Speciale

A Gianni Celati e ai suoi ottant'anni / Io avevo la sensazione che noi avessimo ancora quell’età

26 Marzo 2017

Ci sono tre ricordi che spesso mi tornano alla mente. Il primo ha a che fare col mio incontro con lui – con lui, non personalmente, ma attraverso il suo libro Le avventure di Guizzardi. L’ho già raccontato altre volte. Questo era un libro che io avevo letto al mio primo anno d’università, a Bologna. Cioè, lo avevo letto a pezzi e bocconi durante le soste che facevo alla libreria Feltrinelli sotto le due Torri, prima di tornare a casa dopo le lezioni. Un libro che mi aveva colpito sia per il modo in cui era scritto che per le stramberie raccontate dal protagonista narratore. La prima volta lo avevo preso in mano – e lo avevo preso in mano perché attirato dalla foto del comico Harry Langdon che appariva in copertina – avevo anche controllato le note biografiche, da cui risultava che l’autore – Gianni Celati – aveva trentasei anni. Io ne avevo venti, allora. E avevo fatto il calcolo della differenza che c’era fra me e lui – sedici anni. Questa era una cosa che facevo spesso: vedere a che età gli scrittori avevano pubblicato il loro primo libro, o a che età erano morti, se erano morti giovani voleva dire che erano stati dei bravi scrittori, come Rimbaud ecc. – ma il più delle volte questa attenzione all’età la facevo per sapere entro quanti anni avrei potuto scrivere un libro anch’io prima di essere considerato troppo vecchio.

 

Dico questo perché poi la cosa strana, col tempo, è stata un’altra. Che un po’ mi vergogno anche a rivelare. Ossia che poi, in seguito, dopo aver conosciuto Gianni, dopo essergli diventato amico e averlo frequentato per quelli che sono ormai più di trent’anni, molto spesso, in tutto questo tempo, stando con lui e parlandoci insieme come facevamo tante volte anche fino a tarda notte, molto spesso io avevo la sensazione che noi avessimo ancora quell’età, io vent’anni e lui trentasei, anche quando di anni magari ne avevamo lui il doppio e io il triplo. Non so perché. Ma è la sensazione che avevo. 

 

Gianni Celati e Daniele Benati a Carpi.

 

Un’altra volta eravamo insieme al mare, al Conero, e volevamo andare a visitare la casa di Leopardi a Recanati. Gianni voleva andare a controllare se nella biblioteca di Leopardi c’era un’edizione dei Viaggi di Gulliver. E stranamente non riuscivamo a trovare la casa di Leopardi, anche se, trattandosi di un palazzo nobiliare, doveva trovarsi in centro. Noi camminavamo per il centro e non la trovavamo. E non vedevamo neanche delle indicazioni. Così avevamo chiesto a un signore che avevamo incrociato per strada. Un signore che teneva un fagotto in una mano, e nell’altra un rosario. Lui è rimasto quasi sbalordito, a sentire il nome di Leopardi, come se non l’avesse mai sentito nominare. Ma ci ha pensato un po’ su, prima di dirci che non sapeva dov’era la sua casa. E non è che ci abbia detto semplicemente che non lo sapeva, no, no, ha cominciato a imprecare e a smadonnare, che tirava delle madonne che fumavano, nonostante avesse un rosario in mano. E poi era andato via, tutto incazzato. E noi poi avevamo scoperto che alla casa di Leopardi era già un quarto d’ora che ci giravamo davanti.

 

Poi. Gianni, come tutti sanno, è sempre stato un grande camminatore (e lo è ancora), a differenza di me, che sono sempre stato un guidatore di macchine, soprattutto in autostrada. Vent’anni fa, quando ero a insegnare in America, a Boston, Gianni è venuto parecchie volte a trovarmi, a volte anche per dei periodi lunghi. Anche un anno in cui lui era stato invitato ad insegnare alla Brown University di Providence (una città che dista da Boston tre quarti d’ora di treno), lui stava comunque a casa mia, in un periodo in cui io avevo un appartamento da cui si godeva la più bella vista di Boston, sul fiume Charles che in quel punto diventa un bacino ed è per questo molto largo. Il motivo per cui Gianni stava a casa mia, oltre alla possibilità che così avevamo di fare tante belle chiacchiere, era dovuto anche al fatto che in effetti a Providence, pur essendo una bella città, c’è sempre un’ora, verso le sei di sera, quando i negozi chiudono, e magari c’è ancora il sole, che uno di colpo sente di essere schiacciato da un’angoscia terrificante e comincia a pensare se andare a casa a spararsi oppure a impiccarsi. E così Gianni era venuto a stare da me.

 

E lì ogni tanto vedevo che lui cominciava a sentire una smania addosso – era perché aveva bisogno di andare a fare una camminata. E una volta ha voluto che ci andassi anch’io con lui. Erano le otto di una bella mattina di domenica di febbraio – una bella mattina grigia buia plumbea e livida, come non poteva essere altrimenti dato che eravamo ai primi di febbraio, quando a Boston tirano delle folate di vento che staccano la testa e la temperatura può andare anche a venti sotto zero: cosa che io gli avevo fatto notare, ma lui era voluto partire lo stesso. E per strada costeggiavamo il fiume – il fiume Charles, tutto ghiacciato, con la neve farinosa sul ghiaccio che veniva alzata su a mulinelli e dispersa dal vento, e si faceva fatica a respirare, sia per il vento che per la sciarpa avvolta stretta intorno alla faccia. E lui, Gianni, invece, era là che andava avanti camminando a testa alta, come sempre fa, come se niente fosse – non era neanche tanto vestito. Non c’era quasi nessuno in giro. Solo noi lungo il fiume. Di solito c’erano molte persone di svariate età, ma soprattutto giovani, e soprattutto ragazze, e soprattutto belle ragazze, che correvano lungo il fiume. Ma quel mattino, niente: nessuno. Non c’era anima viva. Solo noi due. Neanche delle macchine lungo la strada – che si chiama Memorial Drive (dalla parte di Cambridge). E c’era un freddo, un freddo, un freddo. E a un certo punto lui ha avuto la bella idea di passare dall’altra parte del fiume, ma proprio lì dove il bacino del fiume è più largo, e dunque il ponte più lungo, e dunque dove il vento tirava più forte. Cosicché quando siamo arrivati dall’altra parte eravamo un po’ provati, un po’ malmessi sia come umore che come tenuta fisica. 

 

Quello è un punto di Boston in cui la strada fa uno slargo che si chiama Kenmore, dove c’è anche una fermata della linea verde della metropolitana. E proprio lì abbiamo visto un folto gruppo di barboni che batteva i piedi per terra e si sfregava le mani davanti a un McDonald’s che stava per aprire. E abbiamo pensato che forse era il caso che anche noi ci fermassimo lì ad aspettare di entrare con loro per prendere qualcosa di caldo. E così, di lì a poco, quando il locale è stato aperto, siamo entrati tutti insieme – noi e i barboni. E ci siamo seduti ai tavoli dopo aver preso delle belle tazze di caffè bollente. E siamo rimasti lì un bel po’, io e Gianni, a osservare i barboni che si erano disposti intorno a due o tre tavoli, e parlottavano fra loro o si alzavano a turno per andare in bagno, passando quindi accanto a noi che eravamo seduti lungo la corsia che portava ai servizi. Sembrava ci fosse una gerarchia fra loro, e c’era anche una donna, che era la più ascoltata. Gianni era molto incuriosito di quello che potevano starsi dicendo e un po’ origliavamo, un po’ cercavamo di immaginare l’argomento dei loro discorsi. Fino a che a un certo punto Gianni mi fa: Ma perché non scrivi un racconto con dei barboni dentro a un McDonald’s? e poi siamo rimasti lì ancora un po’ a cercare di indovinare il tipo di rapporto che esisteva fra di loro.

 

Tempo dopo, seguendo il consiglio di Gianni, avevo poi fatto quel racconto. Anzi avevo ampliato lo spunto che lui mi aveva dato fino a farlo diventare un libro. Che poi ho pubblicato. E che poi è andato come è andato. Ma, indipendentemente da come è andato, quello è il libro a cui io sono legato di più, proprio perché è venuto fuori da quella camminata che avevo fatto con Gianni quel mattino. Il libro tra l’altro ha una sua nota in quarta di copertina, e questa per me è la cosa più importante. Perché il giudizio di Gianni è un giudizio che conta, ha un valore, è un giudizio che pesa. È vero per me, come lo è per tanti altri, a quanto ho potuto constatare in tutti questi anni. E spesso ho pensato al perché sia così, ed è stato proprio osservando Gianni da vicino, cioè guardandolo lavorare – non importa se a un racconto, a una traduzione, a una conferenza o a una lezione – che ho capito che la capacità critica in una disciplina non è un dono che qualcuno si ritrova a ricevere per puro caso e nemmeno qualcosa che dipende da un gusto personale, ma è il prodotto del pensiero creativo che si è investito in quella disciplina. E di pensiero creativo Gianni ne ha elaborato parecchio nei suoi libri di narrativa e in qualunque altra cosa abbia scritto; e in quanto all’investimento che ne ha fatto, be’ anche di quello ne ha fatto parecchio, non solo per sé ma anche per gli altri e spesso magari a fondo perduto, cioè senza ricavarci nulla o senza cercarci un tornaconto personale. Per questo sono in molti a dovergli qualcosa – e molti di loro magari non se ne sono mai nemmeno accorti. 

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