Medici e pazienti: perché proprio a me?
Sin dalle prime pagine di Decidere, morire, essere, nella medicina di oggi, di Giovanni Boniolo (Mimesis, 2023, p. 218) ci si rende subito conto di avere a che fare con una autorità nel campo della biomedicina, con una profonda esperienza internazionale sulla filosofia delle scienze della vita e le loro implicazioni etiche. Si tratta di un libro non facile difficile, una lettura certamente da consigliare agli addetti ai lavori, sempre che siano facilmente identificabili coloro che occupano stabilmente questa categoria, più che un'opera di divulgazione che può raggiungere quasi tutti i lettori curiosi, che dovrebbe forse essere più scorrevole. I temi trattati sono tanti e partono da una considerazione derivata dal racconto di tre storie che potremmo definire cliniche e che emblematicamente portano all'autore la responsabilità di risolvere quesiti riguardanti problemi esistenziali profondi e scelte decisionali che hanno a che fare con la vita stessa.
In questa prima parte prevalgono vicissitudini di tipo clinico che l'autore fa oggetto di considerazioni profonde di tipo medico ed esistenziale, da cui traspare un atteggiamento profondamente anti sistema e in particolare anti sistema-medici, inteso come sistema di controllo sulla salute e sul futuro dei teorici pazienti. Quando cerca di considerare le varie possibilità di risposta a problemi anche apparentemente pratici, il ruolo del medico è sempre quello che oscilla tra un paternalismo che lui ritiene non accettabile e quello che lui chiama il buon senso morale dei dilettanti.
Il grande tema è costituito dalle difficili scelte del paziente in tutte le fasi della vita, che comportano per essere bene intese una sistematicità della narrazione, anche se il libro ha quasi sempre le caratteristiche di un saggio, di un insieme di lezioni tenute insieme dalla sottile rete dell'attaccamento alla vita. La documentazione delle tesi sostenute, va rimarcato, è sempre ineccepibile, così come sembra di alto livello la ricerca bibliografica.
Il primo capitolo inizia con il caso di Carlo, a cui è stato diagnosticato un tumore, che si domanda “Perché proprio a me? Perché mi sono ammalato di cancro? Quali sono state le cause? I miei figli e le mie figlie lo erediteranno e si ammaleranno anche loro?” Le domande sono concrete e direi quasi quotidiane nel lavoro in clinica; si tratta di vedere se gli strumenti concettuali e metodologici elaborati nel dibattito sulla causalità si rivelano all'altezza del compito che si propongono, cioè di cogliere ciò che accade nella pratica clinica quando in gioco c'è la medicina di precisione. Dice l'autore “nel presentare due casi che sfidano le risorse mediche e filosofiche oggi disponibili per capire e identificare le cause del cancro metto in evidenza, da un lato, che vi sono ancora ulteriori temi che necessitano di indagine e che potrebbero beneficiare di serie riflessioni etiche ed esistenziali e, dall'altro, mostro quanto la medicina ponga sfide concettuali che dovrebbero essere affrontate con urgenza, al fine di aiutare i pazienti reali o potenziali.”
Il secondo caso, Maria, presenta una spiccata familiarità di malattia neoplastica con caratterizzazioni diverse e il quesito è se esiste la possibilità di identificare i geni che possono indirizzare una mutazione favorente lo sviluppo di un tumore; se sì, come vanno gestite le informazioni, per esempio, ai figli, che cosa si dovrebbe comunicare, che differenza può fare sottoporsi ad un test genetico oppure no. Tutti e due i casi hanno che a fare con le basi genetiche del cancro e con i dati epidemiologici, la casualità probabilistica e l'incidenza della patologia che riguarda individui, cioè la specificità dell’individuo e la domanda che nasce bottom-up e non semplicemente una enunciazione di criteri statistici. La competenza filosofica può in qualche modo aiutare Maria a decidere che cosa fare?
Boniolo sostiene che quando la medicina non riesce a ricostruire causalmente la storia naturale di una malattia e il paziente non è in grado di proteggere i suoi figli, allora, per risolvere le nostre scelte etiche ed esistenziali, dove non c'è una risposta, cioè ogni qualvolta la scienza manca di raggiungere la conoscenza, la filosofia potrebbe aiutare gli individui, magari, come lui suggerisce, attraverso una consulenza etica.
Tutto il secondo capitolo è indirizzato alla necessità di avere, in tutte le strutture più attrezzate, per esempio nella cura dei tumori, la figura del Consulente etico. Naturalmente non tutte le decisioni cliniche sollevano questioni etiche rilevanti, tuttavia la pratica clinica di routine è irta di situazioni difficili e spinose in cui ciò che dovrebbe essere fatto a livello clinico non è così semplice, per le questioni etiche ed esistenziali in gioco. Gli esseri umani, a volte, agiscono e scelgono in base a un insieme di principi morali apparentemente intuitivi (e quasi mai sufficientemente teorizzati) che di solito sono caratteristici del loro contesto socio culturale. Esiste quella che l'autore chiama una incrostazione valoriale che comincia a formarsi poco dopo la nascita e che l’autore definisce come una specie di filosofia personale. Il rischio per il clinico è quello di considerarsi in grado di affrontare situazioni eticamente problematiche solo sulla base della propria filosofia personale: il rischio è dunque quello di cadere in quello che lui chiama il paternalismo morale tipico della medicina di oggi. Il consulente etico sarebbe in grado di rivedere le incrostazioni filosofiche del paziente e di mediare con il paternalismo del clinico e si pone come una barriera contro il buon senso morale dei dilettanti; dice l'autore “le questioni morali non dovrebbero essere lasciate in carico ai dilettanti ma affrontate da professionisti”.
La tesi che sostiene è giusta e valida, anche se sembra piuttosto velleitaria, proposta oggi, in un sistema, quello della Sanità Pubblica, in profonda crisi economica ed identitaria. E quando Boniolo sostiene che il consulente etico è già presente in altri Paesi, come gli Stati Uniti, dimentica di ricordare che, per accedervi, è necessario superare il Test della Carta di Credito.
L'autore stesso tira in ballo la sanità pubblica laddove si chiede chi dovrebbe decidere in termini di prevenzione genetica, cioè se lasciarla alle istituzioni o se i cittadini (soprattutto i portatori sani di mutazioni genetiche) debbano avere un ruolo attivo.
Boniolo insiste con la tesi che i nostri cittadini non sono mai messi nelle condizioni di fare le scelte migliori per la propria salute; cita altri contesti medici che non rispettano regole e principi della democrazia, e cioè che le scelte dovrebbero essere l'esito di una decisione collettiva, come risultato di una discussione conforme agli standard della ragione pubblica tra cittadini liberi e uguali. Cita principi come la reciprocità, la trasparenza, e la responsabilità. Dice che l'istituzione potrebbe applicare un approccio paternalistico libertario (la sua definizione dello stato delle cose) alle strategie di salute pubblica solo dopo che queste sono state legittimate dei cittadini grazie a un processo deliberativo ben costruito, che comporta il fatto che i cittadini o un loro campione statistico, siano stati adeguatamente informati su ciò intorno a cui si deve deliberare. Cita cioè principi di una democrazia matura.
Come sempre sono molto ben documentati l'armamentario tecnico e le citazioni di esperienze fatte nel nostro paese, ma tentando di inserire il percorso suggerito nel contesto sanitario attuale, ci sembra estremamente difficile leggere una possibilità, da parte dell'autorità governativa, in termini di salute pubblica, di reperire i finanziamenti necessari. Il ruolo attivo dei cittadini nelle scelte di sanità pubblica non sembra essere nell’agenda della nostra compagine di governo.
D’altronde la filosofia è anche quella che ci permette di continuare a sognare in tempi difficili!
L'ultima parte del libro è dedicata al tema della morte e a tutte le questioni correlate alla morte biologica, alla morte clinica e alla loro distinzione, alle implicazioni mediche e legali che queste distinzioni comportano. Inizia citando La montagna incantata di Thomas Mann ed evidenzia il tema della riflessione e cioè che chi si interessa alla vita, si deve interessare anche alla morte.
In questo capitolo in particolare si vedono molto bene i frutti di una ricerca profonda condotta sulle distinzioni tra la morte biologica e la morte clinica, e cioè alla luce delle conoscenze scientifiche quand'è che si può dire che un essere vivente (in particolare un essere umano) nel suo insieme dovrebbe essere considerato biologicamente morto. La distinzione tra la morte clinica e la morte biologica apre un intero capitolo che riguarda i trapianti; il capitolo è molto ben disegnato, si addentra nella interazione tra scienza e società, dove risultati scientifici e le innovazioni tecnologiche mettono in crisi un sapere etico, filosofico, religioso e giuridico condiviso, cioè dove i ricercatori biomedici riescono a scombinare lo status quo delle conoscenze. Devo dire che questa parte del testo è molto interessante per chi si occupa di trapianti e per chi si pone dubbi sulla necessità di dichiararsi disponibile a un espianto di un proprio organo in caso di morte. L'autore si addentra in definizioni di criteri di morte clinica con dettagli ben circostanziati e sostenuti con solida bibliografia, ma anche con racconti di casistiche conclamate e di dominio pubblico.
La terza parte dello scritto si interroga sul tema dell'identità, dedicando un capitolo alla differenza tra identità personale e individuo in stato di demenza. Lo scritto sembra complesso per una ontologia scientificamente corretta e per un'etica adeguata e inizia da un articolo comparso molti anni fa su Science: il lavoro considera che la epigenetica permette di comprendere a livello molecolare come l'ambiente influenzi il genoma per produrre un determinato fenotipo e quindi, relativamente al chi si è, definisce un essere umano un essere vivente, in ogni istante della sua vita, come risultato di tutti i processi epigenetici che, nel corso del tempo, hanno modellato casualmente i suoi moduli fenotipici interconnessi.
Boniolo cerca di trattare in modo semplice un argomento molto complesso come quello della identità personale anche laddove si siano perse le funzioni mentali e se esista un livello di funzione mentale tale da considerare modificato il fenotipo stesso. Tutto questo comporta dilemmi etici che sembrano intrecciarsi su questioni ontologiche, sia rispetto all'identità che alle scelte legislative che sono state fatte. Identità e valori sono i due termini più considerati per definire un approccio al fenotipo completo. Ma, in caso di demenza, io sono lo stesso individuo? Dopo avere definito con grande precisione i numeri della demenza e la sua definizione, l’autore sostiene che la demenza non solo rappresenta una minaccia medica socio economica ed esistenziale, ma pone anche i dubbi sulla persistenza dell'identità dei pazienti dementi.
Le frasi come “non è più la persona che era” come se ci si trovasse davanti a un individuo diverso, pongono molti interrogativi. In realtà prima ci sarebbe un individuo sano con le sue scelte e decisioni, poi ci sarebbe un individuo diverso con nuove scelte e decisioni e queste ultime dovrebbero essere tenute in considerazione: da individuo sano a individuo demente non ci sarebbe continuità psicologica e questo dovrebbe essere rilevante anche per quanto riguarda quali decisioni e quali scelte dovrebbero essere accettate da parenti e da care givers.
Superare le difficoltà che riguardano i vari approcci al capitolo della identità è a volte molto complesso, ma ciò non implica che le persone che hanno disordini neuro degenerativi abbiano perso la loro identità fenotipica completa. Potrebbero avere perso alcune funzioni mentali superiori, a causa di alcuni danni cerebrali, ma ciò non pregiudica la loro identità nel tempo poiché questa è garantita dalla continuità del loro fenotipo completo. Dice l'autore “nessuno suppongo affermerebbe che non siamo lo stesso individuo se avessimo una grave malattia cardiaca, dunque non c'è bisogno di affermare che se un individuo ha perso la memoria di chi fosse allora non è più lo stesso: è lo stesso anche se non sa più chi sia”. “Abbiamo bisogno di una mente aperta per capire che il paziente demente di fronte a noi non è un individuo diverso da quello che era prima: sfortunatamente ha una terribile patologia e dobbiamo aiutarlo prendendocene cura, per quanto possiamo, finché possiamo”.
Una parte del libro è dedicata alle cure palliative; si focalizza sul morire, specie in situazioni ospedalizzate e sul come si possa ripensarlo in modo da renderlo meno traumatico per l'individuo e per i suoi cari, anche per ritornare a considerarlo come una ordinaria, seppur triste, fase della vita. “I nostri nonni ricordano che i loro cari quasi sempre morivano in casa, tra le mura che avevano abitato, vissuto, magari anche materialmente costruito. Era quasi impensabile lasciare che un proprio congiunto morisse in ospedale, in un letto anonimo prima occupato da uno sconosciuto e poi rioccupato da un nuovo sconosciuto. La morte era uno dei tanti eventi naturali della quotidianità: i bimbi nascevano in casa, i vecchi si spegnevano in casa, magari fra lenzuola odorose di lavanda essiccata durante l’estate, in un letto scaldato con le braci. Lo spegnersi di un parente era un evento doloroso ma normale. Giunti ad una certa età il logoramento fisiologico o le malattie ponevano fine al percorso”. ORA TUTTO VIENE DEMANDATO ALL’OSPEDALE, DOVE CI SONO GLI ESPERTI DELLA NASCITA, DELLA VITA E DELLA MORTE.
L’autore distingue tra “cure di supporto” e “cure palliative” e analizza il comportamento dei medici in queste fasi molto delicate. Sostiene l’importanza e la centralità della figura del medico come “amicus mortis”, laddove dovrebbe avere un campo d'azione ampio per far fronte ai bisogni palliativi, psico-sociali, etico ed esistenziali del paziente; non dovrebbe cioè solo essere concentrato sulla terapia ma sulla promozione della cura e sulla riduzione della sofferenza secondo la missione principale della sua professione.
“Bisognerebbe pensare alle future generazioni di medici ed implementare la loro formazione in aree quali la comunicazione con il paziente, capacità di autoriflessione, la leadership clinica, il lavoro multidisciplinare, la multiculturalità e la multi spiritualità, le questioni etiche esistenziali nonché gli aspetti più concettuali della medicina. Insomma una vera rivoluzione al letto del paziente non può essere altro che l'effetto di un progetto realizzato durante il periodo formativo dei medici”. Per me questo dovrebbe essere il Manifesto della futura Facoltà Universitaria di Medicina e Chirurgia!