Tuffarsi / Pietro Del Soldà. Non solo di cose d'amore

7 Settembre 2018

Paradosso. Dal greco para ten doxan: contro l’opinione corrente.

Questa mi pare la parola chiave di questo bel libro di Pietro Del Soldà. Il paradosso, la situazione paradossale. Ho contato una decina di occorrenze del termine e tutte in punti rilevanti. Come se ad esso fosse affidato il compito di scandire le fasi salienti del testo. Fino all’aperta affermazione di p. 169: “ancora una volta un paradosso cela la verità”.

Mettendomi sulle tracce di questa parola filosofica quant’altre mai, non ho fatto altro che seguire il metodo dell’autore stesso. Egli infatti usa un buon numero di dialoghi platonici per cercare di capire l’attualità più stringente. O meglio: si serve della figura di Socrate tratteggiata da Platone per comprendere la contemporaneità. Ma con l’avvertenza che spesso il testo platonico non va inteso letteralmente e che la lettura non ha da essere lineare. Capita in effetti che le opere platoniche non concludano. O che la loro fine contraddica l’inizio. Socrate non ci comunica se la virtù sia o meno insegnabile (Protagora) e non riesce a specificare che s’intenda esattamente per coraggio (Lachete). Comunque il suo dettato e quello dei suoi interlocutori, Gorgia, Ippocrate, Adimanto, Glaucone e molti altri, si mescola nel libro alle conclusioni dello psicoanalista argentino Benasayag, alle analisi dell’antropologo Le Breton, o a quelle del politologo Mueller e agli interventi di altri nomi noti e meno noti di studiosi dell’oggi quali Bauman, Stiglitz, Fukuyama e Pankaj Mishra, in un singolare e suggestivo concerto di voci, dove, per esempio, quella del controverso leader ungherese Orbàn si può a ragione sovrapporre a quella antica di Callicle, suo precursore in fatto di disprezzo antifilosofico e attivismo demagogico decisionista.

 

 

Il volume di Del Soldà segue un percorso ascendente tripartito, dall’io, alla città, alla felicità generale. Ma noi, come detto, seguiamo le vicende testuali della nostra preda, il paradosso.

Il giovane Ippocrate, che vorrebbe seguire il sofista Protagora senza coincidere però interamente con il suo insegnamento, così un po’ per moda e un po’ per interesse, incarna una condizione paradossale tipica dell’oggi: quella di chi si vuole distinguere dagli altri, ma essendo egoista egocentrico e narcisista estremo, come tutti, finisce proprio per omologarsi esattamente agli altri.

Un altro paradosso tipico odierno è quello della solitudine: com’è che siamo così soli se disponiamo di tantissime occasioni d’incontro e se i cosiddetti social media ci offrono amicizia e contatti a profusione?

È che la nostra comunità è costruita su uno stato di solitudine originaria, come quella del mito che Protagora racconta a Socrate: quegli uomini arcaici officiavano e pregavano in totale isolamento. Se si sono uniti l’hanno fatto solo con lo scopo utilitaristico di difendersi dalle belve. Non si sono veramente uniti, proprio come noi. Finché dura la separazione da se stessi non si può dare nemmeno vera intersoggettività. 

Ma per unirci a noi stessi, per capire realmente chi siamo noi, noi abbiamo assoluto bisogno degli altri, e non a fini utilitaristici ma espressamente conoscitivi. “Se un occhio vuole vedere se stesso, deve guardare in un altro occhio e in quella parte in cui nasce la forza visiva”, questo sostiene Socrate nell’Alcibiade maggiore. La felicità è dunque anch’essa una condizione paradossale: coincide con me, ma mi spinge fuori da me. Senza l’altro non esiste. E questo è un paradosso positivo, mentre i due precedenti descrivevano condizioni negative.

 

Allo stesso modo altamente positivo è il paradosso del dialogo, che è un’altra parola chiave del volume.

Il dialogo è l’incontro di logoi diversi. Discorsi antitetici, argomentazioni che si elidono, collidono. Si fonda sulla diversità. Sul contrasto, anche aspro, anche serrato. La vita intera vi è messa in discussione, e però ricomposta nel suo senso. Splendido paradosso: solo se si viene confutati, si arriva al significato, e , qualora non vi si arrivi, è ugualmente e altamente significativa la tensione verso di esso.

Anche la democrazia, la nostra come quella di cui discute Socrate nella Repubblica, è minata da un paradosso. Essa, che ha nell’uguaglianza il suo principio costitutivo, genera disuguaglianza. E questa finisce per travolgerla. Socrate, per chiarire il paradosso democratico, chiama in causa la ricchezza. Il singolo cittadino soccombe al desiderio di ricchezza. Ma anche la città, la polis, ne è intaccata, si divide in due, le zone di chi ha e quelle di chi non ha. Socrate prefigura in qualche modo Zygmunt Bauman, profeta della “solitudine del cittadino globale”: solo una minoranza della nostra polis realizza la condizione prevista dal modello democratico, solo un’élite. Gli altri ne sono drammaticamente esclusi. Sono i “lasciati indietro”, il cui risentimento, o “rabbia” secondo Pankaj Mishra, nutre le ambizioni politiche dei populisti.

 

Solo la filosofia ci può salvare. Ma nulla è più paradossale della filosofia: in essa soggetto e oggetto coincidono, perché Socrate non indaga altri che se stesso; e tutti in se stesso; e se stesso riflesso in tutti; e la sua ricerca, che non è che interrogazione incessante, è il contenuto ultimo della filosofia.

Socrate è l’uomo legato alla caverna, dove il mondo esterno proietta pallide ombre. Ma è anche l’uomo che esce dalla caverna, per poi farvi ritorno, per comunicare agli altri notizie del mondo reale, dove non sono solo ombre ma corpi veri immersi nella luce del sole.

Egli va su, verso l’uscita della caverna, ma poi torna giù, per condividere il suo sapere. Estremo paradosso, dal sapore eracliteo, perché, come si sa “la via in giù e la via in su sono la medesima via”.

Il paradosso ulteriore, definitivo, della filosofia è quello legato all’unione di logos e eros. E quest’ultima è senz’altro la parola decisiva, del libro e di tutto il resto.

 

In Socrate eros e logos, passionalità e razionalità, coincidono. Anzi sono la stessa cosa. Eros non è l’amore come lo intendiamo noi, almeno da Benjamin Constant in poi. Non è quella particolare forma di “egoismo a due”, di cui discorreva Musil. È tensione verso il mondo. Verso gli altri. Con cui dialoghiamo. Dialoghiamo con loro perché li amiamo. Quando parla di dialogo Del Soldà usa il verbo “tuffarsi”. Ci dobbiamo tuffare nel dialogo, dice. A indicare che il dialogo è anche avventura, rischio, pericolo di perdersi. Ma è pure, e soprattutto, un perdersi, come voleva Diotima la misteriosa sacerdotessa dell’amore, nel “grande mare del bello”.

Ecco perché in copertina è riprodotta l’immagine del tuffatore di Paestum, simbolo del libero slancio verso l’abisso della totalità, dialogante e amorosa.

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