Africa / Leiris fantasma

19 Maggio 2020

Guardiamola anzitutto come una storia di oggetti. Oggetti rituali e d’uso comune nelle vetrine e negli archivi del Musée d’Ethnographie del Trocadéro. Un museo fondato nel 1878, in pieno evoluzionismo antropologico, in forte concorrenza con altri musei più noti, e presto meta di artisti incuriositi dall’arte “negra”. Quel museo, demolito nel 1935 e ricostruito nel 1937 in occasione dell’Esposizione Universale, sarebbe diventato il Musée de l’Homme, un luogo unico a Parigi almeno fino alla creazione del Musée du Quai Branly. Ma intorno agli anni Trenta era solo un dignitoso museo minore al quale mancava l’energia per farsi notare. Mancavano i “pezzi”, insomma, perché le raccolte provenienti dalle passate spedizioni etnografiche non erano sufficienti per allestire un luogo memorabile. Bisognava fare qualcosa ed erano gli anni giusti per farlo. La Francia coloniale, come il resto d’Europa, andava volentieri a braccetto con l’antropologia, e una grande spedizione etnografica in Africa avrebbe sostenuto tanto il nazionalismo imperialista quanto lo sguarnito Musée d’Ethnographie. Così, nel 1931, il Parlamento francese votò i finanziamenti alla Missione Dakar-Gibuti. Dietro al progetto c’era nientemeno che il grande e influente Marcel Mauss, ma la conduzione venne affidata a una nuova generazione di etnologi, primo tra tutti Marcel Griaule. Questo dovrebbe farci drizzare le orecchie.

 

 

Griaule è infatti l’autore di Dio d’acqua (1948), una memorabile monografia sulla cosmogonia Dogon, un libro in grado di esplodere ben oltre la bolla degli specialisti e una crux epistemologica per l’antropologia. Mentre insomma la nuova etnografia francese, con una spedizione molto mediatizzata per l’epoca, gettava le basi per fissare quello che poi sarebbe diventato il dogma scientifico della ricerca sul campo, contemporaneamente generava il contesto che avrebbe portato a un’opera in cui è piuttosto arduo distinguere tra soggettività e oggettività delle fonti. In altre parole, l’africanistica francese generò un’ambiguità cognitiva per molti versi fertile, e non è casuale che Michel Leiris facesse parte proprio della Missione Dakar-Gibuti del ’31-’33. Non era certamente un caso per quei giri di conoscenze che a volte danno una spinta al destino di una persona. Nel 1929 Leiris trovò infatti un impiego come segretario di redazione della rivista d’arte Documents, fondata da Georges Bataille e Georges Henri Rivière, guarda caso vice-direttore del Musée d’Ethnographie del Trocadéro. Fu appunto Rivière che mise una buona parola perché Marcel Griaule assumesse il ventottenne Leiris come segretario d’archivio della Missione Dakar-Gibuti. Non sapeva partendo che avrebbe scritto uno dei capolavori assoluti del XX secolo, oggi finalmente ristampato in una nuova, ricca edizione italiana (Quodlibet/Humboldt) con postfazione a cura di Barbara Fiore, traduzione del 1984 di Aldo Pasquali e 40 fotografie in parte inedite della Missione Dakar-Gibuti, una restituzione accurata, minuziosa, che prende in conto le nuove edizioni francesi e correda il testo di un ricco e indispensabile apparato di note. Ma torniamo un momento a Documents. La rivista visse per così dire il tempo di una stagione, dal 1929 al 1931, ma i suoi quindici mirabolanti numeri ci aiutano a capire meglio questo nodo epistemologico dell’etnografia francese. In coerenza con l’amore di Bataille per le giustapposizioni eclettiche tra immagini e idee, il principio alchemico della rivista era quello di incrociare l’etnografia con le avanguardie artistiche del tempo, tanto che Picasso, Miró, Klee e Dalí venivano presentati a fianco dell’arte preistorica e tribale. Nel comitato di redazione della rivista c’era André Schaeffner, altro membro della Missione, e lo stesso Marcel Griaule ne fu il segretario di redazione nel 1929, sostituito appunto da Leiris in attesa che tornasse da un viaggio etnografico in Etiopia.

 

 

La Missione Dakar-Gibuti partì il 19 maggio 1931 da Bordeaux con il battello a vapore Saint-Firmin e arrivò a Dakar il 31 maggio. Il 30 gennaio 1933 arrivò a Gibuti e con il battello a vapore D’Artagnan fece ritorno a Marsiglia il 17 febbraio. Annota Leiris il 19 maggio 1931 nel suo diario: “Partenza da Bordeaux alle ore 17 e 50. Gli scaricatori mettono un ramoscello sul Saint-Firmin per indicare che il lavoro è finito. Alcune puttane salutano gli uomini dell’equipaggio con cui hanno dormito la notte precedente. Sembra che, all’arrivo della nave, fossero venute sulla banchina per visitare gli uomini e passare la notte con loro. Alcuni lavoratori negri del porto guardano partire i compagni. Uno di loro, con un completo blu marina doppio petto à trois étages, un berretto a quadri e scarpe di vernice nera e daino bianco, è molto elegante”.  E il 16 febbraio 1933 scrive: “Ho rimesso i documenti nella cassetta, chiuso le valigie, preparata la biancheria per domani mattina. Scrivo queste righe nella cuccetta. La nave beccheggia leggermente. Ho la mente sgombra e il respiro tranquillo. Non mi resta altro da fare che chiudere questo taccuino, spegnere la luce, allungarmi, dormire – e fare dei sogni…”. I semiologi ci dicono che per capire un libro bisogna cominciare dalla fine. Ricordiamoci dunque di questi sogni. Intanto, in mezzo alla prima e all’ultima annotazione, si estende il monumentale diario che con il titolo L’Afrique fantôme, pubblicato nel 1934 da Gallimard, Michel Leiris firmerà con le parole di Ugo Fabietti “un magnifico quanto problematico resoconto”. Magnifico per tutti, problematico per gli antropologi, perché infatti il difficile usage del resoconto di un tardivo studente di etnologia nonché segretario della spedizione Griaule difficilmente ha garantito al suo autore qualcosa in più di due righe nei manuali di antropologia.

 

 

Perché? Erano i primi anni Trenta del Novecento, quando una disciplina sociale provava a farsi scienza e alcuni tentativi eclettici non potevano rientrare in un canone accademico? O il problema è quello di una storia dell’antropologia che forse oggi farebbe fatica ad accettare anche un capolavoro come Il mio museo della cocaina (Milieu 2019) di Michael Taussig? Oppure è l’annosa questione dello strange romance tra letteratura e antropologia, sondata con dovizia d’esempi da Alberto Sobrero in Il cristallo e la fiamma (Carocci 2009)? Probabilmente un po’ di tutto, ma sappiamo che l’ostracismo accademico del diario di Leiris fu decretato da Mauss, da Rivière e dallo stesso Griaule, perché lo trovarono sconveniente nei toni e nelle prese di posizione antietnografiche, quando non addirittura esplicitamente ostile verso l’etnografia di rapina e la tipica violenza coloniale nello strappare “ai negri” oggetti e informazioni. Ma il fantasma che abita il testo di Leiris, lo si capisce a poco a poco, è molto più inquietante di una mera critica politica a un sistema di potere accademico, economico e militare. La critica vera, quella profonda e che inquieta anche oggi gli antropologi, ormai concordi nel riconoscere e ricusare le origini colonialiste dell’antropologia, è la messa in discussione del dogma dei dogmi della ricerca etnografica: il campo. Il discorso è annoso e complesso, ma chi a tutt’oggi invoca il campo come discrimine scientifico-valutativo in ambito accademico, e magari in operazioni concorsuali, elogerà per sempre la bellezza “poetica” di un Leiris ma non potrà accettare le sabbie mobili della sua “autoetnografia”, perché mescolare osservato e osservatore significa smantellare il mito positivista della conveniente distinzione ontologica tra soggetto e oggetto della ricerca.

 

 

“25 febbraio [1932] Parlo egoisticamente. Ma se penso agli altri, ciò non può non confermarmi nell’idea che lo stato di cose in cui viviamo è ignobile e che (è il minimo!) non deve essere consentito il più piccolo sacrificio per obbedire a parole d’ordine le cui conseguenze più evidenti sono la miseria della maggioranza, lo sfruttamento – non riuscitissimo, certo, ma pur sempre sfruttamento – di milioni di individui colonizzati. Per tutto il giorno ho visto nero. Stasera sono furioso. Ma preferisco così!”. Il fantasma che ha inquietato Leiris nel suo viaggio africano è tentacolare: razzismo, colonialismo, cinismo economico, ma anche erotismo. Nel suo diario Leiris riporta una sessantina di sogni. Nella stessa notte tra il 25 e il 26 febbraio sogna che “due negre palpeggiano un eunuco albino (più che albino, bianco alabastro), completamente glabro, sul corpo del quale fioriscono come bubboni delle capocchie di chiodi d’argento. […] Sotto le carezze delle donne, che toccano i chiodi, sviene per l’emozione, inarca il busto sul sedile imbottito, gonfia il ventre e rovescia la testa sulla capote ripiegata del veicolo. Questo movimento gli fa emergere i seni, che sono seni di donna”. Il perturbante si tinge dei colori dialettici dell’antropologia e della storia: Neri e Bianchi, fertili e sterili, schiavi e padroni. E in questi strati psichici e politici, che devono aver disturbato profondamente gli accademici francesi, aleggia un altro fantasma capace di turbare l’accademia odierna: un’ostinata solitudine epistemologica in cui l’unico strumento ermeneutico davvero ammissibile, davvero penetrante, è la persona nella sua solitudine. E la visione, l’onirismo, il trauma, come terreno aumentato della ricerca.

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