È la mano che scheggia la selce a informare la mente / Le storie ci aiutano a vivere

23 Aprile 2017
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Nella storia letteraria italiana ha avuto in passato largo corso il termine religioso «conversione», usato spesso e volentieri in senso metaforico. Da qualche decennio in qua la storia della cultura registra una diffusione straordinaria del traslato di origine automobilistica turn, «svolta». Non sarebbe male, una volta, interrogarsi sulle implicazioni, volontarie e non, di un immaginario che visualizza lo sviluppo delle ricerche in un percorso bensì tendenzialmente progressivo, ma contrassegnato da sterzate più o meno brusche, ovvero incline a una sorta di sinuosa, espansiva ramificazione (per questo aspetto, probabilmente, le scienze obbediscono alle medesime norme di altre forme della comunicazione sociale). Fatto si è che a metà del Novecento gli studi psicologici hanno registrato una svolta cognitiva (cognitive turn) che ha avuto importanti ripercussioni in altri settori del sapere, in particolare nella teoria letteraria, tanto che i rapporti con il cognitivismo hanno rappresentato il tratto distintivo della narratologia che si usa chiamare post-classica. Nel frattempo una svolta narrativa (narrative turn) aveva investito gran parte del mondo della ricerca, e poco dopo si è avuta l’esplosione degli studi sull’evoluzione (evolutionary turn), che si sono imposti come orizzonte all’interno del quale le scienze della vita e della cultura possono convergere. Anche all’interno degli studi letterari ha preso forma un filone, minoritario ma dinamico, ispirato direttamente al pensiero di Darwin e seguaci. Tra i non molti che in Italia ne hanno seguito gli sviluppi, un posto di assoluto rilievo spetta al comparatista siciliano Michele Cometa, che nel volume Perché le storie ci aiutano a vivere. La letteratura necessaria (Cortina, pp. 428, € 35) offre ora una sintesi di alcuni decenni di ricerche.

 

Per rimanere sul tema delle metafore viarie, Cometa si colloca all’incrocio dei Darwin literary studies con il cognitivismo di seconda generazione (e la narratologia cognitivista con esso imparentata): ossia quello che, prese le distanze dai modelli computazionali dai quali era partito, si mostra sempre più sensibile alla concretezza dell’esperienza (in primis corporea, ma in molti casi anche sociale). Un sintomo rilevante è la fortuna dell’aggettivo embodied, reso di solito in italiano con «incarnato»; e en passant si noterà la non spendibilità nella fattispecie della parola più vicina a body, «corpo» appunto, già ipotecata da altri dominî semantici. Cognizione incarnata, simulazione incarnata, memoria incarnata: quello di embodiment è un concetto-chiave delle ricerche attuali nelle scienze cognitive, dalla psicologia alla linguistica, dall’estetica alla filosofia della mente, e quindi anche alla narratologia. E infatti c’è chi parla di embodied turn: così come, a contrassegnare la recente attenzione al nesso tra mente (o mente-cervello) ed emozioni, cioè tra le facoltà cognitive e gli ambiti non razionali del sentire, è stata coniata l’espressione affective turn.

 

L’assunto generale del discorso di Cometa è ben sintetizzato dal titolo: il fenomeno (universale tra gli umani) del narrare si spiega solo sulla base di una utilità filogenetica. Raccontare e ascoltare storie ha offerto vantaggi, al singolo e alla specie: per questo l’autore non esita a servirsi del neologismo «biopoetica», messo in circolazione dai literary darwinists. Sui quali (o su alcuni dei quali) egli pure solleva non poche riserve: altro è infatti accogliere il principio generale della coevoluzione natura/cultura e ragionare in termini evolutivi, altro è accogliere tutte le proposte applicative che vengono avanzate (quasi proverbiale, per la sua bislacca improbabilità, il titolo Le ovaie di Madame Bovary). Non a caso, nel primo capitolo (Elementi di Biopoetica) Cometa allinea una serie di caveat: occorre guardarsi dagli usi disinvolti della categoria di adattamento; bisogna diffidare della metafisica delle origini; non ha senso applicare le leggi dell’evoluzione all’interpretazione di singole opere letterarie, e così via. Ciò premesso, egli tuttavia rivendica la necessità (l’urgenza, anzi) di connettere teoria letteraria, evoluzione e scienze cognitive. In questa chiave propone un percorso in tre tappe. Dapprima affronta la questione della narrazione con gli strumenti dell’archeologia cognitiva, dedita allo studio dei primi utensili come «incarnazioni del pensiero» e del Sé come una «costruzione estesa», che abbraccia cultura materiale, mente, ambiente; in secondo luogo si sofferma sulle abilità cognitive proprie della mente umana «che si incarnano nella produzione narrativa sia sul piano della produzione che su quello della ricezione»; infine analizza il rapporto fra letteratura e ansia, coniugando teoria evolutiva, neuroscienze e antropologia filosofica classica.

 

 

Diciamo subito che nel panorama della cultura italiana questo volume è un contributo quanto mai utile, anche per la corposa bibliografia, che ammonta a oltre sessanta pagine. Non di meno, un minimo di incertezza si può avvertire nella definizione del suo «lettore ideale». In genere, il libro non si presenta come un testo introduttivo, rivolto ai numerosi cultori di letteratura digiuni dei recenti sviluppi di narratologia, evoluzionismo e neuroscienze; tuttavia si trova (forse inevitabilmente) a dedicare lunghi tratti all’esposizione di opere altrui, salvo poi intraprendere sporadiche discussioni – ad esempio su un articolo di Marco Caracciolo uscito l’anno scorso su «New Literary History» – inclini a uno specialismo piuttosto accentuato. Non facile, del resto, era (è) individuare l’angolatura e la distanza più efficaci per render conto di un campo pluridisciplinare di studi molto vasto, soprattutto quando ci si ponga come obiettivo di valorizzarne zone di intersezione e punti di convergenza.

 

Nei vari ambiti che attraversa, Cometa insiste comunque su quelle che egli giudica essere (spesso con piena ragione) le pietre miliari dei percorsi di ricerca; per darne un’idea citerò– alla rinfusa, e senza pretese di esaustività – i nomi di Michael Austin, Joseph Carroll, Daniel Dennett, Ellen Dissenayake, Paul Eakin, David Herman, Odo Marquard, Winfried Menninghaus, Steven Mithen, Francesco Remotti, Oliver Sacks, Mark Turner, E. O. Wilson, Lisa Zunshine. D’altro canto – e a dispetto della frequenza dell’aggettivo «seminale» – Cometa sottolinea il ruolo di studiosi di generazioni passate, i quali, all’interno di quadri concettuali diversi, hanno saputo fornire lucide messe a fuoco di categorie poi largamente utilizzate nei meandri dei vari turns sull’uno o sull’altro spiovente del valico fra i due secoli: figure come il filosofo Arnold Gehlen (il concetto di «esonero», Entlastung), l’etnografo e antropologo André Leroi-Gourhan (la chaîne opératoire), lo stesso Sigmund Freud (specialmente per l’idea di «disagio della civiltà»).

 

Il secondo capitolo (Archeologia del Sé) è quello in cui si parla maggiormente di embodiment. Lo sfondo dell’argomentazione è il superamento del dualismo cartesiano corpo/mente, e dell’idea che possa esistere una intenzionalità astratta e autonoma, che precede l’agire informandolo. In realtà una stretta correlazione unisce cervello, corpo e cose: come scrive Lambros Malafouris, è la mano che scheggia la selce a informare la mente, non viceversa. In questa luce, l’emergenza della narrazione è radicata nelle «pratiche narrative prelinguistiche», fra le quali appunto la produzione di utensili, e inquadrata all’interno dello sviluppo delle pratiche decorative e delle arti materiali. Segue la trattazione dei modi in cui si costruisce narrativamente l’identità, non senza un indugio sul dibattito innescato dal saggio di Galen Strawson Against narrativity (2004). Uno degli aspetti a cui Cometa presta maggior attenzione è la possibilità di collegare l’elaborazione teorica all’esercizio dell’interpretazione, fino al close reading: un esempio interessante in questa direzione è lo studio di Dan MacAdams sulle «storie di redenzione» come schema narrativo privilegiato nella cultura nordamericana. Ma la sintesi più efficace della funzione della narrazione mi pare sia fornita da Daniel Hutto, che associandola alla psicologia del senso comune (folk psychology) la definisce come nesso tra la qualità informativa e la funzione regolatrice, fonte di exempla per le pratiche sociali («Ci sono tutti i motivi per supporre che le narrazioni siano caratteristiche distintive delle nicchie culturali umane, così come le dighe lo sono per i castori»).

 

Molto denso è il terzo capitolo (Poetiche della mente), che analizza tre questioni fondamentali dibattute dal cognitivismo letterario: 1) il blending, cioè la capacità di fondere concetti appartenenti a ambiti logici e semantici diversi (e quindi di connettere diverse aree neurali); 2) la «teoria della mente» e il mind reading, ossia la capacità di interpretare le intenzioni e i pensieri degli altri, sulla base dell’attribuzione agli altri di una mente simile alla propria; 3) l’empatia, questione molto dibattuta, che ha tratto alimento da un lato dalla scoperta dei neuroni specchio, dall’altra dagli studi sui primati (Frans De Waal). Oltre il mind reading, l’empatia mobilita componenti emozionali e affettive, declinandosi in una serie di gradazioni per la quale esistono varie proposte tassonomiche. Particolarmente interessanti qui le pagine dedicate al tema della «punizione altruistica», legata al problema cruciale dei fondamenti evolutivi dell’altruismo (qui gli autori di riferimento sono William Flesch e Suzanne Keen); la narrativa rappresenta un esercizio di monitoraggio in vitro dei comportamenti altrui.

 

Nell’insieme il capitolo più affascinante mi è parso tuttavia il quarto e ultimo, intitolato Antropologia dell’ansia. Il punto di partenza è la «teoria della compensazione», elaborata dalla filosofia tedesca (ricordo che a Cometa si deve fra l’altro la traduzione del libro di Hans Blumenberg La realtà in cui viviamo, Feltrinelli 1987). L’uomo è un essere «manchevole»; l’elaborazione di utensili, materiali e virtuali, serve a colmare i deficit ontologici di cui soffre. Anche le arti assolvono a questa funzione: ciò che esse sono chiamate a compensare è il senso di incertezza prodotto dall’incremento di complessità della vita mentale, frutto a sua volta della flessibilità con cui la nostra specie ha fatto fronte ai problemi di adattamento. Lungi dall’offrire soltanto vantaggi, la «crescita esponenziale della coscienza» genera un senso di vuoto, di esilio, di perdita di controllo sul reale, per non soccombere al quale sono state escogitate strategie di esonero. È su tale orizzonte che si spiegano le varie forme di distanziamento e di sospensione dalla realtà presenti nella produzione culturale, dal pretend play alla fiction, dal rito alla religione. E, naturalmente, alla letteratura, che viene così a collocarsi all’interno di una sorta di fenomenologia dell’ansia, come forma singolarmente duttile di compensazione.

 

Grande rilievo assume in questa parte finale il lavoro di Vittorio Gallese (del quale Raffaello Cortina ha pubblicato nel 2015 Lo schermo empatico. Cinema e neuroscienze, scritto insieme a Michele Guerra). Gallese propone una visione dell’attività artistica come «simulazione incarnata liberata», connessa al carattere «neotenico» della specie umana. Eloquente è il titolo del saggio pubblicato da Gallese nel 2011 insieme a Hannah C. Wojciehowoski, How Stories Make Us Feel: Toward an Embodied Narratology. La riconduzione di questa teoria alla categoria di esonero di Gehlen è, mi pare, uno dei contributi più originali di Cometa, all’interno di un libro che per molte ragioni converrà tenere a portata di mano.

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