Speciale

La scrittura orale di Marco Aime / Narrare per proverbi e immagini

15 Dicembre 2017

Se fare poesia non è andare a capo spesso, Marco Aime è un poeta del nostro tempo. Ci ha offerto nel tempo così tante prove di dialogo tra mondi e della complessità di quegli incontri tra differenze culturali ed esistenziali da istituire una vera e propria tenzone col nostro mondo interno. Sia che si tratti di un racconto dal campo del suo liceo di provincia, che della transumanza in un luogo alpino, o di una sfida dell’antropologia che fa i conti col proprio sguardo come nella ri-narrazione dei Dogon del Mali dopo Griaule, oppure degli eccessi di culture, o ancora dei costumi ancestrali e contemporanei nella decorazione del corpo, Aime racconta poeticamente la varietà dei mondi che mette a tema della sua osservazione.

 

Il fatto è che egli si lascia osservare, più che osservare e poi traduce e descrive a suo modo i suggerimenti che lo raggiungono. E le sue descrizioni sono dense e leggere allo stesso tempo, come se avesse inventato una nuova forma narrativa: la scrittura orale. Sì, perché quando Aime si siede a proporre un suo racconto dal campo, così come quando leggiamo un suo libro, l’atmosfera è quella di un contesto garbato, gradevole, accogliente, in cui viene voglia di non smettere mai di ascoltare. Si tratta, in fondo, della messa in atto del tales of the field di Van Maanen, in una modalità unica e originale. Nel suo nuovo libro dedicato alle parole e alle immagini raccolte nei suoi viaggi di studio e di vita in alcuni paesi del continente africano, una delle “case” del suo peregrinare etnografico, Il soffio degli antenati. Immagini e proverbi africani, Einaudi, Torino 2017, Marco Aime, nel saggio introduttivo, conferma lo stile conoscitivo che passa per la narrazione e che egli stesso mette in atto, descrivendo il ruolo del narratore nelle culture che studia: “Il narratore non realizza il suo racconto solamente con le parole, ma dando vita a una performance gestuale, mimica e vocale, tesa a sottolineare e a rendere più efficace la storia. Dovremo pertanto parlare di tradizione “teatrale”, piuttosto che di tradizione orale” [p. VIII]. Aime, quindi, pratica una particolare forma di conoscenza collocandosi in una prassi che è fatta allo stesso tempo di oralità, di drammatizzazione, di immagini e di scrittura. 

 

 

 

In ogni caso sono la parola e le microstorie fotografiche le protagoniste della sua narrazione. La parola è protagonista nella costruzione di un ordine che non si limita ad essere ordine del discorso: “È la parola che dà l’esatta dimensione sociale di chi parla ed è quindi la parola che ribadisce l’ordine strutturale della comunità” [p. VII]. L’ordine con il quale gli individui prendono la parola riflette e stabilisce un ordine gerarchico nel gruppo, nella comunità, nella società. Prendere la parola è un’espressione molto pregnante e particolarmente indicativa. Verrebbe da chiedersi dove si va a prendere la parola; sembrerebbe esservi un luogo dove le parole stanno e dove si vanno a prendere; o le parole sono in noi ed è lì che le prendiamo per esprimerle. Ma forse le parole emergono al punto d’incontro fra il mondo interiore di ognuno e le relazioni situate in cui ci esprimiamo. È la contingenza la loro matrice, anche se quella contingenza non è neutrale e risulta regolata dalle asimmetrie che compongono la nostra esperienza intersoggettiva e sociale. Allora, forse, quello che si prende parlando è lo spazio e il tempo per esprimersi. Uno spazio finito e per ciò stesso scarso, di cui chi parla si appropria di una quota più o meno piccola o grande. Quel tempo e quello spazio sono fatti di attenzione, di ascolto, di disposizione a farsi raggiungere da parte degli altri e a contenere almeno in parte la loro presenza e le loro espressioni e posizioni. Diventiamo individui e comunità parlandoci, noi che siamo animali di parola. E Aime lo sa: legge le comunità vicine e lontane attraverso parole e immagini e le restituisce a chi ascolta mediate con maestria antropologica, attraverso parole e immagini.

 

 

Quel che mi ha sempre stupito di Aime è la capacità di lasciare sullo sfondo il peso della teoria, tenendo nella narrazione orale e scritta un passo leggero e allo stesso tempo denso. Due proverbi della raccolta di sintesi di saggezza e culture contenuta nel libro dicono bene lo stile conoscitivo e narrativo di Aime:

“Un viaggiatore può raccontare molte cose, ma non spiegare ciò che ha visto”

“Ciò che non conosci lo trovi dove non sei mai stato”

Ogni realtà è un mondo e le sue pieghe non si lasciano spiegare, stando in questo il suo fascino e la sua attrazione. La narrazione, più che spiegare, accarezza le cose che tratta ed è una forma di conoscenza discreta, eppure profonda.

Allo stesso tempo l’inspiegabile dei mondi culturali delle comunità umane è la frontiera della conoscenza. La mancanza che può essere il grembo generativo di quello che ancora non siamo e ancora non conosciamo, si appaga e compensa, seppur parzialmente, sporgendo il passo e lo sguardo nei luoghi reali e immaginari dove non siamo mai stati.

 

Mentre “il corpo diventa un tutt’uno con la voce e il narratore si fonde con la narrazione, dando vita a molti personaggi, senza bisogno di cambiare abito e trucco” [p. VIII], non bisogna pensare che non generi letture articolate e organiche di quanto narra e del suo “oggetto” di conoscenza. “Al di là della descrizione dei fatti puri e semplici, l’analisi strutturale di un racconto potrà portare alla scoperta di un ordine di valori, espresso esplicitamente dalle parole del narratore. Così come le descrizioni dei luoghi, possono aiutare a ricostruire l’ambiente del passato e se non è sempre possibile datare gli avvenimenti è però possibile stabilirne la sequenza” [p. 7]. 

 

Anche la critica delicata al primato della vista nelle società letterate, con conseguente messa in secondo piano della memoria individuale e soprattutto collettiva, costituisce un contributo di civiltà e di pluralismo che, tra le altre cose, riceve oggi decisive conferma a livello di ricerca neuroscientifica sul ruolo, le funzioni e le dinamiche della memoria nella nostra vita. Il proverbio che sintetizza tutto questo è impressionante per la sua anticipazione e precisione scientifica:

“Quando la memoria va a raccogliere i rami secchi, torna con il fascio di legna che preferisce”

Se consideriamo il contributo di uno dei più importanti studiosi della memoria, Eric R. Kandel, e in particolare l’analisi delle fasi essenziali di un processo di conoscenza basato sulla memoria, scopriamo che nel momento in cui l’informazione raggiunge le regioni superiori del cervello è valutata una seconda volta, dopo la selezione iniziale in ingresso. “Questa rivalutazione top-down opera in base a quattro principi: sono trascurati i dettagli percepiti come irrilevanti per il comportamento in un dato contesto; si cerca ciò che è costante; si tenta di astrarre le caratteristiche costanti fondamentali di oggetti, persone e paesaggi; e, cosa particolarmente importante, si confronta l’immagine attuale con le immagini incontrate in passato”. [E. R. Kandel, Arte e neuroscienze. Le due culture a confronto, Raffaello Cortina Editore, Milano 2017; p. 38].

 

 

Alla New York University Medical School, il gruppo di ricerca creato da Kandel si dedica all’analisi dei comportamenti elementari del mollusco, nel caso specifico la lumaca Aplysia. Questi studi hanno permesso di dimostrare che, sebbene le connessioni anatomiche tra neuroni si sviluppino in base a un piano definito, la forza ed efficacia delle sinapsi non è totalmente determinata durante lo sviluppo, e può essere alterata dall’esperienza.

Ne deriva la rilevanza dell’epigenesi emergente dalla intersoggettività, dalla narrazione e dall’esperienza. È soprattutto importante il gioco delle differenze e gli spiazzamenti che possono derivare dal confrontarsi con le discontinuità, come vie per fare i conti con la nostra prevalente propensione alla conferma e a consegnarci alla forza dell’abitudine. Nel processo di selezione, ricerca delle costanti, astrazione e comparazione, tendiamo prevalentemente a ricondurre tutto al già noto e alla sua dimensione rassicurante, scartando l’ignoto, l’inedito, il nuovo, il diverso, con conseguenze non sempre desiderabili per le nostre vite. Proprio Marco Aime si è posto in modo costante il problema producendo contributi importanti anche sul piano delle applicazioni educative, come La macchia della razza e Una bella differenza, tra gli altri. D’altra parte un’interpretazione attenta della tradizione nella cultura africana ci consente di riconoscere che la forza della parola detta rispetto alla parola scritta sta proprio nella sua capacità innovativa. “Ogni narratore interpreta, aggiunge, modifica, attualizza e contestualizza il suo racconto, rendendolo unico.

 

La parola sfugge alla fissità della scrittura e proprio per questo è capace di adeguarsi ai tempi” [p. 10]. Citando il saggio maliano Amadou Hampâté Bâ: “Un racconto è il messaggio di ieri, trasmesso al domani attraverso l’oggi”. I proverbi, tra l’altro, essendo concentrati di orientamenti culturali e di improvvise aperture di senso, mostrano di svolgere anche una funzione di cerniera nelle trasformazioni in atto nelle società africane contemporanee. Aime li associa al teatro e alla capacità di drammatizzazione che riguarda anche i problemi del presente, come accade nelle attività di gruppi giovanili che mettono in scena la corruzione, le mutilazioni genitali, l’Aids, con lo scopo di indurre le persone a riflettere e ad assumere atteggiamenti e comportamenti responsabili. La forza immediata del proverbio, per quanto difficile sia da definire questa particolare forma espressiva, dipende dalla sua concisione; dal fatto di essere un testo chiuso, tale da non contenere al suo interno un altro testo; dalla sua autonomia e dal suo essere essenziale, minimo, e per questo immediato ed efficace. “Il proverbio deve essere breve, figurato, preso dalla vita quotidiana, la più banale, nato dall’osservazione degli uomini e degli animali, conciso, ellittico, sorprendente.

 

La sintesi è indubbiamente uno dei suoi punti di forza: questa formula verbale può risolvere una discussione oppure servire da monito richiamandosi alla consuetudine” [p. XIX]. 

È comunque l’illuminazione improvvisa e il gioco tra continuità, discontinuità e spiazzamento ad accompagnare la lettura dei proverbi africani raccolti da Aime nel suo lungo lavoro di ricerca e di viaggi in Africa. Proprio quel gioco, del resto, è alla base della nostra possibilità di innovazione. La vita e l’evolvibilità delle società umane dipende dalla disposizione a generare discontinuità e a dar loro spazio. “Ci siamo evoluti per ridefinire continuamente la normalità”, scrive nel suo libro [p. 87] Beau Lotto, [Percezioni. Come il cervello costruisce il mondo, Bollati Boringhieri, Torino 2017]. Per riuscire a vedere in maniera differente, condizione elementare per ogni innovazione, dobbiamo prima concepire in maniera differente l’atto stesso del vedere. Ciò vuol dire assumere un atteggiamento di riconoscimento del valore dell’incertezza. D’altra parte l’incertezza è il problema per la cui soluzione pare che il nostro cervello si sia evoluto. I proverbi in fondo sono delle domande sull’ambiguità del presente. Illuminano grazie all’ambiguità delle informazioni e della loro capacità di generare significati. E noi costruiamo noi stessi e il nostro cervello-mente confrontandoci empiricamente con le fonti di informazioni. Non sperimentiamo mai il mondo se non in modo ambiguo. La realtà oggettiva al massimo è una coincidenza. 

 

L’esplorazione in cui Aime ci conduce, mentre ci presenta un’antropologia degli altri, finisce per essere, di fatto un’antropologia di noi stessi. Si tratta di un viaggio intorno a noi che ha il grande merito di mettere in evidenza i fattori accomunanti nella diversità, di farci riconoscere i fattori comuni tra storie diverse che si situano tra l’unicità di ognuno e la condivisa appartenenza al genere umano e alla natura di cui siamo parte. La forza dei proverbi che ci raggiungono ad ogni pagina, accomunati dalle immagini che riescono ad essere dei veri e propri racconti, forniscono un grandangolo mentale per comprenderci attraverso gli altri, che forse è l’unico modo che abbiamo per comprenderci.

“Portate i vostri bimbi sulle spalle, che i loro occhi possano guardare lontano”, recita uno dei proverbi della raccolta di Aime. Questo suo libro ci invita, di fatto, a guardare lontano, a riconoscere l’Africa che è in noi e a dialogare con gli africani di ogni Africa perché riconoscano noi in loro. 

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