Industria Indipendente: ibridazioni e relazioni
Il prossimo 17 settembre all’Angelo Mai a Roma chiuderanno l’edizione 2023 del festival Short Theatre – Radical Sympathy con una versione straordinaria delle loro Merende, il dispositivo di occupazione nomade che dal 2018 intercetta spazi e comunità offrendo pratiche artistiche e dello stare insieme. Con Industria Indipendente, aka Erika Z. Galli e Martina Ruggeri, la performance sperimenta la reciprocità dell’altrove, la collisione dei corpi, il rovesciamento che genera distorsioni e alleanze. Un underground elettronico che hackera la scena per agire linguaggi, forme, immaginari in un campo d’azione moltiplicato e ibrido. Che sia il palcoscenico, la città o una consolle, per il collettivo nato nella capitale nel 2005, ricerca significa insinuarsi nella permeabilità dei sistemi artistici per farne un ecosistema vivo, pulsante, eccentrico di riflessione. Un “superorganismo infestante” in cui aggregarsi, risuonare, dissonare, co-esistere.
Dalla scrittura per il teatro, che segna i primi passi di Galli e Ruggeri come autrici e registe, alla performing art e all’arte visiva, la dimensione della relazione è un cantiere che investe luoghi, prossemiche, modelli con il suo potere generativo. Nel loro ultimo lavoro, La mano sinistra, che ha debuttato lo scorso giugno al Teatro di Roma e che sarà in tournée a partire da maggio 2024 all’Arena del Sole di Bologna (3-4), al Morlacchi di Perugia (il 9) e al LAC di Lugano (il 16 maggio), echi dei precedenti attraversamenti confluiscono in un paesaggio vibrante che ha la liquidità del sogno e dell’allucinazione. Scritto e diretto da Industria Indipendente, con Annamaria Ajmone, Silvia Calderoni, Iva Stanisic, luci e video di Erika Z. Galli e Luca Brinchi e musiche originali di Ruggeri, Stanisic e Steve Pepe.
Come nasce La mano sinistra e come si posiziona, in che modo dialoga con i vostri precedenti lavori?
La scrittura di La mano sinistra nasce durante le prove di Klub Taiga, in un momento notturno, in uno stato non completamente vigile, e diventa pian piano qualcosa che iniziamo a vedere, a riconoscere come una traccia. Con la mano sinistra guardo quello che non posso, le viscere uguali delle altre cose, le loro parti più piccole. Non conto e perdo i pezzi. Con la mano sinistra riscrivo tutto quello che ho dimenticato. Dico storto e a rovescio.
Klub Taiga si era nutrito di immaginari legati all’occultismo, allo spiritismo, a forme di conoscenza non lineare, insieme all’idea che fosse un club. Iniziamo, quindi, a studiare, a indagare, a leggere, ne escono, nel frattempo, diverse scritture non controllate rispetto a un’idea di spettacolo. A un certo punto, approdiamo a un altro immaginario, più scenico, di luogo, perché, ci diciamo, quello che ha nutrito Klub Taiga e che continua a nutrire Merende, è l’idea di uno spazio che sia il soggetto stesso del lavoro. Guardiamo al varietà, alla televisione e a immaginari e modelli con cui siamo cresciute a più riprese, iconografie precise di quel periodo (ci sono moltissime citazioni, indizi, omaggi come, ad esempio, la meravigliosa immagine di Raffaella Carrà nel video di Forte forte). Ci immergiamo in questo mondo e arriviamo a Stryx, un programma musicale straordinario trasmesso da Raidue nel 1978, assurdo, super weird, che ha ospitato nomi del calibro di Grace Johnson, Patty Pravo, Mia Martini, Anna Oxa, Amanda Lear, Giuni Russo. Naturalmente, parliamo di una regia al maschile, con uno sguardo maschile, un programma in cui le donne performano al contempo sia desiderio che rivolta.
“Il contenitore scenografico di Stryx – si legge nella descrizione del programma – è concepito come un antro mefistofelico all'interno del quale si muovono folletti, menestrelli, diavoli, sacerdotesse pagane seminude e, appunto, streghe”. Anche queste sono risonanze…
In La mano sinistra ci sono tanti riferimenti iconografici a quegli anni che abbiamo ripensato e riscritto per la scena. Da questo magma stratificato e complesso inizia a delinearsi un lavoro che, come segno, risente dell’eco del programma e del periodo storico in cui andava in onda. Allargando lo sguardo, in questo archivio smarginato di stimoli, andiamo a recuperare anche il filone non italiano, in primis, i concerti di Laurie Anderson. Nel suo Home of the Brave, della fine degli anni Ottanta, c’è un continuo scivolare tra discorso pubblico e politico, musica, suono, personaggi che si muovono e cambiano lo spazio, generazioni multimediali. Con Luca Brinchi, che in La mano sinistra cura luci e video, ci siamo immers* in questo immaginario per cercare di capire come queste informazioni, questi simboli, potessero inserirsi in un altro tipo di discorso.
Come una distorsione o un sogno…
Sì, è come la sensazione di guardare qualcosa di riconoscibile ma con un contenuto poi differente. La mano sinistra è la diffrazione di ciò che sfugge, è un paesaggio eccentrico di inoperosità, “chi scrive sbava l’inchiostro” si dice nel testo, è un altro da sé che genera continuamente domande. Un dialogo costante, dialoghi che diventano altri dialoghi come una continua ypsilon, come nel sistema della magia.
Chiedere ad artiste come Silvia Calderoni, Annamaria Ajmone e Iva Stanisic, che incarnano pratiche differenti e risonanti, di partecipare a questo luogo performativo significa predisporre un principio di presenza unica. Non si tratta di multidisciplinarità ma di un sistema vivo di corpi e di relazioni, la produzione di suono live con le parole e sulle parole di Silvia, un dialogo costante non solo con il pubblico ma anche fra di noi. È un rito che incessantemente si compie.
Da I ragazzi del cavalcavia passando per Lullaby, e poi ancora per il dispositivo delle Merende e Klub Taiga fino ad approdare a quest'ultimo lavoro, mi sembra che la traiettoria estetica, politica, poetica della vostra ricerca artistica stia diventando sempre più consapevole e organica. Voi come e dove vi sentite in questo momento?
La mano sinistra è stato ed è un momento di singolarità molto interessante. Tutti i passaggi che abbiamo abitato sono attraversamenti sui quali ritorneremo sicuramente con altri bagagli ma sono stati metamorfizzanti, nel senso che ci hanno cambiate, ci hanno trasformate in profondità. Ci hanno aiutate anche a capire quando era arrivata l’ora in cui c’era bisogno di altro.
Tutto è stato informato da tutto, nella differenza: anche i dispositivi drammaturgici che abbiamo indagato sono sempre in qualche modo legati a micro comunità di persone simili che si ritrovano in scena e moltiplicano il loro effetto, come per esempio gli ottuagenari di Lullaby.
C’è sempre stato un desiderio ritmico e sonoro anche quando utilizzavamo solo la parola. Chiaramente l’esperienza dell’happening e di Klub Taiga ci ha dimostrato una possibilità molto divertente nel senso di devertere, cambiare direzione, di costruire. Il fatto di poter muovere una macchina nella quale tanti elementi si sovrappongono e scegliere delle persone che rappresentano qualcosa, che hanno una soggettività brillante e significativa da cui imparare e con cui confondersi, è indispensabile per noi. Poter guardare ai corpi, alle loro pratiche, alla loro sapienza, coinvolgere anche corpi non umani come potenziali non gerarchici, ci dà la possibilità di esplorare individualmente e come ensemble. In questi anni come Industria Indipendente abbiamo sviluppato due pratiche parallele, l’apparato sonoro e l’illuminotecnica, e questo ci ha permesso e ci permette di gestire il processo di creazione in maniera più profonda pur senza perdere mai la dimensione del confronto, della collaborazione, del fare insieme. Poter assumere ogni elemento fa sì che tutta la scena sia scritta, tutto abbia una sua presenza, anche i lampadari delle nostre nonne e un teschio di capra trovato in montagna. E di questo nulla è esplicitato, ma tutto riverbera, come nella magia.
C’è anche una consapevolezza delle difficoltà che affrontiamo in una maniera più lucida, ora. All’inizio premeva l’aspettativa del fuori, dei confini che puoi dare al tuo lavoro, la consapevolezza dei tempi, dei no che puoi e devi dire. Adesso è tutto più chiaro. E fare una performance come Merende tutti i mesi, il doversi prendere cura di uno spazio ogni volta, ripensarlo, ricostruirlo, gestire i contenuti, gli ospiti, tutto questo ti dà una possibilità inedita di conoscere meglio la scena. Siamo portat* a pensare che quello che diciamo e quello che produciamo sul palcoscenico come umani siano la parte più importante, ma anche cognitivamente è dimostrato che i primi elementi da cui siamo attraversati sono lo spazio, gli odori, l’idea di entrare in un luogo e riceverne una sensazione che è più forte dell’umano, almeno al primo impatto. Pensare a uno spazio che è materia viva.
I vostri sono sempre lavori manifesto, il vostro linguaggio artistico è in questo senso militante. Queste siete voi o il mondo? E in che rapporto siete con il mondo?
Sentiamo forte la necessità di riportare, di tradire e di tramandare ogni volta che scegliamo un dispositivo come quello teatrale così profondo e magico. Tradire e tramandare una tradizione, un certo tipo di pensiero politico, con la nostra idea delle relazioni e del concetto di pratiche e di arte. C’è una continua tensione verso, ed è la stessa di quando facciamo Merende o di quando occupiamo degli spazi con altr*. Mettiamo in campo determinati argomenti e vediamo cosa accade quando si azionano strategie altre. Quindi, i meccanismi di divertimento, confusione, e di pensiero. È questo che proviamo sempre a fare, a stare in questi meccanismi, a materializzare delle possibilità.
Siamo arrivate a un punto del nostro percorso in cui, anche quando iniziamo a pensare a un nuovo lavoro, siamo continuamente informate e abitate da quello che siamo, da quello che guardiamo e dal desiderio di come vorremmo fosse abitato il mondo. Come dice il dialogo alla fine dello spettacolo: “sono i posti che scelgono te”. Crediamo che sarà quel qualcosa a scegliere noi.
L’ultima immagine è un altro dei provini per La mano sinistra, ph. Claudia Pajewski