Nei panni di Mercuzio

14 Marzo 2013

La scorsa settimana Mercuzio non vuole morire - l’ultimo spettacolo di Armando Punzo e della sua Compagnia della Fortezza - è uscito dal carcere ed è arrivato a Roma per un rocambolesco e ardito debutto al teatro Palladium. Gli spettatori romani si sono trovati di fronte ad una scena articolata e immensa, non grande come quella di Volterra, pensata per spazi all’aperto (l’abbiamo raccontata in estate su doppiozero), ma allo stesso modo travolgente: fin dall’inizio una frenesia di attori affolla il palcoscenico e la platea, fondendo in uno i due spazi. Cittadini dalle mani rosse di sangue, clown, Giuliette, uomini di pietra… tutti testimoni, a suon di musica, di una tragedia che sta per verificarsi, quella delle famiglie Montecchi e Capuleti, fino a che il regista Punzo decide che occorre fermare la Storia. E per bloccare questo processo inarrestabile è necessario lasciare che Mercuzio - l’amico che Romeo accusa di “parlare di nulla”, di fate e sogni - ci inondi con la sua trama poetica e leggiadra; è necessario lasciarlo parlare ed è necessario che ognuno di noi lasci liberare il Mercuzio che ci abita e permetta alla Storia e alla Vita di prendere un altro corso.

 

Fotografia di Giordano Cianfaglione

 

La leggerezza del protagonista è antitetica alla durezza e alla gravità rappresentata dallo stato di conflitto perenne, ma sembra che nello spettacolo di Armando Punzo ci sia una sottile energia che, seppur in silenzio, faccia il tifo per Mercuzio. Questa energia passa per le scene, passa per le musiche e passa anche (e forse soprattutto) per i costumi. Ne abbiamo parlato con Emanuela Dall’Aglio, da dieci anni costumista della Compagnia della Fortezza.

Si percepisce da subito che il suo non è un approccio classico da costumista; la sua produzione avviene “nel laboratorio umano e anche di sperimentazione materiale” che è il carcere di Volterra: grazie a una piccola sartoria, i costumi sono cuciti con il lavoro di tante mani che, istruite e guidate sapientemente, sanno creare vere e proprie opere d’arte.

 

Fotografia di Giordano Cianfaglione

 

Il processo creativo di Emanuela Dall’Aglio inizia dagli spunti del regista, che non sono tanto concettuali, quanto visivi (stimoli sotto forma di immagini, quadri, film). Da qui può dipanarsi la fantasia di chi crea i costumi e li adatta alla situazione che si sta vivendo in quell’istante: il coinvolgimento di un gruppo molto particolare che è quello variabilmente composto dagli attori detenuti del carcere di Volterra fa scaturire una voglia di mettersi in gioco, di provare e riprovare che pervade il lavoro di Emanuela e quello dell’intera Compagnia. Proprio il rapporto con gli attori detenuti è stato certamente uno dei punti più difficili da impostare, quanto meno all’inizio quando si deve superare il primo scoglio della conoscenza. La questione del corpo è centrale nell’ottica di una costumista e a maggior ragione diventa delicata in questo ambito quando si ha a che fare con persone che vivono una privazione della libertà personale, in un certo senso una privazione di libera azione del corpo. Emanuela racconta come la chiave risolutiva diventi allora per forza il gioco attraverso tentativi continui di travestimento.

 

Fotografia di Giulia Quaglia

 

Sugli attori detenuti è stata pensata la nozione di “costume armatura” che da alcuni anni ispira il lavoro di Emanuela. Nel tempo è emersa la necessità di “costruire dei costumi che aiutassero gli attori a trasformarsi e a lavorare… dei costumi che magari impedivano da un lato un qualche movimento e irrigidivano i corpi con delle costrizioni, ma dall’altro li aiutavano a uscire da quello che era il loro modo di essere, oppure a trovare in esso una diversa capacità di esprimersi, di muoversi e quindi anche di lavorare”. Attorno a loro stessi, gli attori detenuti possono così avere una specie di armatura di protezione dentro la quale sentirsi anche più coperti e più riparati. E così anche più liberi di essere.

 

Fotografia di Sara Maddalena

 

Fortissima si presenta la commistione tra un lavoro di sartoria e un lavoro di puro artigianato. Basti vedere le figure degli uomini di pietra, spennellati di azzurro e grigio, veri e propri pezzi di architettura vivente. I loro costumi sono stati dipinti con vernici e smalti, così da dare loro una parvenza di rigidità e finzione. A questa durezza materica si contrappone la preoccupazione di riuscire a rendere in tutte le fasi e in tutti gli ambiti della produzione quella leggerezza che apparteneva a Mercuzio e che vuole pervadere l’intera scena. La leggerezza nella città viene data  dalla presenza dei clown, bianchissimi ed eterei, quasi impercettibili con qualche puntino rosso disegnato in viso, lontani dal cliché cui siamo abituati; la stessa leggerezza è data anche dall’idea dei portatori di Arte - quell’arte che potrebbe salvare il mondo.

 

Fotografia di Paola Vinciguerra

 

I costumi di Emanuela Dall’Aglio sono costruzioni che regalano gioia agli occhi. Anch’essi, nel concerto delle forme di questo spettacolo, anelano al mondo diverso e migliore che ancora si può costruire come auspica la figura di Mercuzio. Proprio lui dal quale sul finale si alza un indimenticabile inno alla vita: intenso e commovente come sanno creare solo i poeti e chi sa di andare incontro alla propria fine.

 


Fotografie degli allievi del Workshop intensivo di fotografia di scena diretto da Futura Tittaferrante, realizzato da TeatroeCritica  e promosso da Cronos Film  e Romaeuropa Festival.

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