Lettera di Gabriele Dadati

6 Dicembre 2011

Questa rubrica raccoglie una serie di interventi che esplorano il tema delle forme, della bellezza/bruttezza, da punti di vista molto diversi fra di loro. Ne parleranno storici dell’arte, scrittori, critici, scienziati, musicisti, filosofi, esperti di paesaggio.

 

 

Gabriele Dadati (Piacenza, 1982) ha pubblicato Sorvegliato dai fantasmi (peQuod, 2006; Barbera, 2008), premio Dante Graziosi e finalista come Libro dell’anno per Fahrenheit di Radio 3 Rai, e Il libro nero del mondo (Gaffi, 2009). Nel 2009 ha rappresentato l’Italia nel progetto Scritturegiovani di Festivaletteratura di Mantova. Collabora con Booksweb.tv, scrive su Libertà e si occupa di Laurana Editore.

 

 

Cara Alessandra,

 

rileggo questa tua domanda – “Di quanta bellezza e pienezza ha bisogno un essere umano ogni giorno?” – e mi torna in mente quel che sentii dire un pomeriggio di alcuni anni fa da un bravo scrittore italiano che ha pubblicato tre libri, poi s’è reso conto che non gli importava più stare dentro il mondo delle lettere e da mattina a sera ha detto basta. Lo scrittore in questione si chiama Matteo Galiazzo (conosci i suoi libri usciti da Einaudi? Una raccolta di racconti, intitolata Una particolare forma di anestesia chiamata morte, e due romanzi, Cargo e Il mondo è posteggiato in discesa; si trovano sulle bancarelle, se ti capita e ancora ti mancano comprali e leggili, in particolare Cargo; se invece capita a me di trovarli te li metto da parte: ho infatti l’abitudine di comprare libri fuori commercio che pure già possiedo e regalarli) e alla classica domanda sul che cos’è scrivere rispose, durante un pubblico incontro: “È come costruire un comodino. C’è una parte intellettuale, di progettazione, e poi una parte concreta, di lavoro fisico. Quando hai finito ti volti e c’è lì un manufatto, il comodino, che è una cosa vera, esistente. Ecco, scrivere è insieme intellettuale e concreto, è fatto di testa e di braccia, e alla fine salta fuori un oggetto”.

 

Perché ti tiro fuori questo, che poi non è neppure così originale? Per dirti che ogni giorno io costruisco un comodino. Che giorno dopo giorno quel che mi prefiggo è di riempire il mondo con i miei piccoli, modesti comodini, che sono tutto quello che posso fare. Cosa c’entra questo con la bellezza che ognuno di noi ha bisogno? C’entra, perché la bellezza che ognuno di noi è in grado di procurarsi ogni giorno è la bellezza del ben fatto. Non una bellezza da ricevere, quindi, ma una bellezza da dare; una bellezza che non dobbiamo cercare qua e là come rabdomanti ma che possiamo far scaturire dalle nostre mani. E ho voluto dirlo con l’immagine del comodino perché mi sembra molto utile imparare a visualizzare le proprie giornate come atte a produrre un manufatto. Qualsiasi mestiere noi facciamo (e la statistica dice che, con tutta probabilità, sarà un mestiere del terziario, cioè una cosa che si fa con le parole e con i numeri e non sporcandosi le mani), dobbiamo sempre vedere di fronte a noi questo oggetto immaginario e reale che ogni giorno costruiamo, che giunti a fine giornata abbiamo costruito, questo comodino che deve essere solido, bello e con i cassetti al posto giusto.

 

Dobbiamo imparare a pensare alla bellezza come a qualcosa che ci riguarda e che possiamo mettere al mondo. Dobbiamo imparare a trarre beneficio da questo e a stare bene mentre fatichiamo. È l’occasione per scoprire che la bellezza – questa bellezza – è un valore civile. Che l’estetica può coincidere con l’etica. Penso che prendere il proprio lavoro sul serio e senza fini ulteriori (non bisogna lavorare per i soldi o per fare colpo su qualcuno o per ottenere un avanzamento o per qualche altro motivo che è sì correlato, ma esterno) sia il miglior contributo che possiamo dare per costruire una diga contro lo sfacelo della contemporaneità.

 

Ogni sera io levo le mani da quello che ho fatto e lo guardo con amore. È un comodino piccolo, imperfetto, ma è il miglior comodino che potevo costruire. Per questo motivo, mentre ancora ci vedo su le impronte delle mie mani, mi rendo conto che lo amo. So che da domani questo comodino andrà per il mondo, unendosi a branchi di altri comodini nomadi che pascolano nelle radure d’Italia. So che arriverà da qualche parte. So che leccherà il palmo della mano di chi l’accoglierà. E io saprò – come tutti sanno – che il mio lavoro, tutto tornito e massimamente bello, è buono.

 

Ti abbraccio,

 

Gabriele.

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