Rabbia americana
Per fare mente locale, vale la pena partire dal video che Luke Mogelson gira durante l'assalto a Capitol Hill. Il 6 gennaio 2021, il giornalista del New Yorker si accoda ai sostenitori di Trump e armato di cellulare documenta la brutalità e la follia del giorno che sconvolge l'America. Non è il suo primo incontro con la galassia dell'alt-right di cui nei mesi che precedono le presidenziali è diventato uno degli osservatori più attenti e quelle scene hanno il gusto amaro della profezia che si autoavvera – una conferma di cui nessuno sentiva il bisogno.
La traiettoria che conduce ai fatti di Washington è ora al centro del suo nuovo libro, La tempesta è qui, in cui ripercorre il viaggio che nel 2020 – mentre la pandemia dilaga e la protesta esplode – lo vede attraversare l'America per mapparne inquietudini, tensioni e punti di rottura. Da poco in italiano per la nuova casa editrice Orville press (trad. Francesco Pacifico, pp. 367), il volume, che attinge alle corrispondenze uscite a suo tempo sul New Yorker, è al tempo stesso la cronistoria di un paese travolto dalle sue pulsioni più profonde e autodistruttive e il fermo immagine di una presa di coscienza troppo a lungo rinviata.
Quando a Washington la violenza attacca il cuore storico della democrazia statunitense, il mondo assiste incredulo e l'intero paese si ferma con il fiato sospeso. Quel giorno due Americhe si guardano allo specchio e non si riconoscono. Eppure, scrive Mogelson, l'assalto al Campidoglio "è l'apoteosi prevedibile di un fermento che ribolliva da mesi". È un fiume di rabbia che straripa travolgendo tutto ciò che trova sul suo percorso e se qualcuno l'aveva visto arrivare era lui, da mesi inviato dal fronte di quello scontento.
Luke Mogelson è uno dei reporter di punta della sua generazione. È stato corrispondente dall'Irak, dall'Afghanistan, dall'Africa, dalla Siria e sceglie di lasciare Parigi, dove segue le manifestazioni dei Gilet gialli, per coprire il campo di battaglia che mai aveva immaginato – quello che strazia il suo paese.
Manca da tempo dagli Stati Uniti e vista dall'Europa la situazione è sconvolgente. Il virus ha ingranato la sua marcia trionfale e la politica si è impadronita dell'emergenza sanitaria. I negazionismi e le teorie della cospirazione impazzano, Trump soffia sul fuoco e la frustrazione monta in un movimento antigovernativo e antidemocratico. "Parlare di guerra, rivoluzione e addirittura apocalisse – commenta Mogelson – è entrato a fare parte della vita quotidiana".
Il suo itinerario prende il via dal nord. Prima tappa, la bucolica cittadina di Owosso, in Michigan. Qui il barbiere Karl Manke, 77 anni, si è ribellato alle misure anti-Covid che considera "un'oppressione governativa". Ha riaperto bottega ed è diventato all'istante il nuovo eroe della destra. Milizie armate accorrono a presidiare il negozio contro intrusioni poliziesche, sostenitori e clienti fioccano e i media non sono da meno. Lui taglia capelli, filosofeggia e rilascia interviste.
È il personaggio-simbolo di un'insofferenza che cresce a vista d'occhio. Ad aprile migliaia di veicoli convergono a ripetizioni sulla capitale Lansing contro il lockdown e le restrizioni poste dalla governatrice democratica Gretchen Whitmer. In un presagio inquietante dell'attacco a Capitol Hill, uomini armati di fucili d'assalto fanno irruzione nella sede del governo. Withmer è minacciata di rapimento, gli episodi di violenza si moltiplicano e le manifestazioni valicano i confini dello stato.
La fermata successiva è Minneapolis, il nuovo epicentro della crisi. Qui il 31 maggio George Floyd, afroamericano, è assassinato dalla polizia. Le immagini della sua morte, con il poliziotto Derek Chauvin che per nove interminabili minuti lo blocca a terra premendogli il ginocchio sul collo, sconvolgono l'opinione pubblica. La protesta di Black Lives Matter contro gli abusi polizieschi divampa e presto si allarga al resto del paese con scontri furibondi e scene di guerriglia urbana. È poi la volta di Portland, Oregon, dove gli scontri fra milizie di estrema destra e antifascisti raggiungono livelli drammatici con altre morti insensate e devastazioni. Nove mesi dopo il viaggio si conclude a Washington, dove il 6 gennaio, dopo il comizio di Trump, una folla inferocita devasta il Campidoglio contestando la vittoria democratica alle presidenziali.
La tempesta è qui restituisce quel tempo frenetico in un intreccio di voci e volti, senza scivolare nel moralismo o nei catastrofismi. Pagina dopo pagina, fra manifestazioni, caffè e negozi, prende forma la costellazione dell'alt-right fitta di sigle, gruppi, gruppuscoli – i Proud Boys celebri dopo l'esortazione di Trump, "Stand back, stand by", gli Oath Keepers, i Three Percenters, gli apocalittici Boogaloo Bois, Infowars di Steve Bannon, i complottisti di QAnon, America First, i Patriots, i neonazisti, il famigerato Ku Klux Klan e chi più ne ha più ne metta.
A tenerli insieme è il collante dell'odio: il razzismo, i suprematismi, la fobia della sinistra radicale, le paranoie del complotto, l'intolleranza alle ingerenze del governo centrale. Uno stato d'animo dominato dal senso di una catastrofe incombente, dalla paura, da un'animosità che invoca senza ritegno lo spettro della guerra civile.
"Il virus non c'entra niente", spiega a Mogelson un pensionato durante una manifestazione antilockdown in cui molti mettono l'obbligo di mascherina sullo stesso piano dei lager. " È che vogliono toglierci la libertà e controllarci. Se non li fermiamo adesso non ci restituiranno mai le nostre libertà". "C'è solo da premere il grilletto", conclude. "Vedrai. Stiamo arrivando al punto in cui la gente dice basta".
Più degli slogan e delle rivendicazioni, a spingerli sono una ricerca di identità e un protagonismo che appartengono alla fede più che alla politica. La rapida ascesa di un movimento come QAnon è simile a quella fulminea di Isis perché si basa sulla stessa spinta, scrive Mogelson che a lungo ha seguito il fenomeno dal Medio Oriente. È "un anelito spirituale dei fedeli per i tempi ultimi".
"QAnon e Isis non offrono solo la prospettiva di vivere l'apocalisse, promettono qualcosa di ancora più straordinario: che chi li segue può contribuire a scatenarla. Sono accelerazionisti, come i Boogaloo Bois". Basta ricondurla alla storia e diventa meno esotica di quanto sembra: una versione aggiornata del "Grande risveglio" – la tradizione di rinascita spirituale così cara allo spirito patriottico americano.
Alla resa dei conti, le strampalate teorie della cospirazione che proliferano sui social portano in scena l'eterna lotta del bene contro il male che anima i fondamentalismi. L'idea di QAnon che una colonia di alieni abbia infiltrato le principali istituzioni americane, per dire. La fola dei lucertoloni mutanti che avrebbero infiltrato il pianeta. La certezza, modellata sull'accusa antisemita di omicidio rituale, che gli avversari politici siano satanisti, cannibali e pedofili che rapiscono i bambini per torturarli e ricavare dal loro sangue l'adenocromo – elisir di lunga vita meravigliosa. Se così vanno le cose, ribellarsi è il dovere di ogni patriota. "Molti rivoltosi del 6 gennaio erano convinti di agire per autodifesa", scrive Mogelson.
Verrebbe da liquidarla con uno sberleffo e un'alzata di spalle. Se non fosse che c'è poco da ridere. "Dal giorno dell'inaugurazione di Trump, ai terroristi di destra si potevano ricondurre 140 episodi di violenza; ai terroristi di sinistra, una decina", scrive Mogelson. E per quanto sgangherato l'attacco a Capitol Hill è di fatto un tentativo di colpo di stato.
Due anni dopo, la giustizia ha fatto il suo corso e un migliaio di persone è stato incriminato per reati federali. Il grande nodo irrisolto rimane quello della politica. Senza la rete di complicità e ammiccamenti che hanno saldato Trump, parte dell'amministrazione e del partito repubblicano all'estremismo di destra, con ogni probabilità gli Stati Uniti non sarebbero precipitati nel caos. Ma a giudicare dalle prime battute delle presidenziali, quella sintonia non ha smesso di esercitare il suo richiamo e resta al centro della scena,
Un'altra questione, ancora più complessa, chiama in causa il terreno di coltura dei complottismi. La pandemia ha portato allo scoperto un disastro culturale in piena regola e chi si illude sia un'esclusiva americana farà meglio a dare un'occhiata a una recente indagine Swg. Quindici italiani su cento credono che la Terra è piatta; il 18% pensa che i rettiliani sono fra noi, hanno le sembianze di alcuni uomini politici e governano il pianeta e il 25% è convinto che i vaccini sono uno strumento per il controllo di massa attraverso il 5G. A quanto pare, il collasso non conosce confini.
L'assalto al Campidoglio, che apre e chiude il libro, esplode quest'universo agli occhi del mondo. Sono scene indimenticabili e surreali – lo sciamano di QAnon Jake Chansley con l'elmo vichingo in testa che intona il suo canto belluino dalla balconata, Joshua Black che loda il nome di Gesù nell'aula del Senato traboccante di insorti, la polizia travolta dalla folla, i bastoni e le armi, le minacce oscene.
Sono scene di guerra e così le racconta Mogelson. Eppure, nota, "Ogni guerra civile che ho raccontato da reporter aveva una base reale: reali le richieste, reale l'oppressione, reali le violazioni dei diritti. Quando chiedevo a chi la combatteva perché rischiasse la vita, quasi sempre ottenevo risposte concrete e razionali. [...] Ma se dovesse deflagrare la violenza su larga scala negli Stati Uniti sarebbe qualcosa di molto diverso, una guerra alimentata non dai torti subiti, ma da un'allucinazione".
Se è un'allucinazione è molto reale. Questa è la faccia estrema di quell'America che nel 2016 la grande stampa e gli intellettuali hanno scelto di ignorare, ritrovandosi poi in piena catastrofe emotiva con l'elezione di Trump. L'America bianca, rurale. Quella degli stati repubblicani, dove il reddito stagna, l'educazione annaspa e la povertà è così diffusa che non fa più notizia. L'America della grande rabbia, abbarbicata alla nostalgia, ai risentimenti e a un senso abissale di perdita. Trump ha saputo manovrare questo scontento ma non ha inventato niente. Era già tutto lì e lì rimane. Un'America a due velocità che prima o poi andrà di nuovo in corto circuito.