Occhio rotondo 14. Wanted
Davvero questa è una foto segnaletica scattata nel carcere di Fulton negli Stati Uniti? Davvero l’uomo che ci guarda con occhi torvi è l’ex presidente americano Donald Trump? Non sarà piuttosto un attore hollywoodiano che lo imita, uno abituato a recitare davanti alla macchina da presa la parte del cattivo? Non si tratterà invece di un attore comico che imita Trump in un programma televisivo? No, è proprio lui, Donald John Trump, nato nel 1946, quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti d’America, collocato davanti alla macchina fotografica per la rituale foto degli arrestati. Lo scatto ha qualcosa di tragico e insieme di comico, di paradossale e nel medesimo tempo di ridicolo. Se Alphonse Bertillon, fondatore nel 1879 del metodo d’identificazione dei criminali, potesse vedere questa immagine la scarterebbe. Non ha niente infatti degli scatti delle foto segnaletiche, niente del doppio scatto “di fronte e di profilo”, che con gesto neutrale – si fa per dire – fissa per sempre gli arrestati all’entrata delle stazioni di polizia o nelle carceri di tutto il mondo. Qui il soggetto fotografato, incriminato per vari reati, su cui pende il giudizio della magistratura americana, ha voluto esprimere il massimo di soggettività, quella che le classificazioni criminologiche intenderebbero sopprimere a favore della assoluta oggettività scientifica. Un perfetto ritratto da aggiungere a quelli raccolti da Ando Gilardi in Wanted (Bruno Mondadori, 2003) dove figura la storia di Umberto Ellero, inventore delle “Gemelle Ellero”, la macchina fotografica per realizzare le immagini segnaletiche. Donald Trump, come dimostra questa ennesima foto, esprime sempre e comunque la volontà di essere sé stesso. In questo caso un uomo arrabbiato, risentito, che ti fissa con uno sguardo carico di rancore. Pare che dica: voi osate fare questo a me? Il solerte fotografo che ha scattato questa immagine deve essersi impressionato davanti a una simile espressione e non deve aver osato, si suppone, controbattere nulla. Ha premuto il pulsante della macchina digitale. La foto è questa: Trump è Trump. Di certo a Mister Trump non manca uno spiccato carattere attoriale. Quel ciuffo biondastro, che nasconde l’incipiente calvizie, quasi un segno del proprio brand, i sopraccigli minacciosi da antico profeta, gli occhi che fissano carichi di odio l’occhio di vetro del ritrattista: tutto è così ben recitato da sembrare vero. Una perfetta performance. Il signore che ci traguarda attraverso lo scatto, che reca nella parte alta a sinistra il logo dello sceriffo Patrick Labat di Fulton County, cerca di esprimere il massimo d’odio e insieme di disprezzo concesso in un simile frangente. Il suo sguardo si rivolge non tanto all’obiettivo e al poliziotto che lo ritrae, ma a tutti. Dice: dovete imparare a temermi, come se non lo temessimo già. Ricorda: io sono Donald John Trump, come se non lo sapessimo già. Ammonisce: io sono io, cosa ben evidente. L’oggettività dello sguardo fotografico è tramontata da un pezzo, come hanno certificato Susan Sontag e Roland Barthes. Ellero e gli altri creatori della fotografia indiziaria pensavano, scrive Gilardi nel suo libro, che il foto-ritratto segnaletico producesse un’immagine oggettiva del soggetto fotografato, che non sempre sappiamo vedere con i nostri occhi. La fotografia produce la realtà, e svela il “reale” che è in ciascuno, compresa la propensione a delinquere. Di più: il ritratto, scrive Ellero in un volumetto del 1908, produce un’opera astratta, attraverso la quale si raggiunge “l’assoluto della conoscenza” della realtà. La fotografia è, come la lente di Sherlock Holmes, uno strumento scientifico, cioè oggettivo. Trump lo smentisce con questo suo sguardo feroce e ci dice che l’unica cosa che conta è la soggettività, la sua in particolare, che non si sottopone a nessuna autorità o potere che non sia il proprio. Siamo nel regno di Re Io. La sua è la faccia d’un bambino egoista e dispettoso, che pensa di tenere a bada gli altri con i propri sguardi, prima ancora che con l’esercizio del potere, attraverso la propria esuberante personalità ritratta: l’unica vera arma che sfodera ancora una volta per vincere. Populismo fa rima con narcisismo. Trump incarna fisicamente e fotograficamente entrambi. Una coppia temibile che gli è riuscito di portare al successo anche davanti alla macchina fotografica della polizia. Quello che molta gente in America vedrà in questo scatto, che è già diventato un’icona – potenza del gesto e soprattutto potenza dei media che la moltiplicano – è: ecco uno-come-me, uno che si ribella, uno che non si sottrae alla lotta, uno che è capace di castigare i nemici. Trump incarna la possibilità di vendicarsi per quello che si è: persone incazzate senza un vero perché. Costruire il proprio potere su un’immagine è diventata una necessità imprescindibile per un leader politico. Politico? Donald Trump lo è ancora o siamo passati a qualcosa d’altro, qualcosa che confina con l’irrazionale e l’incomprensibile? Donald ottiene in quella che continuiamo a chiamare “politica” il massimo con il minimo: sé stesso.
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