Manzan: un hacker della scena 

22 Marzo 2024

Leonardo Manzan è irritante. L’artista, naturalmente. Egocentrico, spocchioso, autoriferito, fustigatore di una contemporaneità che sceglie di incarnare – nei linguaggi, nelle posture, negli assunti – per poi demolirla, sconsacrarla, mortificarla. 

La polemica è una sua cifra stilistica, sensibile alla noia quanto alla ripetizione che esorcizza con dispositivi che provano, almeno negli intenti, a diversificarsi di continuo, per rifuggire, denunciandola, alla gabbia della retorica del consenso. 

È insofferente ai critici, Manzan, al punto tale da spodestarli dalla pretesa della loro funzione, anticipandone le mosse (e le recensioni) nei suoi lavori. È irritato da colleghi e colleghe che non si prendono con la dovuta hybris i riflettori ma che insistono nel solco di una mediocrità che si autocelebra. Auspica, al contrario, il ritorno a una inevitabile strafottenza da anteporre al “perdente di talento” che incarna – a suo dire – il protagonista della scena teatrale italiana di oggi. “Vorrei che l’artista di teatro acquistasse il potere, la consapevolezza e l’orgoglio che hanno le rockstar. Mi piace quel tipo di approccio lì. Sei sul palco, abbine la responsabilità”. 

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Dal repertorio: un’immagine di Cirano deve morire, ph. Andrea Avezzù, courtesy Biennale Teatro di Venezia.

In Cirano deve morire, il progetto con cui nel 2018 vince il bando registi under 30 della Biennale College diretta da Antonio Latella, l’invettiva contro il palcoscenico made in Italy assume le forme di una battle rap che riscrive l’opera di Rostand a colpi di sequenze iper ritmate a favor di pubblico. In Glory Wall, presentato e premiato sempre alla Biennale, questa volta nel 2020, l’invito a ragionare sul tema della censura si traduce in un muro-saracinesca di dodici metri issato a chiusura della quarta parete, per farne fuoriuscire, poi, solo oggetti e livore contro le dinamiche creative e produttive nostrane. Nella sua ultima produzione, che ha debuttato a marzo al Teatro India a Roma, Manzan affila ancora una volta la lama della provocazione, trasformando lo spazio teatrale nella sala di un museo di arte contemporanea. Titolo e sottotitolo del lavoro sono già di per sé un manifesto di narcisismo. Uno spettacolo di Leonardo Manzan. Leonardo Manzan dirige Leonardo Manzan in una delle produzioni più attese dell’anno: il nuovo spettacolo di Leonardo Manzan. 

Un’auto-affermazione maleducata, sgarbata ma necessaria, a dire del suo autore, per preservare quella “legittima arroganza” che deve essere il marchio di fabbrica di chi sale sulla scena. “Questo è un mestiere che si fa innanzitutto per piacere – dice Manzan – per essere guardati, sotto i riflettori, in un rapporto sbilanciato da uno a cento. Quando si perde il contatto con questa spinta originale, qualcosa crolla”. E non a caso, lo spettacolo ha inizio con un proiettore che precipita sulla superfice ristretta di un piedistallo che si erge in solitaria sulla scena vuota. Ci sono le audioguide disposte sulle poltrone ad attendere l’ingresso del pubblico in platea e Paola Giannini nei panni di un’assistente museale a guardia di una preziosissima opera d’arte vivente, l’autore stesso, che di lì a qualche istante si leva sulla base. Sul fondale in penombra, la sagoma di Rocco Placidi rimarrà immobile per tutto il tempo a vegliare sul capolavoro. 

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Dal repertorio: un’immagine di Glory Wall, ph. Andrea Avezzù, courtesy Biennale Teatro di Venezia.

La voce in cuffia, ovviamente quella di Manzan, comincia a riannodare i fili di un’esistenza straordinaria, la sua, un’estasi della normalità che si compie davanti ai nostri occhi, nel corpo nudo offerto come installazione ai fortunati spettatori. Scultoreo nella sua prode banalità, l’artista rivendica il principio del suo genio passando in rassegna episodi di una biografia fuori dal comune. Enfant prodige alle scuole elementari, promessa confermata dagli innumerevoli successi del panorama teatrale odierno. Fiction, autofiction e parodia dell’autofiction, c’è posto per tutto in questo gioco/j’accuse contro l’artista contemporaneo che non riesce a fare a meno “del culto di sé in assenza di sé”. Un monoteismo da vicolo cieco che compiace prima di tutti il suo creatore, Manzan, che, per più di un’ora, dall’alto del suo podio, offre corpo, capelli e sorrisino sardonico al pubblico, chiamato anche a interagire con trovate non sempre illuminanti. Vengono fatti alzare gli addetti e le addette ai lavori, chi ha pagato il biglietto e chi non l’ha fatto, coloro che superano o non superano una certa età, e così via. Un occhio di luce puntato su due spettatori rivela in cuffia i loro pensieri nascosti sullo spettacolo, prevenendo così la critica all’opera prima ancora che possa essere scritta. E, poi, le (solite) battute su Favino, la famosa banana di Cattelan masticata, buccia compresa, con sonora compiacenza dall’onnipresente Paola Giannini (“cosa fa di un oggetto un’opera d’arte?”), la pausa sigaretta sul palco per contemplare meglio la statua umana e l’asta conclusiva in cui si vendono pezzi e corpo dell’autore con tanto di sottoscrizione di contratto. E lui, il prezioso manufatto d’arte vivente, se ne starà per tutto il tempo in silenzio, fino a quando, nel finale, prenderà parola per recitare il suo credo in favore dell’eccezionalità dell’artista. 

Si può uscire infastiditi, incuriositi, divertiti, irritati, dagli spettacoli di Manzan, di sicuro non annoiati. Ma, oggi, dopo tre regie e una poetica dello sguardo e dell’azione ben tracciati, la sfida a tutti i costi e il divertissement della forma non (ci) bastano più. L’affondo, lo strappo, l’hackeraggio, fare della scena una rivoluzione agita con la potenza del segno, in grado di dare parola a cose che non si possono dire. Questa è la provocazione che aspettiamo e ci aspettiamo dal teatro. E Leonardo Manzan ha tutta la curiosità, l’intelligenza e la legittima arroganza per riuscirci. 

Bene, vediamo un po’ come fiorisci,
come ti apri, di che colore hai i petali,
quanti pistilli hai, che trucchi usi
per spargere il tuo polline e ripeterti,
se hai fioritura languida o violenta,
che portamento prendi, dove inclini,
se nel morire infradici o insecchisci,
avanti su, io guardo, tu fiorisci.

(Amore non mio e neanche tuo, Patrizia Cavalli)

Uno spettacolo di Leonardo Manzan è una produzione de La Fabbrica dell’Attore-Teatro Vascello. Dopo le date romane al Teatro India, sarà il 18 maggio ad Assisi al Teatro degli Instabili, il 21 maggio a Salerno, Sala Pasolini, dal 24 ottobre al 3 dicembre a Napoli, al Teatro Elicantropo, e dal 14 al 24 novembre a Roma, nella sala studio del Teatro Vascello.

Uno spettacolo di Leonardo Manzan

Leonardo Manzan dirige Leonardo Manzan in una delle produzioni più attese dell’anno: il nuovo spettacolo di Leonardo Manzan di e con Paola Giannini, Leonardo Manzan, Rocco Placidi

Nell’ultima immagine “una piccola opera Manzan” .

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