Festival Short Theatre / Milo Rau, la crociata dei bambini
Liza è una tredicenne mulatta che sembra più grande della sua età, suo padre è camerunense, sua madre belga, in Africa la considerano bianca, in Belgio nera. Lei in realtà si chiamerebbe Elle, ma il nome suona troppo francese per l’orecchio fiammingo. Nell’audizione che apre i Five Easy Pieces di Milo Rau, in scena alla Pelanda per l’undicesima edizione del festival Short Theatre, l’unico adulto presente, che interpreta la parte del regista, le domanda cosa le piace fare. E lei risponde che le piace cantare, i suoi idoli sono Rihanna e John Lennon. Quando l’uomo le chiede di cantare qualcosa, lei si avvicina al microfono e intona Imagine. Ha una voce chiara e potente che si spande nell’aria, aumentando ulteriormente la prossimità con il pubblico che nella sala strapiena tracima fino ai bordi della scena, ma non si fa in tempo ad assaporare la fascinazione di quel momento da talent show che il regista, trincerato dietro un pc ma proiettato con mostruosa evidenza nel cielo di uno schermo che sovrasta il palco, bruscamente lo interrompe. “Va bene, va bene,” farfuglia sbrigativo, “ora torna al tuo posto”. Perché è così che funzionano i provini, con lo slancio spezzato dell’aspirante attore che di colpo restituisce il palcoscenico al suo vero padrone, il deus ex machina della regia, l’uomo che ha il potere di dire sì o no. E perché l’invisibile creatore dei Five Easy Pieces in tutto il corso dello spettacolo si farà un dovere di asciugare ogni lacrima di troppo con il ruvido fazzoletto di una consapevolezza post-drammatica spinta all’estremo, oppure di aggiungerne altre, purché la loro natura fittizia sia palese.
Mostrare che si sta mostrando, per dirla con Brecht, non è una semplice regola formale sulla scena di Milo Rau, è un principio di salvezza che prende corpo in una forma, l’unico modo possibile per raccontare, o più che altro per ricostruire, la storia di Marc Dutroux, l’uomo che rapendo, stuprando e uccidendo bambine si è guadagnato una voce su wikipedia dove viene definito “serial killer belga” con la stessa neutralità che fa di Tolstoi uno “scrittore russo”. Che sia un gruppo di bambini dagli otto ai tredici anni a mettere in scena la vicenda di un pedofilo assassino può sembrare un paradosso o, al contrario, una logica vendetta; per il regista (saggista e documentarista) svizzero è l’una e l’altra cosa, con la differenza che il suo tribunale non chiama alla sbarra il solo Dutroux ma una molteplicità di relazioni di potere che, per così dire, sono Dutroux.
Si comincia con l’assassinio di Patrice Lumumba, prodotto estremo del feroce colonialismo belga – al quale Conrad dedicò pagine memorabili – e, di ritorsione in ritorsione, si arriva fino agli stessi dispositivi di rappresentazione con cui la storia viene raccontata sulla scena e fuori di essa. Ci si diverte, nel senso letterale del termine, si va altrove nel gioco dei piccoli attori, ma il cuore di tenebra della vicenda è sempre immanente; se uno dei giovanissimi interpreti dice che ama danzare, lo si farà danzare, ma sulle note, più che scontate, ormai tristemente parodistiche, della Gymnopedie di Satie.
La scena di Five Easy Piece è sottoposta a uno sdoppiamento continuo e parossistico: tra l’azione dal vivo e quella in video, tra i piccoli attori e gli attori adulti che appaiono nei filmati, in una sorta di dialettica, o di conflitto, tra ciò che è vivo e ciò che è riprodotto, ma anche, di nuovo, tra il grande e il piccolo (poiché è da questa sproporzione che viene il potere criminale dei Dutroux), ci si sdoppia infine nel gioco dell’interpretazione, perché, come si sente dire da una delle bambine, l’attore è e insieme non è il personaggio. E ognuna di queste manovre di aggiramento, di una verità ricostruita smontando le mediazioni dell’immaginario, accresce lo stato di disagio dello spettatore.
Il culmine dell’ambivalenza lo tocca uno dei ciack dove su un letto il regista prepara una bambina, la più piccola, a interpretare una delle vittime del predatore belga. Quando le ordina di spogliarsi, un fremito quasi sensibile di sdegno pervade il pubblico – eppure, come nell’episodio dello stupro nel Purgatorio di Romeo Castellucci, non c’è niente di realmente visto ed è proprio grazie a questo comando che gli spettatori scoprono, per l’ennesima volta, che niente su un palcoscenico può essere e verrà mai effettivamente ripetuto. La possibilità è interamente ritirata nella parola, in uno di quei casi in cui, come diceva Camus, “a teatro solo la parola agisce”. Ma l’immenso disagio sta nell’impossibilità di ignorare la vicinanza tra i due corpi, che la proiezione video esalta come un’ombra su un muro. Bisogna tornare a certe immagini scattate da Nan Goldin nelle comuni hippies degli anni settanta, per provare la stessa sensazione di colpevole fastidio: le prigioni sotterranee di Marc Dutroux sono il lato oscuro, e ormai segregato, di una libido adulta che braccando l’impossibile, cercando di svuotare l’oceano del desiderio, ha dimenticato di fare i conti con il proprio potere. Anche la scena della bambina, d’altro canto, produce una duplicità: ciò che il carnefice ordina alla sua vittima è la stessa cosa che il regista (maschio) chiede alla sua attrice, il meccanismo della rappresentazione non fa che riprodurre i meccanismi di sopraffazione che dominano le relazioni sociali e, più sottilmente (per non buttarla in pallida sociologia) il nostro approccio con l’altro, con la sua fragilità e con l’infinita apertura della sua libertà.
Five easy pieces non assomiglia a niente di conosciuto nella produzione teatrale contemporanea e nel contempo potrebbe richiamare tutto: la narrazione, il teatro d’inchiesta, il Brecht dei “pezzi parabolici”, l’utilizzo sempre più frequente di attori non professionisti scelti tra diverse minoranze, etniche, fisiche, di genere e di età, persino familiari. Anche nelle sue vene scorre quella tensione anti-rappresentativa di cui Renato Palazzi ha parlato a proposito di altri spettacoli presentati a Short Theatre come El conde de Torrefiel dei catalani Tanya Beyeler e Pablo Gisbert e i Tradimenti di Pinter rivisti e corretti (ma fino a un certo punto, il triangolo sentimentale è una figura ontologica dell’anima borghese) dal gruppo belga Tg Stan. Ma ciò che alla fine il sapiente montaggio del regista svizzero ricorda meglio non è uno stile o una modalità, ma un momento cruciale nella storia del teatro: quello in cui i comici arrivano a Elsinore e Amleto decide che la rappresentazione sarà la trappola per topi in cui potrà imprigionare la coscienza del re.
Quella ordita da Milo Rau è una mouse trap per un sovrano che nel frattempo ha cambiato posto e fisionomia, per un potere divenuto plurale che, al pari dei demoni evangelici, potrebbe esclamare: il mio nome è Legione. Una trappola ottenuta con la mobilitazione di tutti gli strumenti di rappresentazione e di riproduzione della realtà – dall’indagine giornalistica al documento visivo, dal cinema alla ricostruzione televisiva – ma distillandoli nell’originaria tridimensionalità del teatro proprio perché quest’ultimo è il luogo in cui ogni simulazione, ogni manipolazione del reale diviene fallimentare messa a contatto con la vita. E di questa peculiarità Rau si serve a piene mani.
L’accuratissima confezione dei suoi video, ad esempio, li trasforma in altrettante chiose allo strapotere che l’immaginario esercita sulla nostra percezione del reale, ma poi è attraverso gli attori bambini, bravissimi perché del gioco praticano ancora la serietà, che si insinua quella scintilla di verità che sfugge anche al tritacarne mediatico più organizzato. Così come dei documenti legati al caso Dutroux sulla scena restano delle tracce sospese sul labile confine che separa la realtà dalla finzione, qualche fotografia – quella del carnefice bambino è la più impressionante – fotocopie di mandati attaccati a un pannello sul set di un ufficio di polizia, testimonianze orali reinterpretate dagli attori sulle quali il pubblico non potrebbe mettere la mano sul fuoco, se non rovesciando pirandellianamente i rapporti tra il verosimile e il vero: è talmente fantastico pensare che il padre del mostro di Marcinelle, giunto quasi alla fine della vita, volesse cambiare il suo cognome in Lumunba, per rendere omaggio al grande patriota congolese (e forse sputare in faccia al Belgio) che potrebbe essere vero.
Studi, ricerche, interviste, incontri con i familiari delle vittime, tutto è stato rifuso nell’alambicco drammaturgico di Rau per dar luogo a un’essenza. Più che un’anti-rappresentazione, dunque, Five Easy Pieces è una iper-rappresentazione che restituisce al teatro quell’egemonia nell’“arte del fatto” di cui, già negli anni sessanta, Jerzy Grotowski lamentava il declino. Ma soprattutto è uno dei pochi casi in cui l’arte riesce veramente a parlare dalla parte delle vittime senza vittimizzarle di nuovo scendendo nei meandri della coscienza del carnefice, cercando una spiegazione che inesorabilmente volge alla fascinazione: nei cinque pezzi il male (e anche la sua fascinazione) c’è, ma quel tanto che basta a capire, che quando esso appare nella storia e nella vita noi vi abbiamo in qualche modo partecipato.
Di Dutroux non resta che qualche immagine e la notizia che nel carcere in cui è detenuto passa le sue giornate a progettare una città sotterranea per i bambini, che è come dire che il Minotauro sta costruendo il suo labirinto. Mentre il lavoro di Milo Rau si conclude con il racconto di “un vecchio film” fatto da una bambina, un piccolo apologo che segna uno stacco, un volo improvviso verso l’aperto, al lato opposto dell’Ade, in uno di quei luoghi in cui, come dice un verso di Paul Celan, “non si giace stretti”.
Five Easy Pieces di Milo Rau è stato rappresentato anche a Terni Festival; si può ancora vedere il 24 settembre alle 20 al teatro Metastasio di Prato nell’ambito di Contemporanea Festival.