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La malattia della civiltà (2) / Guerre contro il futuro: Jung

29 Aprile 2022

“Egregio Collega, nonostante io sia un oppositore assoluto della guerra e a parole e per iscritto non faccia alcun mistero della mia opinione, tuttavia non sono nella condizione di sobbarcarmi un lavoro pratico di propaganda”. In questa lettera, indirizzata al Dott. Brupbacher e inviata da Zurigo il 30 settembre 1932, Carl G. Jung esprime il suo profondo rifiuto della violenza, ma insieme la sua collocazione personale di cittadino della “neutrale” Svizzera – è del 1928 il suo testo La “riga” svizzera nello “spettro” europeo. E dalla lettura di Ricordi sogni riflessioni di C.G. Jung (raccolti ed editi da Aniela Jaffé) emerge la quasi totale mancanza di quelle cesure e di quelle interruzioni dell’esistenza dovute alle due guerre che segnano invece molte delle biografie di protagonisti contemporanei allo psichiatra di Basilea. 

 

Nel 1917-1918 Jung è ufficiale medico a Chateau-d’Oex, in un campo di internamento inglese, ma qualche anno prima la guerra gli era apparsa in sogno. Nell’ottobre del 1913, mentre sta andando in treno a Sciaffusa, ha la visione dell’Europa devastata da una spaventosa inondazione. Il mese successivo, durante lo stesso tragitto, la visione riappare (cfr. l’introduzione di Sonu Shamdasani a Il libro rosso). Altri incubi lo perseguitano, ovunque morte, cadaveri, sangue e devastazioni. Dopo la rottura con Freud e la separazione da Sabina Spielrein, Jung è in un momento di grande difficoltà, inizialmente attribuisce queste immagini oniriche ai suoi tormenti interiori, teme quasi di impazzire. E inizia proprio da uno di questi sogni un processo di autoanalisi con la composizione di quel diario che diventerà poi Il libro rosso. Anche a partire da questa esperienza Jung trova i nessi tra la dimensione individuale e quella collettiva nell’interiorizzazione del conflitto con il negativo: il rapporto di ciascuno con la propria ombra che può interrompere “la ricerca del capro espiatorio che possa farsi carico dei nostri peccati” (cfr. L’ombra, la guerra, il capro espiatorio in Romano Màdera, Carl Gustav Jung. L’opera al rosso).

 

 

 

La sua riflessione sulla guerra, presente in molte lettere e in molte interviste, è poco interessata alla dimensione storica, per Jung ciò che muove le energie fisiche e psichiche dell’individuo sono le immagini archetipiche dell’inconscio collettivo. Sono “influenze mitologiche antichissime” quelle che danno origine ai sogni, e anche i popoli e le nazioni possiedono, come gli individui, un carattere psichico peculiare formato dai loro miti e archetipi. 

 

In Psicologia e problemi nazionali (1936) Jung parla dell’Europa tra le due guerre, dichiarando subito il suo disagio: “Quali che possano essere stati i motivi psicologici all’origine della guerra mondiale, essi vanno al di là della mia competenza psicologica”. A lui interessano “i sintomi più vistosi”, comparsi in particolare in paesi quali la Germania e l’Italia, la Russia e l’Austria. Premesso che solo la psicologia del singolo può essere oggetto di uno studio empirico, per Jung la psicologia delle masse risulta sempre “inferiore” a quella dell’individuo, che non osa compiere da solo ciò che invece agisce quando si trova in branco. 

 

Le pagine di Jung, come accade a volte quando la psicoanalisi incontra la guerra, contengono spunti fulminanti e analisi anticipatrici, ma anche osservazioni contraddittorie e poco convincenti. L’idea dell’esistenza di psicologie nazionali non è stata più ripresa, forse per il timore di possibili strumentalizzazioni in senso nazionalistico. Il riattivarsi di contenuti remoti, appartenenti alla storia e alla memoria della propria nazione da rifondare/ difendere in una situazione di crisi, si configura però come un elemento sorprendentemente comune alle “nuove guerre”. Che, mosse da idealità “locali” e “particolaristiche”, inseguono le battaglie e gli eroi, i santi e i costumi tradizionali (cfr. Georges Dumézil, Ventura e sventura del guerriero), alle quali la comunità internazionale contrappone astratti ideali dell’umanità. Come accade spesso al Tribunale penale internazionale dell’Aia, teatro dello scontro tra diritto universale e ragione particolare.    

 

L’11 maggio 1945, quattro giorni dopo la resa dell’esercito tedesco, in I problemi psichici dei tedeschi dopo la guerra (contenuta in Jung parla.  Interviste e incontri), Jung afferma: “No, i demoni non saranno affatto banditi, quello è il compito difficilissimo che rimane ancora da svolgere. Ora che l’angelo della storia ha abbandonato la Germania, i demoni cercheranno una nuova vittima. E non gli sarà difficile trovarla. Ogni uomo che smarrisce la sua ombra, ogni nazione che si sente moralmente superiore, è la loro preda”. 

 

E nell’intervista del 1959 con John Freeman nel programma televisivo della BBC, Face to face, che farà conoscere Jung al grande pubblico, a una domanda sul valore prognostico dei sogni Jung risponde: “Nei sogni della gente si nota, sì, un’inquietudine, ma è molto difficile dire se davvero alludano a una guerra, perché l’idea della guerra è in cima ai pensieri di tutti. […] Siamo così pieni di apprensioni, di paure, che non si sa esattamente a che cosa si riferiscano i sogni”.

 

 

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Al pastore Hans Wegmann

Zurigo

                                                                     12.XII.1945

 

Caro Pastore,

la sua cortese lettera dell’8.XII era proprio ciò che volevo sentire da lei, vale a dire una chiara e inequivocabile presa di posizione sulla questione delle Chiese. In effetti non sapevo che su questo argomento lei la pensasse in modo così critico. Devo però riconoscere l’esattezza dei suoi argomenti, perché dal punto di vista religioso la penso in maniera altrettanto, se non più, radicale. La sua lettera (quella precedente) non mi ha assolutamente annoiato; temo piuttosto di risultarle importuno con le mie preoccupazioni e desidero perciò chiederle scusa se le scrivo ancora così presto. Devo però superare le mie esitazioni perché il problema della “religione” – a prescindere dalla sua importanza soggettiva – acquista a poco a poco, parallelamente agli eventi contemporanei, dimensioni cosmiche. Non credo, cioè, che la ratio possa essere la suprema lex dell’agire umano; in primo luogo perché, in base all’esperienza, nei momenti decisivi esso non è affatto guidato dalla ragione, ma piuttosto da impulsi inconsci ultrapotenti. Nulla può esser pari a questi ultimi, se non il loro equivalente, cioè qualcosa che esprima adeguatamente la loro natura, dia loro un nome e una forma.

 

Poi si crea in questo modo un ricettacolo, per così dire, in cui l’“impeto” inconscio può riversarsi e dove può assumere una forma culturale. Se infatti questo non accade, esiste senza dubbio il pericolo che esso si esprima in modo cataclismico, come una valanga. Questa forma l’ha sempre data la religione, mai la ragione. Oggigiorno questo problema si è fatto impellente perché l’umanità civilizzata giungerà presto al bivio in cui potrà utilizzare la bomba atomica. Quanto a efficacia, la bomba all’uranio ha deluso. Le nuove bombe al plutonio, che vengono prodotte alla catena di montaggio, pare svilupperebbero un effetto centocinquanta volte maggiore! Il suicidio della civiltà umana si è quindi spinto per lo meno nelle immediate vicinanze, e in futuro potranno essere scoperte altre reazioni a catena che minacceranno il pianeta. Circa duemila anni fa il mondo è entrato nell’ultimo mese dell’anno platonico, l’eone dei pisces, e ha prodotto delle aspettative millenaristiche.

 

Mille anni fa la cosa si è fatta ancor più chiara e ora, verso l’anno 2000 d. C., l’umanità ha veramente in mano lo strumento con il quale può preparare la propria fine, e lo farà ancor più certamente se non viene presto una terza guerra mondiale in cui i popoli che potrebbero anch’essi utilizzare la bomba atomica vengano completamente distrutti, a meno che – e questa è l’unica chance – avvenga il grande rovesciamento, un’universale ritirata di Marignano, che non riesco a immaginare altrimenti se non come un movimento universale, per l’appunto religioso, che solo può neutralizzare il diabolico impulso di distruzione. Questo è il motivo per cui la questione delle Chiese mi turba, perché la Chiesa è l’ultima autorità mondana in cui lo spirito, in senso religioso, smuove le masse animalesche. La Chiesa avrebbe la sua raison d’être se fosse in grado di salvare la vita dell’umanità o per lo meno la civiltà. So bene che non serve a niente che un singolo ci si rompa la testa. Nonostante ciò bisogna parlarne. Perciò torno a infastidirla con una lunga lettera, del che vorrà perdonarmi. So che è infantile o superstizioso, ma mi sento un po’ confortato dal sapere che l’ho detto.

Ovviamente non mi aspetto una risposta, a meno che la sua penna non si metta in moto da sola.

Con i migliori saluti,

                                                      Suo devoto [C.G. Jung]

 

 

***

 

[Titolo originale: Psychology and National Problems. Conferenza tenuta, in lingua inglese, all’Istituto di Psicologia medica (Tavistock Clinic) di Londra il 14 ottobre 1936, al ritorno da un viaggio negli Stati Uniti. Stando alla testimonianza della figlia Marianne Niehus, Jung scrisse la conferenza durante la traversata. Il presente testo, che si basa sul manoscritto olografo, non era mai stato pubblicato, sebbene idee abbastanza simili si trovino espresse in un’intervista da Jung rilasciata all’“Observer” (Londra, in data imprecisata) e ripubblicata poi su “Time” del 9 novembre 1936, e su “The Living Age” (New York, dicembre 1936). Traduzione di Maria Anna Massimello.]

 

La questione del rapporto tra psicologia e problemi nazionali, che sono stato invitato a trattare, presenta senza dubbio una sua attualità e comunque non sarebbe stata posta prima della guerra. In genere la gente non notava allora fattori di disturbo nel clima spirituale o psichico dell’Europa, anche se uno psicologo critico o un filosofo di vecchio stampo avrebbero trovato sufficienti temi di discussione. Era quello un mondo di prosperità, un mondo che credeva in ciò che si poteva vedere con i propri occhi e sentire con le proprie orecchie, e che aveva fede nelle asserzioni del razionalismo e del positivismo filosofico. Perfino la possibilità razionale di una grande guerra appariva, nonostante le testimonianze offerte dalla storia, come un incubo venuto di lontano e prodotto artificialmente, non più di uno spauracchio teorico che di tanto in tanto veniva agitato dai politici e dai giornali, quando non avevano nient’altro di meglio da dire. Si era pienamente convinti che le relazioni internazionali, finanziarie, commerciali e industriali fossero così strettamente intrecciate che anche la semplice eventualità di una guerra fosse da escludersi.

 

L’incidente di Agadir [L’approdo di una nave da guerra tedesca nel porto di Agadir in Marocco, che provocò una crisi mondiale nel 1911.] e altre imprese del genere apparivano semplici buffonate di un monarca psicopatico, che per il resto era abbastanza ben invischiato in una rete internazionale di impegni finanziari, le cui gigantesche proporzioni non potevano che rendere impossibile qualunque seria impresa militare. Inoltre il favoloso sviluppo delle scienze naturali, l’alto livello dell’istruzione pubblica raggiunto nelle maggior parte dei paesi europei e un’opinione pubblica che non era mai stata, nel corso della storia, così ben organizzata, autorizzavano gli europei a credere nelle capacità coscienti dell’uomo, nella sua razionalità, intelligenza e forza di volontà. 

 

Simili domande, del resto, mi sono state rivolte con una certa frequenza e io devo confessare che non solo ho avvertito una netta sensazione di disagio, ma mi sono sentito anche estremamente incompetente a dare una risposta soddisfacente. Il tema è realmente troppo complesso. Le ragioni preponderanti e immediate della crisi sono date da fattori di natura economica e politica. È pur vero che in questi ultimi, in quanto attività dello spirito umano, devono sottostare a determinate leggi psicologiche, ma i fattori economici, in particolare, non hanno carattere pienamente psicologico; dipendono invece ampiamente da condizioni che con la psicologia non hanno – si può dire – nulla a che fare.

 

Quest’ultima sembra invece essere determinante nella politica, ma esiste un fattore ultimo numerico di pura forza e di autentica violenza, che corrisponde piuttosto alla psicologia di un abitante delle caverne o di un animale, che non a quella di un essere umano. Finora non è stata elaborata ancora alcuna psicologia su materie così infinitamente complesse, come l’economia e la politica, e continua a restare estremamente problematico dire se sussiste una qualche speranza che la psicologia si possa applicare a fenomeni determinati da fattori non psicologici. Non mi ritengo competente a trattare il significato ultimo della nostra crisi mondiale. Alcuni suoi lati, tuttavia, mostrano un aspetto squisitamente psicologico e offrono perciò l’opportunità per un commento. Una delle possibilità della psicologia contemporanea pare essere quella di offrire perlomeno un punto di vista specifico sulla realtà.

Prima di addentrarmi nel tema della conferenza, vorrei compiere qualche considerazione sulla psicologia in generale.

 

Vediamo ora quali potrebbero essere le reazioni di un’intera nazione che si trovi in uno stato di disagio psicologico. Dato che una moltitudine di persone o una nazione non sono null’altro che un raggruppamento di individui, anche la psicologia ad essa relativa è data dal raggruppamento di tante psicologie individuali. La psiche individuale è però caratterizzata da differenze individuali, in parte congenite e in parte acquisite. Quasi ogni individuo può, da un lato, fornire certe prestazioni specifiche che contribuiscono a determinarne l’unicità e d’altro canto, presenta parziali somiglianze con qualunque altro individuo, fatto questo che determina l’uguaglianza umana. Gli individui sono dunque uguali tra loro, in quanto possiedono qualità che non sono in alcun modo differenti da quelle degli altri, ma sono anche diversi, nella misura in cui sviluppano qualità ed effettuano prestazioni che non possono essere paragonate a quelle di altri individui.

 

Gli elementi che sono comuni a tutti gli uomini possono sommarsi nel formarsi del gruppo, mentre le prestazioni individuali non si sommano mai, piuttosto si elidono a vicenda. Perciò un gruppo di grosse dimensioni, se lo si considera come un essere autonomo, mostra esclusivamente tratti che sono comuni a tutti gli uomini, ma non lascia emergere neppure una delle loro prestazioni individuali. I tratti comuni a tutti gli uomini consistono principalmente in qualità istintuali, che hanno un carattere relativamente primitivo e indubbiamente inferiore rispetto al livello mentale della maggior parte dei membri del gruppo. Cento teste intelligenti messe insieme danno per risultato un idrocefalo.

La psicologia delle masse è sempre inferiore a quella dell’individuo, perfino quando si affrontino le imprese più idealistiche. La totalità di una nazione non reagisce mai come un normale individuo moderno, ma sempre come un gruppo primitivo. Perciò le masse non presentano mai un buon adattamento, tranne che a livelli estremamente primitivi. Le loro reazioni rientrano nella nostra seconda categoria, ossia sono di tipo negativo. In seno al gruppo, l’individuo è sempre irragionevole, non dimostra senso di responsabilità, è emotivo, imprevedibile e inattendibile. Crimini, che l’individuo da solo non potrebbe mai avere la forza di reggere, vengono perpetrati senza alcun ritegno dal gruppo.

 

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