Epistolario / Pasolini: poesia in forma di lettere

28 Gennaio 2022

“Premiato Pasolinificio Spa”: questo è il titolo di un fortunato articolo di Enzo Golino, apparso nel lontano marzo del 1980 su “La Repubblica” (il 16 per la precisione, benché alcuni lo datino erroneamente a maggio di quell'anno).

Contemporaneamente, a p.278 dell'allora appena uscito Un paese senza, così scriveva Alberto Arbasino: “Pasolini, vivo, veniva commiserato e insultato proprio dai medesimi che lo proclamano Vate da morto... Con le mani sulle palle. Bisogna morire, e possibilmente morire malissimo, per ottenere richiamo, rispetto, status, e addirittura identità e faccia?”.

 

Era, abbiamo detto, il 1980, epoca del primo bilancio su Pasolini – a cinque soli anni dall'assassinio del famoso romanziere-poeta-regista-polemista-studioso.

Oggi, a pochi mesi dal centenario della nascita (cinque marzo 1922), e prima che il Pasolinificio metta il turbo per le cerimonie e le commemorazioni (di un artista che, da vivo, venne processato non si sa nemmeno esattamente quante volte, ventitré, trentatré, forse più e i cui film collezionarono comunque denunce a iosa, il Decameron su tutti), è uscita, a cura di Antonella Giordano e Nico Naldini, una nuova, arricchita edizione delle Lettere, Garzanti, 2021. Essa è stata ottimamente recensita su queste pagine da Marco Antonio Bazzocchi.

Noi qui vogliamo limitarci – al di là delle bibliografie oceaniche nonché tesi di laurea e dottorato ponderosissime – a sottolineare la presenza di alcune belle pagine all'interno di questo corposo epistolario. Che è, dopo tutto, l'epistolario di un poeta.

Sì, compiamo questa operazione rivoluzionaria: leggiamolo, come se Pasolini non fosse un caso giudiziario irrisolto, un mistero d'Italia, un cadavere metaforicamente ancora insepolto, un ossimoro personificato, una sineciosi fossile, un grumo di contraddizioni inestricabili... No, niente di tutto questo: ma solo un poeta. Le lettere di un poeta.

 

Leggiamo dunque queste 1552 pagine come fossero realmente un'opera unitaria, un romanzo epistolare e non, come effettivamente sono, la raccolta casuale di ciò che sopravvive a un vasto processo di dispersione. Magari mettendo in relazione brani di queste lettere a brani delle opere vere e proprie, poetiche e non, individuando certe immagini ossessive che diventeranno le strutture portanti di un mito personale. Il mito di Pasolini, costruito in primo luogo da lui stesso.

 

L'autorizzazione ad associare queste pagine epistolari alla poesia ce la fornisce Pasolini stesso, ad esempio in questa lettera a Luciano Serra del 23 settembre 1942, che così inizia: “Mio carissimo Luciano, ho letto trepidante la tua lettera; per noi anche le righe gettate qui alla rinfusa in una carta da lettera sono poesia, e della più commovente”.

Anche in una missiva (settembre 1948) all'altro grande amico degli anni giovanili, Franco Farolfi, ed è un testo assai significativo perché vi si fa parola esplicita dell'omosessualità, entrata dentro di lui, Pier Paolo, ormai nelle sue abitudini e non più relegata al ruolo dell'Altro, anche in questo testo di disarmata rivelazione, Pasolini afferma risoluto che “la poesia è sempre la mia competenza (per non dirti proprio vocazione o asilo o norma igienica)”.

Nel gennaio 1957, quello che è ormai l'affermato autore di Ragazzi di vita e che sta per dare alle stampe la sua raccolta poetica più celebrata, Le ceneri di Gramsci, così confessa a Livio Garzanti, l'editore che crede in lui, al punto da passargli uno stipendio mensile per finire l'altro romanzo, Una vita violenta: “Il nuovo romanzo è infinitamente più costruito, ma io ogni pagina devo scriverla come si scrive una poesia [corsivo nostro]”.

 

Confessione che non vale solo per il caso specifico, ci pare, ma ha portata più generale e assoluta.

Fino ad arrivare alla stupefacente dichiarazione fatta a Maria Callas, nell'estate del 1969 durante la lavorazione di Medea: “Tu sei come una pietra preziosa che viene violentemente frantumata in mille schegge per poter essere ricostruita in un materiale più duraturo di quello della vita, cioè il materiale della poesia... Io oggi ho colto un attimo del tuo fulgore, e tu avresti voluto darmelo tutto. Ma non è possibile. Ogni giorno un barbaglio, e alla fine si avrà l'intera, intatta luminosità”.

Non in una lettera, ma in un'intervista a Ferdinando Camon della metà degli anni Sessanta, Pasolini ribadiva che per la sua formazione giovanile era stata fondamentale una “fede nella poesia, solida come quarzo”. Fede che non l'aveva mai abbandonato, se così si rivolse a Evgenij Evtušenko nei giorni del 1963 in cui era alla ricerca del volto adatto al protagonista del Vangelo secondo Matteo: “Per Cristo, un <<uomo della strada>> non poteva bastare; alla innocente espressività della natura bisognava aggiungere la luce della ragione. E allora ho pensato ai poeti. E pensando ai poeti ho pensato per primo a te”.

Persino a sancire la validità di un critico letterario o cinematografico il Nostro non esita a far riferimento alla poesia, anzi Poesia.

 

Si vedano in effetti rispettivamente le pagine 1110 e 1282 di questo epistolario: biglietto a Giuseppe De Robertis: “Io credo che Lei sia l'unico dei critici italiani che ha veramente un cuore di poeta”. E l'analogo biglietto a Leo Pestelli: “Caro amico poeta, sono ormai anni che le voglio testimoniare per scritto la mia gratitudine”.

Qui si potrebbe innestare una breve digressione sulle formule di molte di queste missive, le quali, nella loro fissità ricorrente, paiono quasi possedere l'aspetto di regole metriche, di stampi collaudati e fidati, dove riversare, a rapprendersi, una materia altrimenti sfuggente o debordante.

 

Ad esempio l'apparente ricusazione di p.1271 e p.1283: “Caro Fortini, voglio proprio compiere il rito che non compio mai, quello di scrivere due righe di ringraziamento”. “Caro Kezich, è ora che finalmente ti ringrazi, formalmente, per iscritto! Di solito non lo faccio mai”.

Va da sé che parecchie di queste lettere invece sono proprio biglietti di ringraziamento (e anche “raccomandazione”).

Un'altra formula fissa è quella che potremmo chiamare della “scommessa”.

La vediamo in azione innanzitutto con Gianfranco Contini, il primo ad accorgersi dell'esistenza del giovanissimo poeta e il primo a recensire le Poesie a Casarsa sul “Corriere del Ticino” del 24 aprile 1943. A Contini Pasolini scrive (p.809) “Lei forse non si rende conto di quanto la mia scommessa con me si è trasformata in una scommessa con Lei”.

 

Analogamente a Giacinto Spagnoletti (p.824): “La scommessa con me è un po' anche una scommessa con te, da quando mi hai incluso nella tua Antologia”.

Non diversamente vanno le cose con Giuseppe De Robertis (p.936): “Era una specie di muta e un po' patetica scommessa con me stesso quella di essere letto dall'Autore che, assieme a Ungaretti, è stato il mio primo ecc. ecc.”.

 

 

Dove la “scommessa” non è tanto quella metafisica di Pascal (benché nella Religione del mio tempo si dica: “Eppure, Chiesa, ero venuto a te./Pascal e i Canti del Popolo Greco/ tenevo stretti in mano”), quanto piuttosto quella del Desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano (anch'esso nella Religione): “ Ognuno pensa a sé,/a vincere l'angosciosa scommessa,/ a dirsi: “È fatta”, con un ghigno di re”.

Ci sono parecchi “lettori unici” e “soli ideali destinatari” in queste lettere.

All'inizio il ruolo è incarnato, naturalmente, da Contini: “è un pezzo che, nella mia immaginazione, Lei è il mio unico lettore”.

 

Poi però gli si affianca Alfonso Gatto.

“Caro Gatto, ... come a mio unico lettore ho pensato a te”. (p.604).

Successivamente sarà Franco Fortini: “tu esisti in me... tanto da essere l'ideale destinatario di quasi tutto quello che scrivo”.

Ma anche Luciano Anceschi: “in ogni mio discorso critico io non posso fare mai a meno di fare i conti, implicitamente o esplicitamente, con Lei” (p.999).

 

Il primato della poesia (o della Poesia) e l'identificazione della poesia con la realtà e con la vita, a torto rimproverate a Pasolini da molti suoi critici (Sanguineti in testa), a torto perché Pasolini stesso ne faceva apertamente professione, hanno anche in queste pagine la loro celebrazione.

Nella bellissima lettera (febbraio 1970) a Sandro Penna, per esempio: “questa lettera incerta e incompleta, che riguarda più la tua poesia vissuta che la tua poesia scritta. È infatti la prima a contare, per chi, appunto perché educato e come tolto a se stesso da un lungo amore per la poesia, riesce a intravedere ciò che vale al di fuori di ogni valore: la santità del nulla”.

 

Dove paiono convergere i versi conclusivi dell'allora inedito Poeta delle Ceneri: “Le azioni della vita saranno solo comunicate,/ e saranno esse, la poesia, perché, ti ripeto, non c'è altra poesia che l'azione reale” e l'Appunto 84 dell'allora addirittura non ancora esistente Petrolio: “Ci sono persone che non credono in niente fin dalla nascita... Altre persone invece hanno il vizio di credere... Se un bel giorno costoro non credono più… ecco che riscoprono quel nulla che per altri è stato sempre, invece, così naturale”.

Anche nella quasi contemporanea (dicembre 1968) lettera a Giulia Maria Crespi è detto che “ogni nostra vita è un'opera”.

Il nulla lucente dell'azione, vertice e incarnazione della Poesia, è già prefigurato con sufficiente nettezza in queste pagine.

 

Vediamo ora più dappresso alcune immagini ricorrenti, ossessive, che accomunano missive e opera letteraria.

Iniziamo dal tema del Doppio, così importante per Pasolini.

Nella stupenda lettera a Silvana Mauri del 10 febbraio 1950 (per Bazzocchi la più bella dell'intero epistolario) il Nostro afferma: “Posso solo dirti che la vita ambigua... che io conducevo a Casarsa, continuerò a condurla qui a Roma. E se pensi all'etimologia di ambiguo vedrai che non può essere che ambiguo uno che viva una doppia esistenza”.

In una lettera di tre anni più tardi (1953) a Vittorio Sereni il tema è lo stesso: “il mio caso – ti parlo clinicamente – di fissazione narcissica: che mi faceva sempre vivere legato a quello che un'antica religione chiama «il Doppio»”.

 

Non possono non venire in mente, a tal proposito, i versi friulani della Domenica uliva, nella Nuova gioventù: “Nat par essi Un,/ i sarài Dopli,/ mut e nut ma Dopli,/ forèst a dut ma Dopli” (“Nato per essere Uno, io sarò Doppio, muto e nudo ma Doppio, straniero a tutto ma Doppio”).

E anche, per certi aspetti, la chiusa del primo dei Comunicati all'Ansa in Trasumanar e organizzar: “Dopo la mia morte, perciò, non si sentirà la mia mancanza: l'ambiguità importa fin che è vivo l'Ambiguo”.

E come non pensare poi allo sdoppiamento del protagonista di Petrolio, Carlo di Polis e Carlo di Tetis (o Carlo e Karl)!

E come non ricordare quel passo della Lettera aperta a Italo Calvino del 1974: “Ma io, come il dottor Hyde [Jekyll naturalmente], ho un'altra vita”.

 

Passiamo al tema, quanto mai leopardiano, del “deserto”.

“Quando m'interno nel deserto inesplorabile, che è veramente infinità, che è veramente nulla, e si apre a dismisura dentro di me, e mi atterrisce, io non sono più nulla” recita una lettera a Serra del novembre 1945.

Irresistibile è il richiamo al “deserto tutto/esplorato del mio cuore” nelle Primule dell'Usignolo della Chiesa cattolica.

E poi, subito dopo, al “deserto assordato/dal vento” del Frammento alla morte nella Religione del mio tempo.

Fino al “diletto deserto”, benché “freddo e mortale” dei Versi del testamento in Trasumanar e organizzar, passando per Teorema (il romanzo), che non a caso ha in esergo la seguente citazione dall'Esodo: “Dio fece quindi piegare il popolo/ per la via del deserto”.

 

Se c'è un aspetto su cui queste lettere insistono in modo davvero ossessivo è quello del “lavoro”.

Centinaia di lettere si aprono con le scuse di Pasolini ai suoi corrispondenti: risponde in ritardo perché oberato di lavoro, autentico ergastolano e forzato della sua stessa vocazione. In una lettera a Cesare Segre dichiara la propria “attività ossessa di facitore di troppe cose”.

In varie lettere al cugino Nico Naldini lo esorta a lavorare, lavorare, lavorare.

Il lavoro, per Pasolini come per Baudelaire, è una “droga” ma anche una “redenzione”, una “salvezza”.

Eppure, sempre a Nico Naldini, dice apertamente che questa frenetica attività non gli toglie certo il “divertimento”.

Cade quindi quanto mai opportuna la citazione dall'ultima delle poesie mondane da Poesia in forma di rosa: “Lavoro tutto il giorno come un monaco/ e la notte in giro, come un gattaccio/in cerca d'amore...”.

 

Splendide sono quelle missive, specie giovanili ma non solo, dove vengono descritti i fiumi, il Tagliamento, il Livenza, dove il poeta lancia i suoi gesti nella sconfinata concavità del paesaggio, tra i ciottoli abbaglianti, bianchi come scheletri.

O dove contempla, in compagnia di Sandro Penna, le ampie curve del Tevere, che poi trasmigreranno nelle cadenzate volute dell'incipit delle Ceneri di Gramsci (poemetto eponimo).

 

Altre volte la poesia può balenare anche in una sola riga, come questa, da una lettera a Leonetti del febbraio 1954: “è il dopocena, lugubre, a Rebibbia abbaiano i cani”.

 

Dal nostro punto di vista ciò che più importa dello scambio polemico con Cesare Segre a proposito di Dante e il discorso indiretto libero, non è la ragione o il torto dei due contendenti, quanto piuttosto la dichiarazione di Pasolini secondo la quale, per lui, il canto più bello della Divina Commedia era il quinto del Purgatorio, quello di Buonconte da Montefeltro, citato del resto anche in esergo alla sceneggiatura di Accattone.

Di quel canto due sono i versi che non riusciamo a cancellarci dalla memoria: “caddi, e rimase la mia carne sola”; “Lo corpo mio gelato in su la foce”.

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