Lavoro culturale e occupazione / Papa Francesco, Maggiani e i lavoratori della cultura

6 Ottobre 2021

Il papa e lo scrittore

 

“Vale la pena di produrre la bellezza grazie agli schiavi?” Se lo è chiesto Maurizio Maggiani il 27 luglio 2021 su “la Repubblica”, interrogandosi sulla filiera produttiva dei suoi libri.

Al “gentile signor Maggiani” ha risposto con una lettera aperta Papa Francesco, il 12 agosto: “Lo avevamo visto durante il lockdown, quando tanti di noi hanno scoperto che dietro il cibo che continuava ad arrivare sulle nostre tavole c'erano centinaia di migliaia di braccianti privi di diritti: invisibili e ultimi – benché primi! – gradini di una filiera che per procurare cibo privava molti del pane di un lavoro degno”. 


Nella sua autocritica, lo scrittore introduceva un’aggravante a proprio carico: “Magari sono stati degli schiavi a stampare tutti quanti i miei romanzi; le mie storie così colme di aneliti libertari, così madide di empatia per gli ultimi, per i senza voce, sono finite tra le mani delle brave persone che le hanno volute leggere perché a farne degli oggetti acquistabili sono stati degli umani violati, picchiati, derubati e privati di ogni dignità perché fosse contenuto al minimo possibile il prezzo di copertina.”


Il pontefice aveva accolto la provocazione: “Sono tanti gli umiliati e gli offesi di oggi, ma chi dà a loro voce? Chi li rende protagonisti, mentre soldi e interessi spadroneggiano? La cultura non si lasci soggiogare dal mercato. (…) Di questo abbiamo bisogno, di una denuncia che non attacchi le persone, ma porti alla luce le manovre oscure che in nome del dio denaro soffocano la dignità dell'essere umano. È importante denunciare i meccanismi di morte, le 'strutture di peccato'. Ma denunciare non basta. Siamo chiamati anche al coraggio di rinunciare. Non alla letteratura e alla cultura, ma ad abitudini e vantaggi che, oggi dove tutto è collegato, scopriamo, per i meccanismi perversi dello sfruttamento, danneggiare la dignità di nostri fratelli e sorelle. È un segno potente rinunciare a posizioni e comodità per fare spazio a chi non ha spazio. Dire un no per un sì più grande. Per testimoniare che un'economia diversa, a misura d'uomo, è possibile”.

 

Sulle pagine dei giornali che hanno rilanciato il dialogo tra lo scrittore e il pontefice, ci si sarebbe aspettata un'inchiesta sulla dignità del lavoro culturale e sui meccanismi dello sfruttamento neocapitalistico della creatività, o almeno un dibattito sull'ipocrisia dell'intellettuale impegnato ma privilegiato, per non parlare di rinunce a poltrone e prebende.

Anche perché la vicenda che ha indignato Maggiani e Bergoglio è davvero esemplare e agghiacciante, e avrebbe meritato una decisa presa di posizione del Ministro della Cultura e qualche provvedimento urgente. Era stata portata alla luce dai Carabinieri di Cittadella e dalla Procura di Padova, che a luglio aveva chiesto l'arresto di 13 persone con un capo d'accusa pesantissimo: riduzione in schiavitù.

 

Gli schiavi della cultura

 

Nello stabilimento di Grafica Veneta di Trebaseleghe, la gigantesca tipografia con una quota di mercato pari a circa il 60% in Italia e tra il 25-30% in Europa, alcuni immigrati pakistani venivano prelevati al mattino e portati in fabbrica, dove lavoravano 12 ore al giorno e 7 giorni su 7, senza riposo né ferie, minacciati, picchiati, legati e sequestrati senza dignità quando provavano a ribellarsi: “Sono arrivati a portare mia moglie e i miei figli in una caserma in Pakistan. Mi hanno detto che li avrebbero liberati solo se avessi ritirato la denuncia per le violenze subite”.

Tre anni prima, nell'agosto 2018, l'inchiesta “Negotium” della Procura della Repubblica di Pavia aveva portato all'arresto di 12 persone, per sfruttamento di lavoratori in stato di bisogno, frodi fiscali e associazione a delinquere. Oggetto dell'inchiesta era la situazione nel gigantesco (e super-automatizzato) stabilimento della Ceva Logistics di Stradella: “Diecimila libri da spostare in un turno di lavoro, contratti 'settimanali' rinnovati per anni, 200 ore di straordinari mensili, violazioni sistematiche di ogni diritto”. Per il GIP, “sono emersi chiari, precisi e concordanti elementi relativi all'intermediazione illecita e allo sfruttamento dei lavoratori, al reclutamento di manodopera destinata al lavoro presso la Ceva in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori e la corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali; violando reiteramente la normativa relativa all'orario di lavoro, ai periodi di riposo, alle ferie, in totale dispregio delle norme di igiene e del lavoro”.


Nel frattempo la Città del Libro di Stradella è stata rilevata da una multinazionale e ha continuato a espandersi: oggi movimenta circa 120 milioni di copie all'anno (ovvero quasi tutto quello che compriamo nelle librerie), anche grazie a nuovi accordi con i due più grandi distributori, Emmelibri (con la joint-venture C&M Book Logistics SrL) e Mondadori. Con qualche contrattempo. Il 4 giugno 2021, la polizia in tenuta antisommossa ha sgombrato a colpi di lacrimogeni il blocco stradale dei lavoratori del polo di Stradella, scesi in sciopero per difendere i propri diritti. La risposta dell'azienda: “Non riteniamo che manifestazioni improvvise e blocchi dello stabilimento siano in linea con il percorso di confronto e dialogo instaurato tra azienda e parti sociali”. 

A parte papa Bergoglio, si contano sulle dita di una mano gli intellettuali e gli artisti che hanno reagito alla provocazione di Maggiani. La filiera produttiva e distributiva ha continuato la sua marcia trionfale e noi continuiamo a lamentarci perché “i libri e la cultura costano troppo”. Non è certo colpa dei lavoratori del settore. Non è colpa dei super-sfruttati delle finte cooperative, e nemmeno della disgraziata filiera del lavoro artistico e culturale nel nostro paese.

 

Il mercato del lavoro culturale, in Italia, “si muove in modo ambiguo, contraddittorio, frammentato, destrutturato e incostante, c'è confusione sullo status giuridico del lavoratore culturale, ma anche sul piano fiscale e previdenziale”, si legge nell'ampia ricerca curata da Antonio Taormina (Lavoro culturale e occupazione, FrancoAngeli, 2021, p. 24), che guarda la realtà e le prospettive di un non-settore strutturalmente fragile attraverso i saggi di una nutrita pattuglia di esperti: Lucio Agrano, Fabrizio Maria Arosio, Sonia Bertolini, Giada Calvano, Annalisa Cicerchia, Francesco De Biase, Antonio Lampis, Cristina Loglio, Mirko Menghini, Valentina Montalto, Daria Pignalosa, Renato Quaglia, Alessandro Rinaldi, Giovanni Scoz, Domenico Sturabotti.   

 

Miliardari e dilettanti

 

Nell'immaginario italiano, il lavoro nella cultura è polarizzato da due miti. Da un lato ci sono le star superpagate, quelli che ce l'hanno fatta e finiscono in prima pagina per i guadagni stratosferici. Al mito credono i militanti della trap, i ragazzi delle periferie che sognano di ingozzarsi di Rolex, Ferrari, catene d'oro, cocaina, azzardo, donne nude... È la scorciatoia per il lusso: “On va dans le futur sans visa”, canta il rapper franco-algerino Soolking in Vroom Vroom. Achille Lauro, dopo aver intrapreso con un certo successo (a suo dire) la carriera di rapinatore e di pusher, ha capito che per far soldi in fretta la musica è meglio: “Quando eravamo ricchi con cinquanta euro. Oggi do da mangiare a trenta famiglie, sono un imprenditore (…) Voglio farmi una vita come ho in mente io che sia una vera vita. (…) Una barca di soldi per poter far stare tutti tranquilli. Per me il massimo sarebbe non doversi preoccupare dei soldi” (Achille Lauro, Sono io Amleto, Rizzoli, 2019, pp. 196-197).

Al mito credono i ragazzi e le ragazze che accorrono ai provini per i talent show televisivi. Al mito credono anche molti di quelli che si iscrivono ai laboratori per attori, cantanti, danzatori, scrittori, ai corsi per videomaker e presentatore, ai master per aspiranti influencer e TikTokers... Le star sono gli unicorni di un esercito di debuttanti allo sbaraglio, affamati di fama.

 

Sul versante opposto, ci sono quelli che si divertono e si appassionano per quello che fanno e che si divertono e dunque mica lavorano. Il 29 aprile 2020, nel pieno del lockdown, i carabinieri di Santarcangelo di Romagna hanno fermato per un controllo il cantante della band romagnola Ponzio Pilates. Nell'autocertificazione Dimitri Reale aveva scritto: “Mi sono recato a Cesenatico in magazzino per ritirare gli strumenti musicali che devo utilizzare essendo un musicista”; gli servivano “per rimanere in esercizio e fare le dirette live su Twich”. I carabinieri della città che ospita il festival di teatro più famoso d'Italia gli hanno risposto che “la musica la si può fare per hobby, non è un lavoro” e gli hanno contestato violazione del decreto per uno spostamento in “assenza di comprovate esigenze lavorative”, con sanzione maggiorata in quanto avvenuto mediante automobile. 

 

 

Il pittoresco episodio riflette lo statuto del lavoro artistico e culturale nel nostro paese: un passatempo e uno svago, e non una professione. Se ti definisci “attore”, “musicista” o “scrittore”, l'amico di papà si sorprende: “Bello! Ma di lavoro che fai?” (vedi Mimma Gallina, Luca Monti, Oliviero Ponte di Pino, Attore... Ma di lavoro cosa fai? Occupazione, diritti e welfare nello spettacolo dal vivo, Franco Angeli, 2018). In questo orizzonte, non si diventa ricchi e famosi grazie allo studio, al talento, all'applicazione, ma perché si vince alla strampalata lotteria dell'audience.

Antonio Taormina ha coordinato un'indagine – perché di questo si tratta – che evita le mitologie contrapposte della star e del dilettante, e fotografa la realtà di un settore che la pandemia ha duramente colpito e probabilmente trasformato per sempre, cambiando le abitudini dei consumatori.

Per studiosi e decisori è difficile circoscrivere l'ambito del lavoro culturale, spesso statisticamente invisibile perché “intermittente, irregolare, atipico” (Cicerchia, p. 66), caratterizzato dalla profonda eterogeneità delle condizioni in cui si esprime il lavoro (Argano, p. 25).

 

Poi c'è la frattura tra “garantiti” (il lavoro dipendente, soprattutto nelle grandi istituzioni e nel settore pubblico) e i non garantiti, che operano in una terra di nessuno legislativa e normativa (p. 28-29) e che rappresentano una quota crescente. Il lavoro è sempre stato atipico e intermittente nello spettacolo e nelle arti visive. Lo è diventato sempre più anche nel settore editoriale, dopo la terziarizzazione che a partire dagli anni Settanta ha spinto a esternalizzare molte funzioni: redazione e correzione bozze, traduzione, grafica, ufficio stampa sono ormai appannaggio di studi professionali o di liberi professionisti. Come ha scritto Paolo Di Paolo su “la Repubblica” il 21 settembre 2020 nella micro-inchiesta dedicata al “Far West dell'editoria”, “i dati di un ampio e recente sondaggio anonimo sul lavoro editoriale mostra una sproporzione marcata fra freelance (oltre l’80% degli intervistati) e lavoratori dipendenti. Gli accordi stipulati tramite contratto o lettera di incarico riguardano poco più della metà dei casi; spesso ci si limita a un accordo verbale (11,7%). Il 55% degli intervistati dichiara un reddito inferiore ai 15mila euro. Sopra i 20mila euro, l’orario di lavoro supera le 42 ore settimanali. Tariffe medie orarie basse: da un massimo di 13 euro a un minimo di 6. Diffusa illegalità sui tempi di pagamento: tra i 60 e i 120 giorni”. 

 

Il mondo dell'informazione è stato travolto dalla rivoluzione digitale e la principale contromossa è stata di trasformare i giornalisti in free lance per 5 o 10 euro a pezzo. L'università è popolata di giovani (e meno giovani) sottopagati e precarizzati, mentre l'età media dei docenti ordinari e associati è sempre più vicina alla pensione. Ancora prima della pandemia, “nel 2016, per alcuni sotto-settori del comparto culturale, la metà dei lavoratori raggiungeva un numero di ore lavorate pari a 46,7 all'anno” (Cicerchia, p. 67).

In sintesi, “bassi redditi e assenza di stabilità di reddito” (Argano, p. 31). Inevitabile il ricorso al doppio o triplo lavoro (i multiple job holders, Cicerchia, p. 66), con doppia carriera: “con un lavoro nel settore artistico e l'altro in un settore differente”, oppure con “la doppia carriera nel settore artistico” sia con “una diversificazione estensiva tra più settori (per esempio teatro e televisione), oppure attraverso una diversificazione intensiva, lavorando nello stesso settore ma svolgendo più professioni (per esempio ballerina e insegnante di danza)” (Bertolini, p. 187). Diventa sempre più labile il confine tra professionismo e non professionismo (Argano, p. 28), nel quadro di una generale tendenza alla “dilettantizzazione”.

 

Durante la pandemia, i “ristori” e i “sostegni” da 600 e da 1000 euro ai lavoratori dello spettacolo (per accedere ai quali erano necessarie almeno 6 giornate lavorative all'anno) hanno interessato diverse decine di migliaia di lavoratori dello spettacolo: si parla di quasi 80.000 persone, soprattutto attori, musicisti e tecnici. Il ministro Dario Franceschini, intervenendo il 21 aprile 2021 al Globe Theatre di Roma occupato, ha ammesso l'impreparazione: “Abbiamo censito un mondo di cui non si sapevano esattamente i numeri, abbiamo una mappa precisa dei lavoratori intermittenti” e ha promesso di “rendere permanenti le forme delle protezioni del settore”, anche partendo dall'indagine conoscitiva condotta dal Senato nei mesi precedenti.

 

Con la cultura in Italia mangia un milione e mezzo di lavoratori (ma poco)

 

Nonostante queste difficoltà (e le difficoltà di mappare un non-settore “de-istituzionalizzato” e in continua evoluzione, che i codici ATECO non bastano a circoscrivere), va detto che, contrariamente al luogo comune, con la cultura si mangia. Per la precisione, nel 2019 con la cultura e la creatività mangiavano circa 864.000 persone. Il dato arriva dal rapporto Io sono cultura, con cui ogni anno Fondazione Symbola mappa l'evoluzione del Sistema Produttivo Culturale e Creativo, tenendo conto del core del settore, ovvero le attività produttive di sette macro-domini: architettura e design, comunicazione; audiovisivo e musica; videogiochi e software; editoria e stampa; performing arts e arti visive; patrimonio storico e artistico. Se si aggiungono i lavoratori “creativi” negli altri settori creative driven, la cultura in Italia dà lavoro a 1,5 milioni di persone, il 5,9% degli occupati su scala nazionale, con un significativo impatto sul PIL, sul turismo e sulle esportazioni.

 

Il “rapporto Taormina” aiuta a capire chi sono questi lavoratori. Intanto sono concentrati, come prevedibile, nelle aree metropolitane, ma anche in province come Alessandria e Arezzo (distretti manufatturieri con forte vocazione all'export) e nelle località dove il turismo è abbinato alla valorizzazione del patrimonio storico e delle rappresentazioni artistiche (Menghini e Rinaldi, p. 99), confermando lo stretto legame tra cultura ed economia.

Ci sono altri dati interessanti: in ambito culturale “la prevalenza degli uomini è leggermente più pronunciata rispetto alla media dell'economia”, con una maggiore concentrazione nelle classi di età più basse, mentre “gli stranieri risultano relativamente poco rappresentati”. Per quanto riguarda i livelli di istruzione, rispetto alla media sono quasi il doppio i lavoratori che hanno almeno un titolo terziario. I lavoratori dipendenti sono relativamente pochi rispetto alla media nazionale: il contrario di quel che accade con i liberi professionisti e i lavoratori in proprio (pp. 104-107): un cangiante tessuto di auto-imprenditori e micro-imprenditori, un fenomeno non solo italiano ma europeo. Lo squilibrio territoriale si riflette sul mondo della cultura: man mano che si scende verso Sud, l'incidenza della filiera culturale e creativa diminuisce. Nel settore pubblico, a causa dello scarso turnover, l'età media è piuttosto alta (Argano, p. 29).

 

Giovani maschi bianchi e figli di papà, sfruttati ma felici

 

Insomma, a lavorare nella cultura sono soprattutto maschi bianchi del Nord Italia con un elevato livello di istruzione e relativamente più giovani (anche se nel settore pubblico sono vecchi). A fare cultura sono di solito i figli di papà plurititolati, che hanno potuto vivere a lungo con redditi nulli, bassi e intermittenti, sia nel corso del lungo curriculum formativo sia nella fase di avvio alla professione, con forme sottopagate di stage, volontariato, tirocini, apprendistati... Inevitabilmente le scelte degli artisti e dei decisori riflettono l'origine di classe. In una situazione del genere, diventa difficile immaginare e praticare efficaci politiche di allargamento del pubblico.

Si genera tuttavia un curioso paradosso, identificato più di vent’anni fa da Richard Caves: “i lavoratori traggono dalla propria occupazione nella cultura appagamento e soddisfazione a prescindere dalle condizioni di lavoro, dall'instabilità, dalla precarietà, dalle retribuzioni inadeguate o talvolta persino inesistenti” (Cicerchia, p. 67). Sfruttati ma felici. Anche se alla lunga, come sanno bene i devoti di San Precario, l’incertezza genera stress e depressione. 

 

A questa situazione concorrono diversi elementi. Da un lato la flexploitation, “una situazione in cui le persone non hanno un potere contrattuale abbastanza forte da garantire condizioni di lavoro decenti e la flessibilità è scritta nero su bianco nei contratti”. Inoltre “in aree come la musica, la letteratura e l'audiovisivo il modello dominante ha sconvolto le catene del valore creativo, non solo per via della pirateria, ma anche per il paradosso che premia le piattaforme di rilascio delle opere e dei prodotti rispetto agli artisti e ai produttori” (p. 68).

A questo va aggiunto l'auto-sfruttamento di chi sceglie un mestiere “vocazionale” e si fa imprenditore di sé stesso e così rende difficile, se non impossibile, bilanciare i tempi di vita e di lavoro. 

 

Sparpagliati, frammentati, autoreferenziali

 

Quello del lavoro culturale è un mondo più ampio di quello che normalmente si pensi, complesso e variegato: si va dall'economia delle celebrità descritta dal Nobel Paul Krugman (Economisti per caso, Garzanti, 2000) alle forme estreme di sfruttamento degli stabilimenti che consentono grandi economie di scala, dai manager-gatekeepers che gestiscono le grandi aziende editoriali e della comunicazione ai professionisti free lance.  

I problemi sono sotto gli occhi di tutti: “Lavoro intermittente, irregolare e atipico, con poche garanzie, domanda cronicamente bassa e in ulteriore calo, prevalenza di imprese piccole e micro con problemi di accesso al credito e al reddito, scarsissimo sostegno pubblico e forti divari territoriali” (p. 66), una situazione che la pandemia ha solo aggravato. La mobilitazione innescata dal lockdown non ha cambiato una realtà “sparpagliata, frammentata, autoreferenziale” (Argano, p. 27) e con scarso peso politico. Come ha scritto Bertram Niessen, “più di ogni altra tipologia di lavoratori, quelli che operano nei settori dell’arte, della cultura e della creatività hanno subito l’impatto del cosiddetto processo di individualizzazione: la definizione del sé come ‘unico’ e ‘speciale’, dotato di un’individualità sempre più distinta dal resto del corpo sociale, che ha comportato crescente differenziazione delle forme di consumo e la ricerca di forme identitarie sempre più particolari”. Nel novembre 2020, dopo mesi di proteste e occupazioni simboliche, il ministro Franceschini aveva attivato un “tavolo permanente per lo spettacolo e il cinema, necessario per l’ascolto costante di tutte le realtà di questi settori pesantemente colpiti dalla pandemia”: solo per lo spettacolo dal vivo, sono state ammesse al tavolo decine di sigle: al 10 dicembre 2020 erano 42, tra cui AFI, AGIS, AIDAP, ANEM, ANFOLS, Assolirica, Assomusica, ATIP, Bauli in piazza, CGIL, CISL, Cresco, Facciamo la conta, FAS, Federvivo, FEDITART, FEM, FIALS, FIME, FIMI, Italia live, La musica che gira, PMI, Squadralive, Scena Unita, UGL, UIL, UNITA... 

È difficile trovare una sintesi in un settore attraversato da spinte corporative, se non regressive, come la proposta protezionistica di un “Albo degli attori e delle attrici”.

 

Che fare?

 

Tuttavia, come suggerisce “Visioni”, la terza parte del libro di Taormina, è necessario reagire, immaginare e realizzare anche in questo ambito un mondo nuovo. Si sviluppano nuove tecnologie, piattaforme e professionalità. Emergono personalità giovani con grande potenziale (anche se spesso i laureati vanno in cerca di fortuna all'estero, Taormina, p. 124). Si inizia a prendere atto della “eccezione” del lavoro nei settori creativi. Da qualche tempo si lavora a uno statuto sociale degli artisti (e in genere dei lavoratori della cultura), sulla scia della Risoluzione del Parlamento europeo sullo Statuto Sociale degli Artisti (7 giugno 2007), e al riconoscimento delle imprese culturali. Si studia il ruolo sociale della cultura, nella creazione di capabilities (Amartya Sen) e della creatività come motore di sviluppo (Richard Florida), nei processi di cittadinanza attiva (Arjun Appaduraj), di riqualificazione dei territori (Francesco Remotti) e di città culturale (Lucio Argano). L'OMS riconosce il valore della cultura per la salute dei cittadini.

Antonio Lampis invoca “una legge organica, comprendente ogni settore e ogni livello istituzionale della politica culturale e nazionale, consci di quanto essa sia del tutto essenziale per il benessere e la salute dei cittadini e per la ripartenza sociale ed economica del Paese” (Lampis, p. 61). Forse è un obiettivo troppo ambizioso, forse rischia di burocratizzare un settore che fa dell'eccezione la sua regola, ma certamente se la politica vuole mettere la cultura al centro di un progetto di sviluppo è necessario partire dalla dignità dei lavoratori. 

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