Matteo Borri. Storia della malattia di Alzheimer

12 Settembre 2012

Nel 1906 Aloysius Alzheimer descrive il processo di decadimento mentale di un paziente, così speciale da richiedere uno studio approfondito: Auguste D. è il primo caso di quella che il manuale di psichiatria di Kraepelin (1910) avrebbe chiamato Alzheimerische Krankheit.

 

Storia della malattia di Alzheimer (Il Mulino, Bologna, 2012, pp. 184, € 16) di Matteo Borri, ricercatore di storia della scienza, ricostruisce con perizia un momento di sviluppo delle scienze biologiche, psichiatriche e mediche e chiarisce i processi di definizione di una malattia di pressante attualità e interesse, sesta causa di morte nel mondo, con costi sociali ed estremo disagio per i familiari. Una malattia non è solo un’etiologia o una serie di sintomi ma diventa nella rappresentazione sociale una misteriosa entità intorno alla quale si coagulano immaginario, sentimenti, angosce; la medicina contribuisce a questa costruzione nel definire la nosografia, delineare le procedure di cura, comunicare a specialisti e non le scoperte. Se ogni momento storico ha un morbo dai tratti specifici (come è stato per la peste, la tisi, il cancro), la sindrome di Alzheimer è quello dell’estrema contemporaneità: “l’Alzheimer” è una malattia della memoria, del linguaggio, del comportamento, in altri termini dell’identità, in cui la coscienza si fa intermittente e la complessità dell’agire umano implode su se stessa trasformando gli individui in fantasmi del sé precedente e mostrando automatismi inceppati, ripetizioni aberranti e mancanze continue. È una malattia che si caratterizza per un danno cerebrale a cui corrispondeun’alterazione della personalità; in essa si rispecchia la contemporanea sensibilità materialista che interpreta sempre più i fenomeni alla luce degli aspetti biochimici, dei tratti genetici, delle vicende adattative dell’evoluzione dell’umano.

 

Essa – non se ne abbia chi come me ha a che fare con la malattia vera – sembra anche rappresentare a livello metaforico la crisi dei paradigmi orientativi, la crisi della memoria collettiva e del linguaggio comune che impedisce di distinguere realtà e finzione. C’è qualcosa di contemporaneo nell’idiotismo, nel narcisismo, nella paranoia, nell’afasia e nell’irascibilità alternate, nell’incapacità di reggere le frustrazione, nella difficoltà di comprendere, comunicare ed empatizzare, nella variabilità degli umori e nell’incostanza. Non a caso ne Le correzioni, uno dei più importanti romanzi contemporanei, la malattia è il filo che lega insieme una famiglia: Jonathan Franzen, dopo aver creato uno straordinaria figura paterna, ha poi raccontato la sua vicenda reale di figlio in Come stare soli (2003).

 

Fin dall’inizio la malattia di Alzheimer è di particolare interesse per i dubbi che suscita. Da Monaco, dove lavorava Alzheimer, una serie di ricercatori italiani hanno avuto un ruolo chiave nella determinazione della malattia: in Italia la coeva riforma dei manicomi coinvolgeva le cliniche universitarie e determinava nelle facoltà di medicina e negli ospedali l’istituzionalizzazione della neuropsichiatria. Parlare di una specifica demenza e trasformarla in una “entità clinica” significava  sancire da un lato la sovrapposizione di mente e cervello e dall’altro individuare in essa il fulcro dell’identità personale: tutti gli studi coevi di biologi, psichiatri e neurologi convergevano nel far coincidere “la patologia mentale” con “la perdita dell’unità dinamica della personalità”. Nella storia delle idee, in un momento in cui la scienza positivista aveva messo in crisi la nozione di ‘anima’, la ‘coscienza’, ‘psiche’ e ‘mente’ dei filosofi si intersecavano con il ‘cervello’ dei medici.

 

Il peculiare gesto di Alzheimer consiste nelcorrelare comportamenti patologici a lesioni cerebrali: nell’autopsia di Auguste D. lo psichiatra aveva constatato la degenerazione di particolari tessuti (le neurofibrille), un fatto anomalo da cui aveva inferito l’insieme della malattia. Da allora la descrizione della malattia seguirà la messa in relazione delle “osservazioni intra vitam” con “i dati anatomici post mortem”. Cosa è dunque la malattia di Alzheimer? Nei diversi momenti del dibattito, oggi ancora aperto, si confrontano due posizioni: da un lato quella “classica” per cui la patologia è pensata “come una forma morbosa ben definita sia sul piano clinico sia su quello anatomico”; dall’altro l’idea che non si tratti di una malattia specifica ma di una patologia “da involuzione” con caratteristiche generiche. Da tale storia della psichiatria emergono richiami alla cautela nell’ipostatizzazione della malattia che ogni nosografia e ogni protocollo terapeutico portano con sé. In determinate circostanze storiche uno schema diagnostico si cristallizza: la psichiatria di Kraepelin, che ha fortemente influenzato la medicina europea e nordamericana, si è incentrata con un processo di “astrazione” sulla “malattia” trascurando gli “aspetti dinamici dell’individuo malato”. Dagli Stati Uniti negli anni settanta-ottanta, dove con l’allungamento della vita e la neutralizzazione di altre cause di morte si è conosciuto il problema su larga scala, esplode l’attenzione verso lo status sociale e medico della malattia. Il momento culminante è la stilizzazione manualistica della malattia attraverso la sua definizione secondo il DSM:

 

 

“Sviluppo di deficit cognitivi multipli, manifestati da entrambe le condizioni seguenti: 1) deficit della memoria [...] 2) una (o più) delle seguenti alterazioni cognitive: a) afasia (alterazione del linguaggio); b) aprassia (compromissione della capacità di eseguire attività motorie nonostante l’integrità della funzione motoria); c) agnosia (incapacità di riconoscere o di identificare oggetti nonostante l’integrità della funzione sensoriale [...]; d) disturbo delle funzioni esecutive [...]. Ciascuno dei deficit cognitivi dei Criteri A1 e A2 causa una compromissione significativa del funzionamento sociale o lavorativo, e rappresenta un significativo declino rispetto ad un precedente livello di funzionamento. Il decorso è caratterizzato da insorgenza graduale e declino continuo delle facoltà cognitive”. 

 

Borri mostra come tra il 1910 e il 1974 la comunicazione intrascientifica abbia integrato l’analisi dei casi clinici e il “trasporto” dei dati sperimentali “nelle strutture concettuali tipiche del manuale”. Il percorso si inverte dal 1980, quando dopo la canonizzazione della malattia “l’istanza conoscitiva si incentra sulla “costruzione” della patologia”: “i vari casi clinici […] si caratterizzano sia come documentazione della singolarità dei pazienti sia come momento conoscitivo che deve essere messo in rapporto con i dati acquisiti e condivisi espressi nel Manuale”. Si sono inoltre aperte prospettive di studio a livello molecolare, neurochimico e genetico con la possibilità di svolgere indagini del funzionamento del cervello con le tecniche di neuroimaging: un formidabile strumento euristico ma al tempo stesso un rischio di riduzionismo se una serie di luci che si colorano su uno schermo diventa l’epifania della malattia. In un dibattito molto ricco si assiste a una fase di continua revisione. Scrive P. J. Whitehouse (Il mito dell’Alzheimer , Milano, 2011):

 

“Tra gli scienziati autorevoli che conosco, pochi credono nel mito che l’Alzheimer sia una malattia, un processo o una condizione precisa, e molti credono, come lo credo io, che l’Alzheimer sia un’etichetta generica che comprende molti dei processi del normale invecchiamento cerebrale. L’invecchiamento cerebrale è causato dall’interazione di fattori genetici, ambientali e comportamentali. Quindi la traiettoria delle diverse persone lungo il continuum dell’invecchiamento cerebrale varia enormemente”.

 

Questa discussione clinica risulta capace di influenzare norme e pratiche. Come si è detto in questione nella malattia è l’identità dell’individuo – memoria, linguaggio, socialità – : è decisivo che sia emersa la tendenza olistica che considera “il cervello funzionante non come un insieme di zone separate ma in modo globale e integrato” contro l’originario “dogma localizzazionista” che pure continua a essere sviluppato. In nome di questa complessità la persona malata invoca attenzione e cura.

 

“Quando è diagnosticata una malattia mentale cronica come la malattia di Alzheimer le persone scompaiono dalla vita sociale. L’individuo e la sua storia attraverso l’etichetta della malattia, resa realtà ontologica con il nome della diagnosi, entrano in un mondo che non ne riconosce più l’individualità, riducendo il soggetto a un insieme di sintomi, di mancanze, di disgregazione. Nella malattia di Alzheimer scompaiono i neuroni e scompare anche l’individuo. La concezione organicista della malattia non è un’impostazione neutra che si limita a descrivere l’individuo: se la salute mentale è concepita come integrità neuronale, allora tutto ciò che mina questa integrità (placche senili, grovigli neurofibrillari, atrofia progressiva) riduce e infine cancella l’individuo” (Borri).

 

Si tratta di andare verso la scrittura scientifica di una nuova storia dell’invecchiamento cerebrale, dalla malattia verso l’individuo, una prospettiva fondamentale per medici, pazienti e per chi è coinvolto dalla malattia.

 

 

Una versione più lunga di questo articolo si può leggere nel blog Tracciatore di cerchi.

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