La parola e la realtà. / Neruda di Pablo Larraín
Cile, fine degli anni Quaranta. Pablo Neruda è già un poeta famosissimo ma in quegli anni è anche e soprattutto una figura pubblica di primo piano e un senatore del Partito Comunista. Nella prima scena di Neruda – il nuovo film di Pablo Larraín presentato lo scorso maggio a Cannes alla Quinzaine des réalisateurs e da questa settimana in sala in Italia – lo vediamo in una toilette (probabilmente quella del parlamento cileno) compiere un’arringa particolarmente teatrale e dall’esplicito sapore letterario nei confronti dei alcuni antagonisti politici, al termine della quale manda i propri interlocutori a quel paese e se ne va. Neruda si apre insomma all’insegna di una tipologia ben specifica di parola, che è quella politica. Il poeta – cioè colui che si occupa di costruire la parola – sembra essere ancora in grado di avere una presa sulla realtà, e infatti il suo luogo per eccellenza è l’agone politico. Tuttavia questa dimensione pubblica la vediamo già trasfigurata e capovolta, dato che il discorso di Neruda avviene in un luogo che sa già di parodia. C’è già in nuce in questa primissima scena la questione fondamentale del film, e forse persino dello stesso cinema di Larraín: che cosa succede quando la parola smette di essere costruttrice di realtà e inizia a riferirsi solo a sé stessa? Cosa avviene quando il linguaggio diventa auto-referenziale? Qual è il prezzo da pagare?
Neruda non è dunque un bio-pic come forse a prima vista potrebbe sembrare, ma semmai un film che prova a mettere a fuoco uno snodo storico fondamentale che in Cile va dalla fine degli anni Quaranta all’inizio degli anni Cinquanta: quando la figura dell’intellettuale smette di essere costruttrice di realtà e inizia semplicemente a parlare della realtà e a costruire procedimenti di finzione che hanno se stessi come punto di riferimento. Più un film “nerudiano” dunque che un film sul poeta – come ha ammesso lo stesso Larraín quando ha presentato il film – è un’opera che come è già accaduto nel cinema del regista cileno vuole riflettere il rapporto complesso che lega linguaggio, immagine e realtà.
Ma quali sono gli eventi di questo snodo storico che vengono rappresentati nel film? Neruda da elemento di spicco del movimento comunista internazionale aveva iniziato in alla fine degli anni Quaranta un conflitto molto duro con il governo di destra di Gabriel González Videla (che non ha nulla a che vedere con il più tristemente famoso dittatore argentino), responsabile tra l’altro di violente repressioni nei confronti dei minatori cileni in sciopero. Videla intraprese allora una dura politica anti-comunista che culminò nella messa fuori legge del Partito Comunista cileno e in un mandato d’arresto nei confronti di Neruda. Il poeta cileno inizia così un lungo periodo di fuga dalla legge.
Ma invece di lasciare subito il paese decide – come in The Purloined Letter di Edgar Alla Poe – di nascondersi “palesandosi”, ovvero di lasciare tracce continue della sua clandestinità alla polizia che lo sta cercando. Larraín è affascinato dal fatto che Neruda inizi a trattare la sua fuga come se fosse un’opera letteraria: conscio ormai della marginalizzazione del partito comunista (il personaggio di Neruda continua a ripetere nel film che tutti i suoi compagni sono in carcere, e che è rimasto solo) e della crisi della sua figura di intellettuale, il suo problema non è più la fuga dalla legge, ma semmai la capacità di creazione di un “mito” che la sua figura sarebbe capace di rappresentare. Dalla finzione letteraria come elemento di costruzione della realtà siamo passati alla realtà come materiale grezzo per la costruzione della finzione.
Il film di Larraín si focalizza allora su questo gioco d’inganni: una sorta di manifestazione in disguise continuamente messa in atto dal poeta cileno che viene messa in scena nel film con un notevole e abbastanza geniale secondo livello d’inganno nei confronti dello spettatore (in un paio di scene Neruda si traveste e inganna anche noi). Tutti i giochi di prestigio però, hanno bisogno di un pubblico: che in questo caso è costituito da un poliziotto, Oscar Peluchonneau (interpretato da Gael García Bernal), che non solo ha la funzione dello sparring-partner antagonista di Neruda, ma anche di luogo-tenente dello spettatore nel film (e non a caso, fa anche da narratore). La seconda parte del film diventa allora una lunga scena d’inseguimento, di tracce e finti indizi, di nascondigli, travestimenti e doppi fondi che veicolano sempre più consapevolmente questa dimensione esplicitamente finzionale e linguistica dell’immagine. La letterarietà della fuga di Neruda prende il sopravvento sulla realtà, la mito-poiesi sulla storia, la finzione sulla verità fino a una conclusione – una sorta di western borgesiano – dove questi diversi livelli vengono espressi in modo ancora più esplicito.
Il macchina filmica di Larraín è perfetta e l’importanza del film nell’annodare in modo così efficace forma e contenuto è difficilmente sottostimabile. Tuttavia non si può non notare un certo compiacimento nel gioco linguistico che viene messo in atto dal regista cileno, che però non è tanto da imputare a un vezzo narcisistico di Larraín quanto all’oggetto storico stesso. Questa insistenza sulla parola che crea l’immagine, sulla rappresentazione che viene prima della realtà sono la forma estetica di quello snodo storico fondamentale di cui la figura di Neruda diventa metafora. La vicenda della clandestinità di Neruda e la repressione del movimento comunista in Cile sono i primi segni di una sconfitta più generale del movimento comunista del dopoguerra che riscriverà radicalmente la relazione tra il ruolo intellettuale e la politica (e quindi tra la letteratura e la realtà). L’atto linguistico più auto-centrato, letterario, ma nello stesso tempo anche inevitabilmente più inoffensivo nei suoi effetti di realtà di cui Neruda si fa artefice deve allora anche essere letto come la risposta a delle mutate condizioni dei rapporti di forza sociali. L’idea della fuga come opera d’arte che gioca sull’inganno e il trompe-l’œil, assume fino in fondo il fatto che la realtà si è separata ed è troppo lontana per potersene appropriare, e che quindi l’unica cosa che è possibile fare è crearla e ri-crearla tramite il linguaggio. E al limite mettersi a giocare con essa. In questa soglia dove l’immagine diventa prodotto della parola c’è già tutta quella che sarà la svolta postmoderna dove la realtà non è più oggetto esterno, traumatico e perturbante ma è emanazione stessa della parola.
È come se Neruda ci volesse mostrasse il momento di trasfigurazione della realtà in macchina testuale-finzionale, il suo definitivo divenire “significante”, e in questo senso anche come la problematica estetica riguardante lo statuto della parola abbia sempre anche delle conseguenze politiche. Non è un caso che Larraín sia anche l’autore di un film straordinario come No – che a questo punto diventa una sorta di sequel ante-litteram di Neruda – nel quale viene mostrato come la postmodernizzazione della parola e dell’immaginario si porti dietro inevitabilmente anche la tecnicizzazione della politica, che nelle mutate condizioni estetiche diventa puro appannaggio dei sofisti della comunicazione e della persuasione.
Neruda è senz’altro un film la cui importanza è difficilmente sottostimabile, e che andrà a costituire una pietra di paragone imprescindibile per il cinema di questi e dei prossimi anni. Eppure, anche e soprattutto alla luce dell’unanime praise critico che ha ricevuto pressoché ovunque – una sorta di “pensiero unico critico” che sta facendo di Larraín il regista del momento – è impossibile non provare un leggero retrogusto d’amarezza. Come se il godimento labirintico e giocoso che il film è in grado di mettere in scena non possa non portare con sé anche la consapevolezza di una perdita di profondità dell’immagine. E che non sia soltanto la parola ad aver perso la capacità di avere presa sulla storia, ma anche il cinema. E che l’unica cosa che ci rimane sia il cantico della sua inoffensività.