Pensare è curare

7 Marzo 2024

Siamo sommersi dalle domande sul nostro destino, nella tecnosfera in cui siamo precipitati con le nostre stesse mani, e l’ansia non ci aiuta a cercare e, magari, trovare qualche risposta. Che cosa accade se la tecnologia digitale, la macchina, pervasiva com’è, domina la scena delle nostre vite senza cura e senza educazione? E quali forme innovative di cura e educazione può generare la tecnosfera, dal momento che “l’implosione barbara non è affatto esclusa”, ma allo stesso tempo “lì dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva”? Il possibile di homo sapiens sapiens non ha mai affrontato, forse, una sfida simile. E allora chiediamoci: che cosa può un corpo quando non basta a sé stesso, perché è il corpo di un essere che con sé stesso non coincide mai? Questo, tra l’altro, è l’essere umano, l’irriducibile ad ogni determinismo tecnico, colei o colui che risale dal consueto, nonostante la sua prevalente propensione alla consuetudine, per afferrare ancora una volta l’inedito. Quella non coincidenza è il negativo di un positivo, un possibile nel vincolo. Da essa l’essere umano muove per creare mondi paralleli che innesta su sé stesso. Fino a fondersi e a diventare quel che egli stesso crea facendosene reinventare. Per questo semplice ed essenziale motivo che descrive la storia stessa di homo sapiens – animale tecnologico come lo definisce Francesco Novara e come lo ritiene Bernard Stiegler anche in questo suo libro che appare in italiano [Pensare, curare. Riflessioni sul pensiero nell’epoca della post-verità, Meltemi, 2024] –, comprenderci, fatti come siamo di carne e tecnica, vuol dire ascoltare Stiegler e dimenticare, finalmente, Heidegger.

In nessuna epoca, per quello che ne sappiamo, le possibilità di controllo sui nostri comportamenti, sulle nostre scelte, persino sui nostri atteggiamenti e i nostri orientamenti di valore, sono state così pervasive e inafferrabili, concentrate e capillari. Eppure, come scrive Massimo Cacciari [in Metafisica concreta, Adelphi, Milano 2023; p. 378]: “L’universo dei saperi determinati nasce da questo restless brain, dall’umano cervello che non trova mai riposo”. Certo, nessuno sa come andrà effettivamente a finire per quello che riguarda la nostra libertà e la manifestazione delle potenzialità espressive dell’umano, ma come sostiene Cacciari, noi siamo capaci di interrogazione intorno alla irriducibilità delle cose, di qualunque cosa, e soprattutto alla irriducibilità di noi stessi che nel gioco/pòlemos costituiamo il nostro esserci e la nostra paradossale stra-ordinarietà. Siamo eccedenti, l’impossibilità del possibile e non l’ente a disposizione. Siamo l’agire che produce l’oltre, che indica l’aperto verso la molteplicità delle forme, dove è il conflitto estetico con gli altri e il mondo a costituire la base di una generatività irriducibile. Il ricorso a Hugo von Hofmannstahl e al suo Il folle e la morte che Cacciari opera è di una eloquenza inaudita: “Che miracolo sono queste vite / che l’impensabile vogliono pensare, / che ciò che mai fu scritto pure leggono, / che ciò che è più confuso hanno nel pugno / e nelle tenebre trovano la via”. “Non vi è dubbio, infatti, che ciò avvenga – in ogni prassi, e perciò anche in quella che si esprime nel pensare, il soggetto non può non modificare sé stesso nello stesso tempo in cui trasforma il proprio oggetto”, scrive ancora Cacciari. Se la materia è predisposta al logos, come di fatto è, qualsiasi separazione tra fisico e ‘spirituale’ è un senso filosofico e scientifico. Corre l’obbligo, perciò, di assumere una prospettiva anti-riduzionista in campo biologico, fisico e nello studio del linguaggio e del significato, scegliendo questa prospettiva come fattore costitutivo di un modo di pensarci che ci interroghi in quanto viventi nella nostra reale complessità, ivi compresa la nostra disposizione a pensare il possibile e trascenderci. 

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La sola espressione: “un presente che non avviene”, risulta inquietante e destabilizzante. Come può qualcosa che è presente non avvenire? Eppure, combinata come Stiegler la combina con il concetto di “assenza di epoca”, quella espressione finisce per produrre una sintesi che invoca una interpretazione totale della storia della verità e la necessità di “prendersi cura della follia che deriva da una tale assenza, che significa prima di tutto: imparare qualcosa da questa follia, nelle forme più diverse” [Stiegler, p. 18]. Nelle intenzioni dell’autore questo libro doveva essere il primo volume di un’opera, e il sottotitolo nell’edizione originale è: L’immense régression. In questione è il pensiero e la nostra capacità di pensare come condizione stessa del prendersi cura. Il libro di Stiegler è pervaso da un filo rosso di ansia generativa che deriva soprattutto dalla tensione ad aprire un varco per fare della nostra irriducibilità “la nostra esperienza veritativa del malessere provocato dalla riduzione assoluta di ogni verità a un calcolo, che porta all’era post-veridica, ovvero al mal-essere che la domina nell’assenza di epoca del non-sapere assoluto” [pp. 345-346]. Fare questa esperienza, non è sottomettervisi: è proprio dirne la verità ovvero performarne la quasi-causa. È fare l’esperienza che è sempre la verità, ma in questo caso vuol dire sostenere questa prova partendo dall’era post-veridica in quanto tale. Questo significa che bisogna ripensare e ricurare la ritenzione terziaria con la relativa crisi di memoria e la sua farmacologia da cima a fondo e dal punto di vista della costituzione di esorganismi complessi superiori. Questo è quello che secondo Stiegler può significare il pensare nella nostra epoca attuale, attività di cui la nostra specie è l’unica responsabile.  

Come è noto, secondo Stiegler, la ritenzione terziaria riguarda il modo in cui si creano le facoltà del conoscere come l’intuizione, l’intelletto, l’immaginazione. La farmacologia considera sia la dimensione patogena che quella curativa insita in ogni farmaco. Gli esorganismi che noi stessi concorriamo a formare sono quelli che ci precedono e ci formano. L’importanza di ognuno di questi livelli sta nell’evidenza che noi, “ultimi uomini”, siamo messi in questione dalla richiesta di uno sforzo sovrumano oltre la negazione della crisi del presente, per tornare a pensare e a prenderci cura di noi e del mondo. In questo sta il problema dell’Antropocene, tempo in cui la biosfera muta divenendo tecnosfera, – che Felix Guattari chiama meccanosfera –, e causando la “cretinizzazione transumanista” in cui regna la “proletarizzazione totale, ovvero la denoetizzazione generalizzata”, cioè la crisi della capacità umana di cercare e trovare il senso e le relazioni tra mondo fisico e mente umana. Se pensare è interrogarsi, e prendersi cura è relazionarsi in una cornice di senso, sono proprio queste dimensioni ad essere in crisi e a pregiudicare il rapporto tra divenire e avvenire; ma sono allo stesso tempo le dinamiche di questa crisi a contenere le possibilità del suo superamento, seppur richiedendo uno sforzo di trascendenza per apprendere dalla follia del presente [p.18]. Ci muoviamo oscillando tra due poli: la progressione (elevazione) e la regressione (caduta), tra malattia e cura, in quella che Gilbert Simondon chiama diade indefinita. Come sappiamo dall’esteso e articolato lavoro di Stiegler, il filo conduttore della sua ricerca può essere riconosciuto nel celebre verso di Hölderlin: “Ma lì dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva”. “L’uomo – l’anima noetica – si mantiene sempre tra la possibilità e l’impossibilità di pensare (penser), ossia anche e prima di tutto tra la possibilità e l’impossibilità di curare (panser)”, scrive Stiegler [p. 21]. Oggi, nell’Antropocene, siamo tutti posti di fronte a questa condizione, tutti quanti standoci male, in un’esperienza provata come post-verità da chiunque e come miscomprensione che l’esserci ha, non del suo essere o del suo divenire, ma del suo avvenire. Eppure, solo il pharmacon stesso può porre rimedio al male che è. Viviamo un tempo in cui siamo transitati dalla biosfera alla tecnosfera e il male che viviamo risulta da una funzione di questo sistema che non può funzionare se non in rapporto a un’altra funzione che è la sua controtendenza sfasata. È proprio quello sfasamento da cui emerge ogni individuazione psichica e collettiva, ovvero noetica e tecnica allo stesso tempo, che può nascere il pensiero curante e possiamo risalire la china con l’arte di vivere. Si tratta di curare affinché nel divenire avvenga un avvenire che inscriva, forse, una biforcazione in grado di risalire la china e, come dice Stiegler, di “generare il rifiorire di certi roseti”. Certo rimane la domanda: ma l’Antropocene guarirà dal cancro della post-verità o meglio dell’era della post-verità, generando dall’interno le sue possibilità? Nella consapevolezza che questa domanda può aprire un sapere, rimasto taciuto e impensato, da cui può scaturire una farmacologia positiva attiva. Una condizione essenziale perché ciò accada è andare oltre la confusione tra avvenire e divenire, non consegnandosi a un’idea della tecnica come destino e andando, quindi, oltre le questioni impensate e trascurate da Heidegger, oltre i suoi silenzi e le sue complici collusioni. Malgrado la crisi etica generalizzata, si tratta di cercare le idee per pensare e prendersi cura, ancora, assumendo che il nichilismo attivo non è ciò che sfugge al nichilismo passivo, ma ciò che lo oltrepassa. Perciò, come dice Stiegler, la gioia creatrice può provenire solo dalla malinconia. 

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Proprio nella prospettiva di un orientamento generativo e cercando di fare i conti con questioni molto affini a quelle poste da Bernard Stiegler si muove l’ultimo lavoro di Chiara Giaccardi e Mauro Magatti [Generare libertà, Il Mulino, Bologna 2024]. Accrescere la vita senza distruggere il mondo, come recita il sottotitolo del libro, si propone come una ricerca della quadratura del cerchio. Quella ricerca assume le caratteristiche di una sfida epistemologica e allo stesso tempo operativa, nel lavoro dei due sociologi. L’assunto di base del libro è il riconoscimento della dimensione eminentemente relazionale di ogni ente e di ogni fenomeno del sistema vivente. Non solo tutto ciò che vive è in relazione ma è necessario riconoscere che non esiste forma di vita che non nasca dalla relazione. La dimensione antecedente e costitutiva della relazione rappresenta per molti aspetti il luogo di tutti i problemi e di tutte le possibilità, come ha sempre sostenuto Luigi Pagliarani. A lungo la relazione non solo non è stata considerata, ma è stata ritenuta un accessorio degli enti, una opzione possibile. Riconosciamo sempre più evidentemente che la relazione non è una scelta, e questo libro pone al centro dell’analisi quel riconoscimento, proponendo la relazione come proprietà costitutiva degli stessi esseri viventi e del loro rapporto con l’ambiente e la vivibilità. Possiamo avere almeno due accezioni della relazione. Una è quella che ce la fa concepire come un’interazione fra due soggetti che possono scegliere o meno di essere in relazione. Oggi, grazie a fondamentali scoperte scientifiche assistiamo al rovesciamento del senso del processo: la relazione precede l’individuazione ed è costitutiva della soggettività, in ragione della base comune di carattere corporeo e delle dotazioni neurofisiologiche di cui disponiamo. Questo fa di noi non degli individui, ma dei condividui secondo il neologismo di Francesco Remotti. 

Il timbro distintivo del contributo di Magatti e Giaccardi sta nel chiaro intento etico che pone la responsabilità dei modi di vivere la relazionalità a fattore distintivo delle possibilità umane. L’attenzione degli autori per la generatività e il senso del possibile caratterizzano anche questo loro lavoro. L’umanità, quindi, è di fronte alla scelta relativa ai modi di abitare la dimensione relazionale del vivente. Se la società è diventata una macchina desiderante, senza per questo aver superato le necessità e i bisogni almeno in parti molto rilevanti dei gruppi umani che vivono sulla Terra, la questione diventa come sviluppare una capacità di vivibilità sostenibile che sia in grado di governare la propria espressione e soddisfazione dei desideri. Si tratta di cercare le vie per prendersi cura della riproduzione del mondo. Una delle condizioni che gli autori individuano riguarda la ricerca di un’originale elaborazione dell’opposizione che attraversa le principali questioni contemporanee: tra la pervasività della tecnica e un liberismo senza limiti da un lato, e la regressione nella chiusura nazionalistica e securitaria dall’altro. La sfida principale verso la quale il libro di Giaccardi e Magatti si rivolge riguarda la ricerca delle vie per transitare da forme di individualismo e di chiusura indifferente in sé stessi, verso il riconoscimento e la pratica del valore generativo della relazione. 

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Dal punto di vista epistemologico gli orientamenti che accomunano queste ricerche costituiscono una delle vie probabilmente più proficue per cercare di comprendere il presente e di riconoscere delle possibili vie d’uscita. Quella via sembra assumere le caratteristiche del contrappunto che, come spiega bene Pierre Boulez, rappresenta precisamente una combinazione fra una linea data e un’altra che si crea a partire da essa. Naturalmente, proprio a proposito della relazione non si può non porsi il problema che la tecnosfera incide principalmente nella dimensione relazionale, confermando i vincoli emergenti e il fatto che a quello stesso livello possono emergere le possibilità. L’attenzione va perciò posta alle condizioni per “aver cura a partire da ciò di cui ancora non abbiamo cura” [Stiegler, p. 51]. Secondo Stiegler in questa fase terminale dell’Antropocene bisogna reinterpretare il superuomo [l’Übermensch di Nietzsche] come medicatore, perché si prenda cura con estrema urgenza di un’immensa terapia che l’autore definisce assolutamente improbabile e pur tuttavia necessaria, attraverso la poiésis alla ricerca di forme inedite di esosomatizzazione. Il pericolo principale non è nello sviluppo insolito delle energie e nel dominio della tecnica, ma è anzitutto nel rifiuto di vedere il cambiamento d’epoca e di considerare il senso di questa svolta. 

Viviamo all’ultimo stadio del nichilismo compiuto, quello dell’ultimo uomo, il cui problema si è concretizzato con Robert Musil come questione delle medie e delle probabilità, e il cui attuale dominio computazionale è la realizzazione funzionale, attraverso il capitalismo cognitivo, di una condizione che rischia di avvicinarsi alla costituzione cibernetica di “una società fascista di quasi formiche” [p. 69].

Il percorso analitico di Stiegler tenta tenacemente e faticosamente la via per cercare di curare il terribile, come l’autore lo definisce, nel tentativo di fare emergere una biforcazione positiva che sia foriera di una rinnovata differenza noetica, anche se l’autore non si stanca di definire improbabile questa via d’uscita e di ribadire con Guattari che l’implosione barbara non è affatto esclusa. Ciò anche quando si pone il tema della nuova questione del male e delle forme che il male assume nella non epoca, o quando teorizza la tecnosfera come non sapere assoluto, o ancora quando si pone l’obiettivo, nel capitolo intitolato ortogenesi e selezione, di curare la stupidità nel XXI secolo. Nell’epoca della qualità senza uomini e degli uomini senza qualità, sembra proprio che Stiegler investa tutte le sue forze per estrarre da una condizione di disperazione una differenza noetica che risponda all’urgenza di rendere possibile un avvenire atteso da tutti e ovunque nel mondo, perché fondato sul superamento della degenerazione. Il principio ispiratore è che l’umanità a venire non esiste ancora e la sua ricerca non si esaurisce né nell’universalità né nell’esattezza, ma si localizza in una profonda riconsiderazione dell’esperienza, senza mai dimenticare l’improbabilità dell’operazione, nella nostra epoca.   

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