Lottare per l'inquadratura

1 Luglio 2015

Gli operai non hanno mai avuto vita facile sui media moderni. Anche se si tratta di due realtà pressoché coeve. Quello che è considerato il primissimo film della storia del cinema, per esempio, è ambientato proprio in una fabbrica. Fu proiettato nel 1895, si chiama L'uscita dalle Fabbriche Lumière (La Sortie des usines) e dura poche decine di secondi: non mostra che l'apertura dei cancelli e il defluire dei lavoratori a piedi e in bici.

 

In quel filmato – un evento pubblicitario grazie al quale i Lumière legarono l'invenzione al loro nome e al loro marchio – si può osservare un particolare solo in apparenza marginale: la scena fu girata durante una giornata feriale, tuttavia in quell'occasione le maestranze si vestirono al loro meglio. Probabile quindi che quelle immagini documentino più l'abbigliamento nel giorno di festa che la reale tenuta quotidiana di molti di loro.

 

Allo stesso modo, il mondo del lavoro battezzò la cartellonistica, come dire la tv dell'epoca. È il caso del manifesto dell'Expo milanese nel 1906, che celebrò il traforo del Sempione, oggi considerato la prima grande affissione artistica italiana. A firmarlo fu il triestino Leopoldo Metlicovitz, che vi raffigurò il simbolico momento di apertura dell'Italia all'Europa. A guardare la luce in fondo alla galleria, però, in quel poster non sono i lavoratori che ne furono gli autori reali, ma delle figure mitiche come quella di Mercurio alato, simbolo di mobilità e progresso. Sia il grande schermo sia l'affissione, dunque, nascono nel segno del lavoro: ma ciò che accomuna il lavoratore in questi differenti esempi è il suo camuffamento.

 

Leopoldo Melicovitz, Manifesto per Expo 1906

 

L'immagine moderna non accettava l'operaio senza mediarlo in qualcos'altro. Per usare ancora una similitudine televisiva, possiamo dire che egli, così com'era, non poteva essere inquadrato. Prima di accoglierlo in quel perimetro si doveva almeno metterlo in ghingheri, oppure idealizzarlo sotto forma divina, insomma adeguarlo come per un nuovo luogo, confermando così che il lavoro operaio, con le sue condizioni, era l'altra faccia del moderno, impossibile da mostrare poiché ne svelava lo snodo rimosso: lo sfruttamento.

 

Se il terziario conosce al cinema anche grandi rappresentazioni tragiche, e l'esempio principale è La Folla di King Vidor (1928), il semplice mostrare gli operai aveva un potenziale di conflitto che sarà al centro di Metropolis di Fritz Lang (1927) – nel quale non a caso i lavoratori vivono in un sottomondo sottratto alla pubblica visione – nonché della catena di montaggio come reclusione nel René Clair di A nous la liberté (1931) che anticipò quella più celebre di Chaplin (Tempi Moderni, 1936).

 

Mostrare la fabbrica era in sé un gesto d'opposizione. Tentare di includerla nell'immaginario equivaleva a un'azione politica, in antitesi con i valori dominanti. Molta della lotta culturale che infuria in quegli anni consiste proprio nell'ideale tentativo di portare nell'inquadratura il mondo operaio facendone oggetto di racconto. Non è un caso che tra il 1932 e il 1933 si collochi l'inchiesta di Simone Weil sulla Condizione Operaia, ma anche il Céline di Viaggio al termine della notte e persino l'Ernst Junger di L'Operaio.

 

Il secolo, a ben vedere, era iniziato proprio con l'ingresso del Quarto Stato nel riquadro di una tela (Pellizza da Volpedo, 1901): una massa in sciopero invade il dipinto muovendo il passo verso il nostro sguardo. Nel rettangolo di uno schermo o di un poster, però, si entrava solo per celebrare il moderno, non certo per turbare la sua allegria ricordandone i costi umani. La foto scattata da Margaret Bourke White nel 1937 – con i diseredati in fila per un pasto proprio sotto l'affissione che celebra l'American Way of life – fissò per sempre la parzialità propagandistica di quelle immagini di successo.

 

La cartellonistica del regime fascista, infatti, marginalizza l'operaio, simbolo di conflitto, scegliendo di esaltare il lavoro contadino con l'invenzione di un italiano arcadico, fuori dalla storia, già celebrato dal Blasetti di Terra Madre (1931) ma soprattutto dalle plastiche raffigurazioni di Gino Boccasile, disegnatore principe del fascismo visivo. Nel dopoguerra la questione torna intatta: chi può entrare, adesso, nell'inquadratura dei media? L'opposizione culturale tenta di sospingervi gli sconfitti del neorealismo, ma ci sono anche i miserabili di una commedia fatta di sbandati e avventurieri, insomma i Totò e i Ladri di biciclette. Gli operai, però, non si vedono ancora, e certo non compaiono, poco più avanti, nell'euforico universo reclamistico di Carosello.

 

Gino Boccasile

 

Non mancarono parentesi affascinanti, una tra tutte lo sviluppo del documentario industriale dagli anni cinquanta in poi, cui contribuirono figure come Olmi, Pasolini, Fortini, conciliando i fini pubblicitari delle aziende con il racconto di una forza lavoro quale parte viva del processo di produzione. Più in generale, nella democrazia repubblicana, e con le lotte sindacali, la questione si pone in termini nuovi. Far parte dell'affresco sociale somiglia ora a un diritto, ha a che fare con la dignità di vaste parti del paese. Del resto lo stesso verbo "rappresentare" contiene un doppio significato: vuol dire svolgere una funzione in nome d'altri, ossia "rappresentare democraticamente”, ma significa anche raffigurare la realtà, tradurla in racconto.

 

Negli anni settanta l'operaio quindi trova posto al cinema con i volti noti di Volontè (La classe operaia va in paradiso, 1971), Giancarlo Giannini (Mimì metallurgico, 1972), Giuliano Gemma (Delitto d'amore, 1974), Ugo Tognazzi (Romanzo Popolare, 1974). Pellicole popolari, ma anche trame a tinte forti e attorialità spesso confinanti col grottesco, che ripresentano, seppure in chiave più sottile e inconsapevole, una nuova strategia del camuffamento, una trasformazione del lavoratore in maschera, in una caratterizzazione simbolica sopra le righe.

 

Giancarlo Giannini

 

Come dire che è ammesso il corpo dell'operaio ma non la persona. Del resto, anche quando ai giorni nostri il lavoratore è interpellato dal giornalismo tv, gli è richiesto di esprimere puramente il suo disagio, non il suo punto di vista. Dopo aver ottenuto la parola per enunciare la propria condizione, mostrato il volto della sua cassa integrazione, egli può tornare fuori l'inquadratura. In democrazia, dunque, la discriminazione si raffina. L'esercizio di un diritto diventa un'aggiornata sottolineatura della marginalità, una trappola comunicativa dalla quale non si esce semplicemente apparendo.

 

La lotta per l'inquadratura dunque è stata inutile? Tutt'altro. Semmai le sue conquiste odierne sono tardive, rispondono a una domanda nata nello scenario mediatico del monopolio, non in quello attuale. Adesso che non c'è più un'inquadratura unica della quale invocare le attenzioni, dipendervi significa accentuare la propria debolezza mentre la comunicazione offre infiniti strumenti. In parole povere: quando i talk show non t'invitano più, che fai? Tanto più che, nell'affollamento attuale, farsi inquadrare non significa poi molto. La metà degli astenuti rilevata in questi giorni parla chiaro: essere presente sui media non equivale a farsi ascoltare né tantomeno a convincere.

 

Dall'avvento di Berlusconi in poi questo nostro paese si è convinto che comunicazione sia nient'altro che quell'attività propagandistica tipica dei potenti, i quali emettono dall'alto verso il basso della cittadinanza i loro messaggi privi di verità. Basta notare come tra i vari tavoli che costituiscono il format fisso di tutte le convention di sinistra "Leopolda style" non ce ne sia mai uno dedicato alla comunicazione in senso progressista. Il messaggio implicito è chiaro: per la nostra politica, comunicare riguarda l'esercizio del potere, non lo sviluppo della democrazia.

 

Ciò che invece urge è proprio appropriarsi – e da posizioni democratiche – della parola “comunicare" il cui significato originario, ricordiamolo, è mettere in comune. Valorizzando quel che Bernbach dimostrò al mondo: un'autentica comunicazione è possibile solo partendo da verità condivise. Niente che somigli allo storytelling politico di cui si parla in Italia, descritto come un fenomeno producibile artificialmente, sganciato dagli eventi reali. Per intenderci, dire di aver stravinto le elezioni nonostante tutti sappiano com'è andata, non può considerarsi comunicazione. Semmai, una forma contemporanea d'intorto.

 

William Bernbach

 

Diverso è porsi il problema di come abitare i media odierni, essere autori della propria agenda senza tradire i propri valori, organizzare un discorso di verità rendendolo interessante, memorabile, vivo. Reclamare spazio non è l'unico modo. Si può anche crearlo, costruire un racconto di sé. Tanto più nell'attuale proliferazione mediatica, nata per offrire nuove tribune. Certo, il fatto che il lavoro – sede per eccellenza del principio di realtà – fatichi a diventare tangibile per i media è un maestoso paradosso dei nostri giorni. Tuttavia, questo suo radicamento concreto non potrebbe anche diventare la base di un altro modo di comunicare? Verità versus intorto.

 

Aver lottato per l'inquadratura non avrà avuto senso se non si sviluppa la capacità di condividere le proprie idee. Perché avere ragione non basta. Lo sapeva già Bernbach, quando nel 1980 scrisse: Ho visto troppe cause valide fallire per mancanza di competenza nel comunicare con il pubblico, mentre altre indegne trionfavano avendo quelle capacità. Gli uomini di buona volontà non sono per forza dei bravi comunicatori. E questo può essere una tragedia.

 

 

 

Questo testo è la rielaborazione di un intervento letto nel corso della festa FIOM il 12 giugno 2015 presso la fabbrica Rimaflow a Trezzano sul Naviglio.

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