Pomella: Moro e il romanzo di 3 minuti
Andrea Pomella, a scanso di equivoci, ha inteso disporre intorno a questo suo bel romanzo (Il dio disarmato, Einaudi, 2022) un “anello di protezione”, per usare il linguaggio delle scorte.
La narrazione vera e propria è infatti preceduta da una mail dove lo scrittore dichiara di stare lavorando a un'opera che tratta del rapimento di Aldo Moro, e precisamente dei tre fatidici minuti in cui si svolse l'agguato.
Inoltre, aggiunge, vi si racconta delle otto ore di vita di Moro che precedettero l'agguato stesso. I suoi gesti, le sue paure, i suoi presagi e le memorie, nonché le abitudini, le piccole manie e così via. Questa linea narrativa primaria è intersecata da altre che ruotano intorno a eventi vissuti dai terroristi responsabili dell'azione, dagli uomini della scorta, dai testimoni presenti sulla scena di quella lontana mattina del sedici marzo 1978 e inoltre da trascrizioni di documenti filmati dell'epoca o di brani giornalistici in relazione più o meno diretta con i fatti raccontati. Anche il narratore si riserva, e questo lo anticipiamo noi, di inserire nel corpo del testo suoi interventi diretti.
La direzione del racconto, aggiungiamo anche questo, è attraversata di continuo da quelle che, ai tempi in cui era molto di moda Gérard Genette, si denominavano analessi e prolessi, ossia, più alla buona, anticipazioni e posticipazioni. Ciò che rende il racconto stesso assai vivace, avvincente e per nulla scontato.
Il fatto, infine, che questa mail, indirizzata a Mario Moretti, considerato il capo dell'operazione, sia ritornata indietro al mittente, ci pare significativo. È come se Pomella dicesse: tutto ciò parte dall'io e ritorna all'io: non so se raggiungerà un destinatario.
L'anello di protezione, schierato a difesa del testo, si completa poi con una nota conclusiva dell'autore, dove, a illustrare il senso del romanzo appena letto, ci si trova di fronte a un noto passo manzoniano, ricavato dalla Lettera al signor Chauvet, e precisamente quello dove agli scrittori che si misurano con argomenti storici viene affidato il compito di indagare ciò che la Storia di solito passa sotto silenzio, ossia sentimenti, discorsi, passioni; in una parola: tutto ciò che rende i fatti storici esperienze umane, emozionanti, palpitanti.
Quindi questo non è, fortunatamente, l'ennesimo libro sul “caso Moro”. (D'altronde, cosa c'è di più orrendo che diventare un “caso”?). Non è il centesimo o millesimo o milionesimo tentativo di ricostruzione di quei terrificanti cinquantacinque giorni, che mescolarono inestricabilmente farsa e tragedia. Non intende dimostrare niente. Non vuole scoprire misteri, né ipotetici collegamenti con servizi segreti americani, inglesi, russi, israeliani, cecoslovacchi, bulgari, francesi o tedeschi: né dell'Est, né dell'Ovest.
Lascia, se del caso, che l'enigma s'illumini da sé, qualora ne sia capace.
Una volta chiarito a grandi linee il senso generale del testo, cerchiamo di sondarne alcune dimensioni.
Subito, all'inizio, troviamo un testimone della scena, uno studente di matematica che deve prendere l'autobus in via Fani e assiste al rapimento.
Ciò che accade alle ore 9.02 di quel 16 marzo 1978, per lui, continua ad accadere.
Lo studente si sente preso da un incantesimo. Dentro l'incantesimo il tempo non esiste allo stesso modo che fuori (p.15).
La stessa formula, con parole pressoché identiche è ripetuta a p.206, verso la fine del romanzo; solo che qui è riferita a Moro, al presidente che, sul sedile della 130, riapre gli occhi dopo la sparatoria.
E analoga formula si applica anche al narratore stesso, allorché si era ritrovato ad assistere alle riprese di un film su Moro, sempre lì, in via Fani, all'incrocio con via Stresa; era parso pure a lui di essere assorbito da un incantesimo, da un tempo differente da quello storico.
Questo è un punto qualificante.
Il dio disarmato è, anche, un romanzo sullo scarto tra tempi diversi, su una diversa modalità di percezione temporale.
Non c'è solo quest'opposizione tra tempo dell'incantesimo (o sua abolizione) e tempo della realtà.
C'è l'opposizione tra il tempo dei brigatisti e il tempo degli agenti della scorta di Moro, e Moro stesso. Dato che i brigatisti, gli aggressori, abitano un tempo anteriore a quello degli aggrediti. Chi attacca, si dice, ha tre secondi di vantaggio su chi si difende. È il vantaggio dell'intenzione, o della sorpresa.
Ma anche lo scrittore è diviso tra due tempi: quello del libro, della scrittura e quello della vita che muta.
Moro stesso, nel corso delle sue lezioni universitarie, ammoniva sempre i suoi studenti a tener conto di un'altra grande distinzione: quella tra tempo ed eterno. Dal momento che la personalità umana è fondata su un'innegabile unità in cui il tempo e il destino eterno sono indissolubili, ogni esperienza di vita va inserita non solo nel tempo storico, ma anche, e più, nell'assoluto e nell'eterno.
Oltretutto, il presidente, in queste pagine, è stato sorvegliato in una vera e propria “caverna del tempo” (p.52), all'interno della quale non è riuscito a portare a termine nulla, in queste otto ore di pensieri, memorie, presagi, ansie. E, dopo l'agguato, dentro la macchina crivellata di colpi, piena di frantumi di vetro, prima d'esser “prelevato” dai rapitori, si sente svanire in “una sacca nera del tempo”, dove non è più uomo politico, professore, padre, marito. Non è che un corpo vivo, e null'altro.
Ma anche durante quelle lunghe ore precedenti l'attacco, chiuso nel vasto appartamento di via del Forte trionfale, non era stato che “un dio disarmato”, serrato nell’“antro della grotta” (p.118), preda delle sue angosce e dell'indecisione, lontano dal potere e vicino alla sua semplice, “disadorna umanità”.
Si sentiva esausto, nel corso di quelle ore insonni notturne, “come se avesse vissuto dieci vite” (p.81).
E in effetti, il pensiero dell'amatissimo nipotino Luca e quello del figlio Giovanni, di cui stava aspettando il rientro a casa, lo riportano a vivere sia la vita di un bambino (“come fosse un bambino fra le ante di un armadio”), sia a rivivere sue esperienze lontane di ragazzo, con le stesse “irrazionalità” di suo figlio e addirittura si rivede piangere la morte di suo padre. Ma non solo ritorna bambino e ragazzo, il presidente, ma per certi versi si sente anche “come un matematico” (un po' come il giovane testimone con cui si apre il libro), sull'orlo di comprendere la natura segreta dei fenomeni. Ma questa comprensione gli sfugge. Gli sfugge sempre. Così come continua a sfuggirgli irreparabilmente il ricordo di un sogno che ha appena fatto in uno dei rari momenti di assopimento.
Questo fantasma di un sogno è il basso continuo dell'intero volume.
Il presidente non ne viene mai a capo. Se non, incredibilmente, solo alla fine, nello shock del momento in cui ha perduto tutto. Ed è un sogno che ha che fare con i cani (altra presenza inquietante che affiora in vari punti salienti del testo), e con il principe Camillo Borghese, sposo di Paolina Bonaparte, a cui risale il toponimo della Camilluccia. E ha a che fare con le “nere riserve di rabbia” di una poesia di Luzi di quel periodo, fine anni Settanta, e con il cieco impeto di una violenza tribale. Ma non vogliamo rovinare l'effetto al lettore.
Vogliamo però segnalargli, se possiamo, una di quelle pagine che Contini avrebbe titolate di “perfectae”; e non solo o non tanto per la sua tenuta stilistica assoluta, ma anche per il suo valore di indicazione generale. È la pagina 162.
Moro è in macchina. Nella 130 blu. Fissa le spalle dei due uomini davanti a lui. Il caposcorta Leonardi e il guidatore Ricci.
C'è una parte del corpo degli individui che lo commuove, è quella che corrisponde alla prima vertebra cervicale. Lo colpisce quella piazzola di pelle nuda che è il cuore della nostra vulnerabilità. Lì la carne è più tenera. Lì può leggere la paura incisa sui loro corpi. Non una paura consapevole, ma fisica.
Qui possiamo leggere il particolare realismo che presiede alla nascita di questo romanzo di Pomella, e che non è, ci pare, come lui vuole nella mail a Moretti, “realismo traumatico”, bensì, a nostro avviso un “realismo creaturale”, quant'altri mai. Davvero nel segno di quell'uguaglianza degli esseri umani non di fronte alla legge o altra istituzione, ma di fronte alla morte, alla caducità, alla fragilità della carne. Davvero nel senso auerbachiano di uguaglianza nella “decadenza creaturale davanti a Dio”.