La materia vischiosa delle relazioni. Short Theatre 2024

13 Settembre 2024

Pensare un festival come un paesaggio che non finiamo mai di attraversare, concedersi la possibilità che il racconto si faccia sedimento, prendendosi in carico il passato per misurare il presente. Nel 2021 Piersandra Di Matteo si affaccia alla direzione artistica di Short Theatre firmando, insieme a Francesca Corona, allora direttrice uscente, un’edizione all’insegna delle pratiche dell’ascolto. The Voice This Time mette in forma un gesto di passaggio che convoca un’arena di collisioni artistiche. ¡Vibrant Matter! del 2022 è l’atto primo di una visione triennale: la vertigine da prima volta elettrizza l’aria rivelando un reticolo atomico di traiettorie e formati che interpellano la città come un sistema aperto in divenire. La materia conta, e con un apparato estetico-critico diffuso e stratificato, il festival si espone alle interferenze e ai fermenti del contemporaneo. Con Radical Simpathy del 2023, la curatela della Di Matteo si fa radice in un tessuto urbano scomposto, per sinuosità e direttrici, ma iperconnesso da una calamita gravitazionale che attrae verso l’insolito. Lo spazio, non più – o non solo – luogo, si fa sostanza di dialogo tra i corpi e le cose, performer e pubblico, nutrendo la comunità della rassegna e smarginandola in attraversamenti che rasentano altezze e profondità. Dal dentro al fuori, dal centro identitario e storico de La Pelanda al tessuto metropolitano complicato e complice. È porosa e permeabile la città che il festival mobilita, un assemblaggio di visioni, lavori, linguaggi che, anno dopo anno, immagina nuove traiettorie e occupazioni. 

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Bless This Mess, di Katerina Andreou, foto Claudia Pajewski.

Viscous Porosity, l’edizione numero diciannove di Short Theatre, andata in scena a settembre 2024, prosegue nel solco tracciato dal triennio concludendolo e intrufolandosi, questa volta, nella traccia vischiosa delle relazioni, nella complessità disordinata, ostinata, intra-attiva dei fenomeni. Accogliendo la criticità dello sguardo e le sue frizioni, consegnando alla sperimentazione acustica e al gesto, prima che alla parola, la possibilità di essere cerniera fluida dell’impuro e del marginale. 

Nella convergenza di questo ecosistema colloso, ascolto e performatività continuano a interrogare la presenza, scavando nelle matrici culturali, istituzionali, sociali della postura creativa. Concerti, memorie sonore, campionamenti acustici mettono in questione i regimi dell’ascolto proponendo nuove ecologie che ribaltano ruoli e privilegi. Percorrere la geografia di Short Theatre 19 è ricomporre una polifonia di interventi che da La Pelanda si muovono alla volta delle sponde del Parco Tevere Marconi e del vicino Teatro India, del Cimitero Monumentale del Verano, del Teatro Cometa Off e del Teatro di Documenti a Testaccio, dell’Angelo Mai e del Teatro Basilica nel quartiere San Giovanni. 

Nell’eterogeneità dei dispositivi e dei processi, nella prossimità di artist* affermat* e di realtà emergenti, di lavori consolidati e di cantieri di ricerca, di spazi di formazione e spazi di condivisione, Short Theatre 2024 riscrive conflitto e vulnerabilità in un campo mobile di resistenza.

La curatela, giunti ormai quasi alla fine del mandato di Piersandra Di Matteo e in attesa di conoscere l’esito della call indetta dal direttivo del festival per individuare la nuova direzione artistica del prossimo triennio, si configura sempre di più come un atto politico, collettivo del prendersi cura, “una capacità di creare costellazioni” immaginando spazi e istanze del desiderio in cui agire come comunità. 

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La memoria risiede nel lobo dell’orecchio, di Alessandro Bosetti, foto Claudia Borgia.

Come suona un rumore indimenticabile?

Un bisbiglio consegnato nel silenzio a ogni spettatore. Alessandro Bosetti si muove nello spazio disegnato da sedie che non si guardano e convoca con la parola il suono dei ricordi. Piccoli ricordi qualunque, come “La sigla del TG1”, è quanto basta a innescare una partitura sonica che accarezza l’emozione.

La memoria risiede nel lobo dell’orecchio è un luogo minuto cui si accede a occhi chiusi, reale ed evanescente come la filigrana di certi sogni, impalpabile da poter a ogni istante sparire ma non per questo meno luminoso, di una grazia segreta e temibile. 

La performance, che nasce dall’incontro tra il compositore e sound artist e una comunità di persone cieche e ipovedenti dell’A.S.P. Sant’Alessio Margherita di Savoia di Roma, ricuce pezzi di vita passata in un’epidermide condivisa della memoria. Bosetti esplora il potere del linguaggio nell’atto del ricordare, e fa del suono la traccia impressa nei corpi di chi incontra. Dentro e fuori, lontana e vicina, la rievocazione acustica scrive la creazione nello spazio immaginifico di ogni ascoltatore, lì dove spezzettati, trasformati o riassemblati i ricordi si fanno suono per non sparire. 

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The Second Body, di Ola Maciejewska, foto Claudia Pajewski.

Catturare il proprio secondo corpo

Secondo l'entanglement, o correlazione quantistica, due o più particelle che hanno proprietà correlate sono in grado di influenzarsi a vicenda istantaneamente, anche se poste ad enorme distanza fra loro. Un legame invisibile di natura fondamentale, un intrico della materia che risuona nella dis/continuità. 

In The Second Body di Ola Maciejewska, coreografa polacca di base in Francia, Leah Marojević esplora nello spazio temporale di un’ora una relazione esclusiva con un blocco di ghiaccio e la sua dissoluzione. 

Porosi ed esposti all’esterno, i due corpi fatti d’acqua si scoprono e reagiscono all’interazione dell’uno sull’altro, imprimendosi tracce sulle reciproche epidermidi e modificandosi a vicenda. Umano e non umano scoprono i propri limiti a contatto con l’atmosfera, facendo della vulnerabilità una pratica da assecondare con il movimento. La distruzione dell’uno lascia impronte di calore sulla pelle dell’altra, cicatrici temporanee di una dipendenza intra-specie. “Essere un essere vivente significa esistere in due corpi” scrive Daisy Hildyard nel libro da cui la Maciejewska trae titolo e ispirazione per questo lavoro in cui il processo coreografico è condensato in una partitura di azioni/reazioni all’immediatezza di quanto accade. Nonostante la performance fatichi a trovare una sua ferita da condividere, Leah Marojević è magnetica nella bellezza struggente del suo essere nel qui ed ora.

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Bless This Mess, di Katerina Andreou, foto Claudia Pajewski.

Bless This Mess

Dopo il potente Mourn Baby Mourn presentato al festival nel 2022, Katerina Andreou torna a Short Theatre con un lavoro di gruppo, il primo della coreografa nata ad Atene e residente in Francia, che ha la potenza brillante di un atto generativo e distruttivo. Bless This Mess è il momento di singolarità che precede la creazione, una nebulosa in ebollizione che plasma la materia incandescente tutta in divenire.

Gli ambienti sonori, composti dalla stessa Andreou, sono il brodo primordiale che informa la composizione coreografica, la vischiosità incontrollata in cui tutto ancora può essere e non è.

Il rumore costante diventa il territorio da cui partire. Sulla scena contrappuntata da pedane mobili e da microfoni ambientali calati dall’alto, Katerina Andreou, Lily Brieu Nguyen, Baptiste Cazaux e Mélissa Guex agiscono il rumore con il movimento, il respiro, il silenzio, sperimentando il camuffamento e la dispersione, la giocosità e il nonsense, per trovarsi poi, fianco a fianco, a infuriare sul tempo. 

L’intensità è il segnale che stabilisce la connessione, corpo e voce il megafono di un universo interiore che sintonizza il piacere dal caos. I volumi ipnotici scuotono la platea per elettrizzarla con i suoi beat mentre sul palco riscaldato da intermittenze di luce, i quattro straordinari performer, posseduti da un’urgenza che si relaziona con l’ascolto, infiammano l’aria con la saturazione della loro dance.

Bless This Mess emerge dal disordine e lo abbraccia, recuperando dalla tradizione punk la schiettezza di un gesto che è possibilità di ribaltamento. “Nel mio piccolo – scrive Katerina Andreou nella sezione CUT/ANALOGUE di Short Theatre – il punk diventa solo una strategia per tenere d’occhio le mie stesse trappole e allentare i limiti che mi impongo io stessa quando compongo a livello coreografico. O per auto-sabotare il mio stesso rigore, così da riuscire a cogliere momenti che penetrino fuori del mondo artificiale della scena”.

Nell’ultima foto, di Claudia Pajewski, un momento della presentazione del volume Inappropriabili. Relazioni, opere e lotte nelle arti performative in Italia (1959-1979) di Annalisa Sacchi (Marsilio Editori 2024). 

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