Giorno 5 / Macondoz

5 Dicembre 2019

Sul Mar Nero, durante un soggiorno terapeutico per la cura ricostituente delle ossa, Michail Bachtin (1895 – 1975), abbacinato dall’intensa azione corroborante del sole e dello iodio sul sistema nervoso centrale, perse uno degli appunti preparatori alla stesura del suo celebre trattato di toponimia incrociata. 

Un lembo di quel foglietto volante smarrito dallo studioso russo durante quell’intensa sessione elioterapica è stato recentemente rinvenuto da un gruppo di comparatisti durante un’esercitazione in cui simulavano nell’extratesto, che qualcuno chiama erroneamente “mondo reale”, una delle loro illecite inversioni dell’ordine degli eventi e dei fatti letterari.

Agli anonimi ricercatori, secondo cui peraltro tutto è intertesto, va quindi il merito della scoperta: su quello scampolo di carta lacera, prima ingiallita ora quasi trasparente, tra muffe e funghi ormai estinti, s’affaccia la parola Macondoz

 

Macondoz s. f. [prob. comp. di Macondo e Oz]. - Per alcuni un malapropismo, vale a dire uno scherzo concepito per minare la fibra della comunità scientifica internazionale. Per altri una figura del superamento per impulso utopico, ossia una questione di ordine pubblico nei domini della letteratura.

In effetti, il ritrovamento del cronotopo Macondoz è una scossa sismica che sgretola le pareti dei generi e delle forme, in cui ora è necessario contemplare, oltre al viaggio a ritroso, anche i salti di lato in un altrove che è insieme altro e oltre. 

Il termine M., categoria narratologica e provincia immaginaria, è anche voce verbale che indica la pratica del fantasticare che accomuna bambine, stirpi e critici, espropriandone la volontà: M. è così indicibilmente bella da non permettere, pur volendo, di tornare a casa. M. è dunque anche aggettivo derivato. 

 

Il viaggio verso il desiderio è abbacinante, come la luce sul Mar Nero che rende sbadati i teorici, allora bisogna cercare pretesti per la partenza. A M., la terra promessa che nessuno ha promesso, vanno le bambine portate via dai cicloni, le famiglie di sradicati che hanno dato la loro parola ai fantasmi e gli estremisti dell’esegesi – asceti dell’immaginario che hanno barattato l’ansia di conoscere l’esterno con la frenesia investigativa tutta rivolta all’interno, in avanti e all’indietro, fino all’epicentro, sempre mobile, in cui il sincronismo si scatena. 

Lì, nel regno degli specchietti, non si muore mai, ci si sposta. Basta accedervi, ma non è semplice, perché alla frontiera due signori il cui cartellino dice, rispettivamente, García Márquez e Baum, controllano che chi voglia entrare non abbia i documenti. Basta un frammento di carta intestata scordato in tasca per essere espulsi ancor prima d’avervi messo piede: le dimenticanze sono figlie delle intenzioni, e a M. le intenzioni contano più dei fatti, che peraltro non esistono.

 

Chi riesce a entrare si muove da un’invenzione all’altra, incorrendo in un destino condiviso: la pienezza mortifera e splendente del desiderio utopico, fuori dall’immediatezza del vissuto, dentro l’eterno non-essere-ancora del futuro, che sovverte l’ordine delle cose facendo nascere creature con la coda a cavaturacciolo, progenie illegittima della riflessione teorica e dell’attività immaginifica. 

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