frattempo però Andreas evade e alcuni anni dopo si dà fuoco. “Il globo di fuoco si gonfiava proiettando il suo respiro verso le stelle... La vecchia baracca prese fuoco con un'enorme fiammata, come una gigantesca scatola di fiammiferi. La luce delle fiamme danzava sul mondo di erba selvatica e di alberi tozzi. Un filo di fumo nero si arricciava sul tetto che scricchiolava come un unico foglio di cartone gettato nel fuoco. L'odore del napalm, della benzina e della plastica bruciata gli riempì le narici di un profumo pesante e inebriante. Il profumo della liberazione. Il bacio dell'inferno”. La situazione si intorbida in quanto gli omicidi continuano, non sembrano compiuti da Schaltzmann anche se le autorità sono inclini ad addossargli ogni responsabilità. Non solo: successivamente alla sua morte si verificano misteriose sparizioni ed inquietanti ritrovamenti di cadaveri in varie parti dell’Europa. Quindi se Andreas non è l’unico a uccidere e altri lo seguono, la domanda è: quanti sono? si conoscono? formano una vera e propria rete? Quale disegno si nasconde dietro quegli omicidi seriali? La caccia continua senza successo perché le morti non si fermano.
A questo punto entra in scena la “neuromatrice”, la “macchina algoritmica” per dirla con Camurri, con la specifica finalità di predire il futuro. Essa con i suoi meccanismi agevola la battaglia costante ingaggiata dall’uomo con il mondo esterno: non soccombere di fronte agli eventi, ma dominarli e quindi prevederli. È la sfida antica che si perpetua ancor oggi per superare l’ansia angosciosa del non sapere cosa riservi il domani. Clamorosa è stata in questo senso la vicenda del Coronavirus, ove i calcolatori erano spinti al massimo, soprattutto in Cina, per decifrare tracciamenti, percorsi, movimenti, luoghi, persone, riconoscimenti facciali, pagamenti digitali. Il tema in realtà penetra ogni sfaccettatura del conoscere e coinvolge anche il mondo della giustizia. A fronte di eventi negativi, quali le pubbliche calamità, lo Stato a quali condizioni deve intervenire per punire? Sempre e comunque, quasi meccanicamente, oppure soltanto quando quell’evento era prevedibile con gli strumenti scientifici a disposizione ma la prevedibilità sia stata trascurata? Ma di quali strumenti scientifici si tratta, di quelli consolidati nell’esperienza o anche di quelli sperimentali? E ancora, quelli sperimentali sono soltanto quelli accettati dalla comunità scientifica e quindi divenuti accreditabili? Quando e fino a che punto si deve esigere l’approfondimento della prevedibilità? Temi profondi ma attuali, anche indispensabili per fronteggiare la diffusa e inesauribile eccitazione punitiva.
Nel romanzo quella macchina vuole prevedere altri omicidi e individuarne gli autori. È l’ambito della ‘polizia predittiva’, cioè del tentativo di mappare il rischio di devianze e delle pericolosità individuali, neutralizzando reati e colpevoli, individuando quando e come agiranno. Per questo vengono rielaborati i dati come le notizie di reati precedenti, le attività e gli spostamenti dei sospettati, i luoghi di ricorrenti azioni criminali, i periodi dell’anno e anche le condizioni atmosferiche connesse a certi reati e l’individuazione delle zone ‘calde’ (hotspots). In tempi recenti si sono sviluppati i “risk assestement tools” per calcolare in base ai dati immessi, quando un individuo già imputato possa commettere altri reati. Si stanno diffondendo, soprattutto negli USA, tecniche di “profiling” attraverso l’inserimento di dati provenienti da denunce nelle stesse zone con modalità analoghe per stabilire statisticamente chi e quando commetterà reati. È conosciuto ed operante l’algoritmo Compas, costruito per decidere se un soggetto può uscire dal carcere con il versamento di una cauzione. Nacque un caso nel 2016, quando un certo Loomis arrestato su un’auto usata per una sparatoria, fu condannato perché secondo l’algoritmo costui poteva commettere reati violenti con elevata probabilità. La Corte annullò la decisione in quanto essa era rigida, senza margini di discrezionalità. La discussione è aperta tuttora alla ricerca di un equilibrio tra esigenze collettive di sicurezza e ragioni di tutela individuale, anche perché ad oggi questi sistemi sono senza regolamentazione, affidati alla prassi, con possibili discriminazioni (fattori di pericolosità connesse a caratteristiche etniche, religiose o sociali). Inoltre essi si autoalimentano, con il conseguente rischio di innescare circoli viziosi, ad esempio individuando zone calde controllandole maggiormente e quindi con un loro incremento statistico a dispetto di altre zone.
Ma la neuroamatrice non è una macchina algoritmica comune, ma è un modello nuovo, un “congegno nero, tondeggiante, con lo schermo dalle forme organiche, palpitante di vita caotica”. È un’estensione del cervello con un sistema di base e relativi circuiti simile a quello degli umani, ha coscienza della propria esistenza e riesce a sintetizzare l’inconscio, “la sua intelligenza simula le folgorazioni dell’animo umano” con risultati diversi ogni volta. Nella prima fase raccoglie i dati, li compila secondo la programmazione, poi procede con applicazione interattiva cercando nuove associazioni di idee e con nuove domande. Strutturato con i protocolli della grammatica generativa che si concentra sul funzionamento delle lingue naturali studiando ciò che hanno in comune e non ciò che le distingue. Ha un andamento rizomatico, come ripetono spesso i protagonisti, cioè orizzontale, a struttura diffusa, senza radici. Il suo nucleo è un caos attivo, racchiude un principio di incertezza, la sua previsione non è infallibile. Cerca di imitare la natura, crea modelli probabilistici e si serve dei frattali, cioè della riproduzione dei nuclei su ogni scala che si assemblano nello spazio catodico e diventano leggibili, come volti sfuocati simili a fantasmi, componendo realtà simulate. La macchina emette borbottii, “ringhia, ruggisce, ansima, in una sinfonia digitale con voci che si confondono indistinte, nubi verbali disgregate sul nascere da un caos sonoro elettrico”. Rapida nel calcolo riepiloga dati, li estrae, li coordina, analizza comportamenti, prefigura scenari, si connette con l’ambiente circostante, ma non è tutto. La neuromatrice opera con un’altra modalità, strabiliante, sconosciuta: dialoga con l’interlocutore che si trova fisicamente di fronte, lo riconosce, ne assume le sembianze e la personalità, vi si sdoppia, crea a sua volta immagini, si umanizza pur rimanendo schiava del suo programmatore. Nella sostanza diventa un ‘chi’ (Ronchi, “Chi è AI”, su doppiozero). Le classiche figure degli ispettori di polizia alle prese con il rompicapo dell’indagine sfumano in lontananza con contorni sempre più sfocati, succubi dell’algoritmo. Il romanzo, di dimensioni più che corpose (638 pagine), oscilla tra il poliziesco e la fantascienza, si serve di un linguaggio disseminato di termini che delineano un paesaggio ipertecnologico. Ricorda le paranoie di Philip Dick, la società «mostra delle atrocità» come definita da Ballard in cui la violenza è preda dell'egemonia culturale, sociale, assoluta della televisione. Con fittissimi rimandi letterari, dal linguaggio alla Céline al situazionismo di Vaneigem per il quale “l’inframondo, cioè la dimensione alternativa dominata dalle tenebre, è la terra di nessuno della soggettività… è il super spazio – tempo del sognatore”. Per Dantec il male è ovunque, diffuso, radicato, esteso, asfissiante. Solo “attaccandolo alle radici l'umanità potrà un giorno liberarsi dalle sue catene”.