La scultura dalla preistoria ad oggi / Plasmare il Mondo

27 Novembre 2021

La storia dell’arte è finita? In un saggio pubblicato nel 1989, Hans Belting rileva la necessità di emancipare lo studio dell’arte dai modelli di stampo storiografico e stilistico, divenuti obsoleti. Gli sviluppi dell’arte moderna e contemporanea, la globalizzazione e l’emergere di esperienze artistiche precedentemente marginalizzate, impongono una revisione di questi modelli. Secondo Belting, la storia dell’arte dovrebbe aprirsi a una molteplicità di narrazioni in grado di aderire alla particolarità di ogni opera d’arte, indagando “sul mezzo artistico, sull’uomo storico e le sue immagini del mondo” (La fine della storia dell'arte o la libertà dell'arte, Einaudi, 1989, p. 51). Attraverso gli studi dello storico dell’arte tedesco si fa strada una storia antropologica delle immagini, che possono vivere in un’opera d’arte ma non necessariamente coincidere con essa (Antropologia delle immagini, Carocci, 2018, p. 10).

 

 

Plasmare il mondo. La scultura dalla preistoria ad oggi (Einaudi, 2021) è una di queste narrazioni alternative a quella storiografica, nella quale si avverte l’eco dell’approccio antropologico di Belting. È una lunga conversazione tra l’artista Antony Gormley e il critico d’arte Martin Gayford “per osservare la storia dell’arte non come accade abitualmente da una certa distanza, attraverso documenti e mostre, ma dal punto di vista di qualcuno [in questo caso Gormley] che la sta facendo davvero” (p. 7). 

Per l’artista britannico la scultura è prima di tutto un oggetto fisico che ha massa, peso e un rapporto molto stretto con il corpo umano, soggetto privilegiato delle sue opere. Le impronte ritrovate nelle grotte di Blombos gli suggeriscono che: “è difficile non pensare che i primi segni consistevano nel trasferimento diretto del corpo sul muro come sagoma o come impronta diretta” (p. 23).

 

Da qui una sua interpretazione del famoso racconto di Gaio Plinio Secondo sull’origine mitica della scultura, interpretazione che non trova riscontro nella letteratura artistica. L’approccio adottato dagli autori del libro presuppone che sia l’opera d’arte (o l’immagine) a parlare e non il testo al posto suo. Come scrive William John Thomas Mitchell (autore di studi che Belting riprende e rinnova): “Ciò che vogliono le immagini, dunque, non è essere interpretate, decodificate […] Ciò che le immagini vogliono, allora, in definitiva, è semplicemente che si chieda loro cosa vogliono, con la consapevolezza che la risposta potrebbe essere: assolutamente nulla” (Pictorial Turn, Saggi di cultura visuale, Raffaello Cortina Editore, 2017, p. 124). Gayford dichiara infatti di rinunciare al documento per osservare la storia dell’arte dal punto di vista di chi fa arte, ma se chi la fa (Gormley) cita il documento per dare sostegno al suo fare?

 

Come interpretare il passo di Plinio? “Butade Sicionio, vasaio, per primo trovò l’arte di foggiare ritratti in argilla, e questo a Corinto, per merito della figlia che, presa d’amore per un giovane, dovendo quello andare via, tratteggiò i contorni della sua ombra, proiettata sulla parete dal lume di una lanterna; su queste linee il padre impresse l'argilla riproducendone il volto” (Naturalis Historia, XXXV, 151-152). Da un confronto con un passo precedente si evince che Plinio porta l’attenzione sulla linea di contorno, che dà origine sia alla scultura che alla pittura: “La questione degli inizi della pittura è molto incerta […] I Greci dicono, alcuni che fu trovata a Sicione, altri a Corinto, tutti comunque concordano che nacque dall’uso di tracciare con delle linee il contorno dell’ombra umana” (XXXV, 15).

 

Nella sua Storia della scultura pubblicata nel 1813, Leopoldo Cicognara scrive così delle sue origini: “Sia pur qual si voglia l'origine della Scultura, o vogliam dire dell’arte del disegno, giacché quasi gli stessi racconti si fanno per rimontare sulle tracce della prima pittura come della prima opera di rilievo”. Dove l'autore dichiaratamente riprende il racconto di Plinio sull’origine mitica della scultura. Ad emergere dal racconto di Plinio non è l’impronta del corpo ma la linea di contorno, il disegno, padre delle tre arti figurative.

 

È un’idea che si formalizza con la nascita dell’Accademia delle Arti del Disegno nel 1562/63 a Firenze, per opera di Cosimo I, in rapporto alla sistematizzazione della pratica delle arti visive in una teoria per il loro insegnamento, nella quale riecheggiano le parole di Giorgio Vasari che nelle Vite de' più celebri pittori, scultori e architettori assegna al disegno la paternità delle tre arti maggiori, esponendo una teoria della scultura come rilievo che giunge indenne al secolo diciannovesimo. Il trattato di Adolf von Hildebrand pubblicato nel 1893 costituisce la summa e la vulgata di questa concezione della scultura, secondo la quale anche quella a tutto tondo, si risolve in una impressione di superficie (Il problema della Forma nell'arte figurativa, Aestetica, 2001, p. 73). Questo riferimento ad una origine grafica della scultura, pur se messo in discussione da altri studi (Carl Einstein, Scultura negra, Abscondita, Milano 2009, pp. 15-18), ricorre nella trattatistica che accompagna la curiosità degli estimatori e al tempo stesso fornisce una teoria per il suo insegnamento. Heinrich Wolfflin lo sottolinea, sia in riferimento alla visione unilaterale per piani paralleli della scultura greco-romana e rinascimentale, sia in riferimento a quella pluridirezionale che caratterizza lo stile maturo di Michelangelo.  

 

Antony Gormley, Critical mass II, 1995, realizzazione di un calco e veduta dell’installazione alla Kunsthaus di Bregenz (Austria).

 

Per farla breve, ciò che la letteratura artistica mette in evidenza è il rapporto che la linea di contorno, tracciata dalla fanciulla di Corinto, intrattiene con l’idea, non con la materia, la massa e il volume, come sostiene Gormley, che adotta una narrazione alternativa a quella che abbiamo qui ricordato. Passando da un discorso sull’arte, strutturato come enciclopedia dei materiali (Plinio) a un discorso basato su uno schema evolutivo e parabolico (Vasari), il rapporto del disegno con l’idea diventa sempre più chiaro. A questo riguardo Vasari è esplicito: il disegno che la mano del pittore, dello scultore o dell'architetto traccia su una superficie non è che “apparente espressione, e dichiarazione del concetto che si ha nell’animo, e di quello, che altri si è nella mente immaginato, e fabricato nell’Idea” (Della Pittura, in Vite, Einaudi, Torino I, XV, p. 43).

 

 

Sulla traccia di questa concezione del disegno, che Vasari esplicita nella seconda edizione delle Vite, Federico Zuccari, nel suo libro L'Idea de' pittori, scultori ed architetti pubblicato nel 1607, distingue tra disegno esterno e disegno interno, assegnando a quest'ultimo uno statuto gnoseologico. Si potrebbe procedere citando anche la teoria estetica di Giovanni Pietro Bellori (L’Idea del Pittore, dello scultore e dell’Architetto, in Le vite de' pittori, scultori et architetti moderni, Roma 1672, pp. 3-13), che troverà grande risonanza, ma credo sia stata fatta sufficiente chiarezza sulla ricezione del passo di Plinio nella letteratura artistica. È lungo questa strada che la scultura consolida il suo rapporto con l’idea, declinandolo sia nelle sue forme storiche, sia in quelle contemporanee. Non si potrebbe altrimenti comprendere l’opera Socle du monde realizzata da Piero Manzoni nel 1961, che consiste nell’idea di trasformare il globo terrestre in un’opera d’arte, non nella massa di ferro e bronzo di cui è composta.

 

Piero Manzoni, Socle du monde, 1961, HEART - Herning Museum of Contemporary Art (Danimarca).

 

Da questo approccio interpretativo Gormley e Gayford prendono le distanze interrogando direttamente le opere. Allo scopo di far emergere il concetto di “impronta diretta”, anziché quello di disegno interno, Gormley scollega il passo di Plinio dalla letteratura artistica per associarlo alle tecniche di produzione da lui utilizzate, come nel caso dei calchi per la formatura e la stampa delle figure che compongono Critical mass II. Con lo stesso metodo d’indagine diretta, l’opera di Michelangelo viene accostata a quella di Richard Serra per la massa, il peso e il volume che soverchiano lo spettatore, influenzando la sua percezione dello spazio (p. 16). Plasmare il mondo è un libro nel quale gli autori discorrono sull’arte sperimentando nuove forme narrative.

 

 

Richard Serra, Backdoor Pipeline, 2010, Gagosian, Londra / Michelangelo Buonarroti, Pietà Bandini, 1547-55, Museo dell’Opera del Duomo, Firenze.

 

Nell’edizione tedesca, il saggio di Belting reca il titolo Das Ende der Kunstgeschichte? – (La) Fine della Storia dell’Arte? Il punto di domanda lascia aperta la questione, permettendo a Gormley e Gayford di sperimentare liberamente narrazioni alternative. Come si diceva, l’idea di una fine della storia dell'arte sostituita da una storia antropologica delle immagini si fa strada grazie agli studi di Belting, che ipotizza un legame tra mezzo, immagine e corpo: “La questione dell’immagine e del mezzo riporta al corpo, che è stato non solo il luogo dell’immagine ma, anche attraverso la sua apparenza, un trasmittente figurativo” (Antropologia delle immagini, p. 47). Il libro di Gormley e Gayford per i quali la scultura ha un rapporto molto stretto con il corpo umano sembra collocarsi in questo orizzonte teorico.

 

 

Se da un lato il saggio di Belting teorizza la possibilità di articolare narrazioni alternative, contribuendo ad orientare la storia dell’arte verso una storia della produzione e della ricezione delle immagini in un determinato contesto culturale e sociale, e se Georges Didi-Huberman, ogni volta che si deve confrontare con un nuovo genere di immagine, si domanda “quale potrà essere la forma di scrittura il genere letterario capace di rappresentare la specificità visuale, il modo di apparire e il suo stile particolare”, dall’altra si assiste al passaggio verso una produzione letteraria che entra in consonanza con chi legge, trascurando il metodo con cui manipolare una fonte. L’emergere di forme narrative diverse tra loro confonde e disorienta. Siamo in una fase di transizione che porterà a qualcosa di nuovo.

Sfoglio il volume seguendo il flusso della conversazione e delle immagini.

 

Antony Gormley, Untitled (For Francis), 1986, Tate, Londra.

 

Avendo come riferimenti il corpo, la materia e l’ambiente, il libro racconta del rapporto tra il corpo e l’architettura, tra l’uomo e la scoperta del bronzo, tra il corpo umano e il blocco di pietra scolpito, tra la cavità e la materia nella quale è scavata, tra il modellare con l’argilla e le sensazioni corporee, tra la materia e la luce che riflette rifrange o diffonde, o che la forma scultorea e architettonica “scolpisce”, tra il collezionare e la consistenza fisica degli oggetti collocati in uno spazio, rapporto al quale è dedicato il capitolo Collezionare e selezionare . Qui resto colpito dalla seguente affermazione di Gayford: “provo verso l’opera di Duchamp quello che provi per quella di Canova [si rivolge a Gormley]. Mi sembra arida e morta, semplicemente non degna di essere guardata a lungo. Certo, era un uomo affascinante e brillante con una mente estremamente originale. Ma ho, nei suoi confronti, lo stesso atteggiamento di quel candidato alla presidenza americana che ha chiesto al suo avversario: Dov’è la bistecca?” (p. 340). 

 

È evidente che in questo caso la narrazione di Gayford gioca sull’effetto e la provocazione, legittime sperimentazioni narrative per un discorso sull’arte che moltiplica le sue forme. Chiudo il volume e tento una sintesi. 

 

Antony Gormley, Waste Man, 2006, veduta dell'installazione, Margate (Regno Unito). Opera distrutta.

 

La vita umana e la sua relazione con il luogo e con i materiali costituiscono il tema dominante della conversazione tra Gormley e Gayford, che si conclude con la riproduzione fotografica di due opere dell’artista: Waste Man e Another Place. Entrambe sono state concepite da Gormley per stimolare un atteggiamento critico e partecipativo, la prima portando l’attenzione sull’ambiente, la seconda coinvolgendo gli abitanti di una città della contea del Kent. Waste Man è una figura umana gigantesca composta da rifiuti raccolti dagli abitanti del luogo e assemblati con l’aiuto di alcuni rifugiati in attesa di permesso. Data alle fiamme al tramonto, l’opera ricorda i falò nei riti di passaggio ancora in uso nell’Europa continentale e i fantocci di Guy Fawkes dati alle fiamme ogni anno il 5 novembre durante la Bonfire Night. 

 

 

Come si diceva, in Plasmare il mondo si avverte non solo l’eco dell’approccio antropologico di Belting, ma anche di quello iconologico di Mitchell. Le idee di Gormley e di Gayford sembrano essersi date appuntamento con quelle di Mitchell in un passo tratto da un suo articolo pubblicato nel 2005: “L’uomo crea sculture (e dei) nel mondo creando immagini di se stesso e di altre creature” (There are no Visual Media in The Journal of Visual Culture 4.2, p. 265). Si sono date appuntamento nel 2005, in un tempo che volge in direzione contraria a quella della storia. 

Oplà!

 

Un’analoga distorsione del tempo si verifica anche nel modello storiografico di Vasari. L’idea di un vertice, di un punto d’arrivo raggiunto dall’arte classica prima della sua decadenza e successiva fine, trova la sua matrice nella storiografia ellenistica dell’arte trasmessa da citazioni e compendi di epoca successiva: la Naturalis Historia di Plinio e il De Architectura di Vitruvio. Lo stesso modello viene codificato da Vasari, adattandolo alla sua invenzione di un Rinascimento fiorentino. Questo adattamento porta all’interno del modello una distorsione del tempo, che confligge con l’idea stessa di uno sviluppo progressivo e parabolico dell’arte. Questo confliggere assegna all’opera di Vasari una inaspettata attualità. Vasari inventa il Rinascimento come storia fiorentina perché era allievo di Michelangelo, indirizzando di conseguenza molto del Manierismo: ristruttura il passato gettando un ponte verso il futuro. L’interpolazione di tempi diversi modifica il nostro rapporto con la storia, paradossalmente dentro un modello storiografico di matrice ellenistica da rivalutare. Das Ende der Kunstgeschichte?

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