Speciale
Tempo inatteso / Quaderno blu notte
Il tempo scuro di quel che accade. Tempo inatteso, e impetuoso nella sua violenza. Che è quotidiana scansione del male: vite troncate nella solitudine, sofferenze che si allargano, un crescendo che rimbomba, e che nel numero sembra cancellare la possibilità della compassione per il singolo, e per i molti. Tempo che recide quell’altro tempo, recentissimo, nel quale la strada era di tutti, e nelle sale dei cinema o nei concerti sedevamo accanto a ignoti, e ci abbracciavamo negli incontri e negli addii, negli arrivi e nelle partenze. Una tenebra, intorno, che più dilaga più mostra impietosa la primavera che sta per scoppiare senza la nostra prossimità, seguendo, com’è naturale, il suo ritmo, il suo tempo. Che non è questo nostro tempo scuro, ormai in scarto amaro nei confronti della stagione, estraneo al fiorire.
Sta con noi, questo nuovo scuro tempo, sta dentro di noi. Il tragico non permette distrazioni, o fughe.
Leggere questo tempo vuol dire raccogliere antichi richiami. Quello, per esempio, che invitava a stare al mondo considerando l’orizzonte della finitudine: il limite come ritmo del vivere, e dell’agire proprio e comune. O che considerava la natura nelle sue leggi, nella sua necessità, di cui l’uomo non è che un momento, una forma di vita che le appartiene. Leggere questo tempo vuol dire riprendere interrogazioni che per tutta la nostra epoca hanno attraversato il sapere, e le coscienze, senza diventare grande scelta politica, e neppure costume. Si possono compendiare, queste domande, in una sola: come abitare in sapienza e armonia la terra, accordando il respiro della nostra specie con il suo respiro? Formulazione astratta, certo, ma questa domanda ha la sua ragione in una lunga storia di dominio: l’asservimento dell’ordine naturale, del bios, alle leggi, e alle logiche, della produzione. Alla voluttà del consumo.
E tuttavia, accanto al tempo tragico di quel che accade c’è un altro tempo, il tempo interiore in cui ciascuno custodisce immagini dei propri legami, ora che è necessario starsene in disparte. In questa custodia c’è quel che uno ha vissuto, e c’è anche quello che uno non ha vissuto, ma che gli appartiene perché ha alimentato i suoi sogni, le sue attese. In questa custodia forte è l’attivazione dei sensi interiori attraverso l’immaginazione, attraverso la memoria immaginativa: “quiescente lingua ac silente gutture canto quantum volo”, scriveva Agostino, posso cantare senza la voce e nel silenzio, posso distinguere il profumo del giglio da quello della violetta, in assenza del giglio e della violetta. La memoria immaginativa è soprattutto visiva.
Mentre scrivo, di là dalla finestra, c’è un cielo bellissimo. Non posso scendere per le strade, osservare la luce che taglia l’ombra nei vicoli, che abbaglia le bifore sulle facciate di antichi palazzi. Posso però seguire, in quel cielo, il volo degli uccelli, il variare lieve del colore che si vela di una nuova trasparenza, un poco più opaca, una specie di pulviscolo blu che intela lo splendore. Avevo scritto, alcuni anni fa, qualcosa su una nuvola che osservavo da uno stretto spiraglio. Ritrovo la pagina in un vecchio quaderno.
[spazio]
Un piccolo vetro-finestra dinanzi agli occhi, nella parte alta della parete, un riquadro forse trenta per trenta, che incornicia il cielo. Devo starmene immobile per mezz’ora, una gamba infilata nella scura macchina che sta eseguendo una risonanza magnetica al ginocchio, in seguito a una caduta estiva. Non ho altro che quel fazzoletto di cielo da contemplare, e presto mi sembra moltissimo: infatti la nuvola muta colore e intensità, passando dal bianco panna al beige e virando subito verso un bianco lattiginoso, poi si dispiega in neve e ricade in un grigio chiarissimo, luminoso, per tornare a vestirsi ancora di un bianco leggero, festoso, prossimo al platino. La forma della nuvola segue un movimento di rapide modificazioni, si addensa come una duna chiara lasciando al margine destro una riva più tenue che lambisce una striscia di mare azzurro, poi si spinge fino a coprire quell’azzurro marino mostrando qua e là pozze d’acqua celeste, che presto copre con la sua bambagia, poi si sfrangia fino a dissiparsi in un velo disteso sopra un lago, per raccogliersi subito in un biancore intenso, spesso, confinante nell’altro lato, questa volta, con un mare nel quale si può vedere persino il frammento bianco di una vela, ma solo per un istante, perché velocissima è la metamorfosi del frammento-vela in una figura informe riassorbita rapidamente dal corpo centrale della nuvola.
Che a questo punto non è più quella della prima osservazione ma un’altra o forse un’altra ancora, e appare più leggera, anche più fuggitiva. Quest’ultima è ora una roccia innevata che si leva sopra un torrente dalle acque cristalline, qua e là frante da grigi pietroni ben levigati, un torrente che improvvisamente s’allarga in un lago blu, e anche la roccia nevosa è scomparsa, perché un lenzuolo color sabbia ha coperto l’intera scena per cominciare anch’esso a sfrangiarsi, a consumarsi in opachi sfilacciamenti. Nessuna ripetizione in quel che accade in quel quadrato di cielo nell’arco di mezz’ora, ma una incessante variazione di figure, impalpabili, lontanissime, che smentiscono l’immagine stessa cui alludono con un’altra immagine presto resa improbabile, sicché un cavallo si scioglie in una palma, una frotta di ragazzi in corsa lungo una riva si trasforma in una carovana di dromedari, una superficie lunare si sbriciola in cento acquitrini, un mantello di schiuma ricopre un pavimento di mattonelle cilestrine.
M’accorgo che tutte le forme si acquietano in una immagine che sembra tornare con una certa frequenza: la nuvola che lambisce e corteggia un tratto di mare. Forse perché il mare è specchio del cielo e la nuvola vede dalla sua altezza quel mare che non posso vedere io da questa stanzetta e neppure dalle strade che circondano questo edificio. La nuvola e il mare, che cosa passa nella loro distanza, nel loro specchiarsi? L’una sempre in fuga e dissipatrice di sé, l’altro inquieto nell’apparente stare, l’una figura della metamorfosi, l’altro dell’immensità, ambedue in dialogo con la lontananza, anzi rappresentazione stessa della lontananza […].