Cronache dal secolo breve / Realismo socialista in stile pin up

19 Aprile 2016

Nell’Unione Sovietica degli anni Settanta, ancora totalmente e indiscutibilmente socialista, si sviluppò una corrente artistica che, nei decenni successivi, sarebbe entrata nella storia dell’arte e del costume con l’etichetta di Sots-Art. Sots era l’abbreviazione dell’aggettivo socialista che, nel periodo staliniano, aveva caratterizzato l’arte in abbinamento al sostantivo realizm: il ben noto metodo detto realismo socialista che dal fronte pittorico si sarebbe dovuto estendere fino a coinvolgere ogni forma di produzione culturale. Art era una provocatoria citazione in inglese che rimandava all’oltreoceano, al mondo altro, agli amici-nemici statunitensi. Fu un fenomeno che nacque per pochi e tra pochi. Artisti ancora non illustri che per se stessi e per i propri amici realizzavano opere in contrasto con i dettami del canone ufficiale, prendendo a modello proprio i prototipi real-socialisti, decostruendoli e reinterpretandoli in chiave satirico-ironica. Scopo fondamentale di questi artisti era svelare l’inganno ideologico, dimostrare di averlo compreso e di non accettare di caderci ancora. Riconoscere il vuoto che stava dietro la retorica staliniana, il surplus di dottrina che aveva colmato la vita del Paese e la consapevolezza che i grandi pittori del periodo altro non avessero fatto che apporre la propria firma su tavole già concepite e realizzate dall’ideologia dominante e debordante. Nacquero così le mordaci opere della serie Realismo Socialista nostalgico di Vitalij Komar e Aleksandr Melamid, le lapidarie rivisitazioni dei dépliant e degli slogan sovietici di Erik Bulatov, le graffianti composizioni di Leonid Sokov, per citare solo alcuni tra i maggiori rappresentanti del movimento che sarebbe poi stato esportato, assieme a svariati dei suoi fautori, negli Stati Uniti dove avrebbe trovato riscontri e successi. Fino a essere accostato alla Pop Art americana che, in parallelo ma all’insaputa dei colleghi sovietici, aveva denunciato negli stessi anni la sovrabbondanza non già di ideologia ma di consumismo che caratterizzava il periodo e il Paese. 

 

V. Komar e A. Melamid, Le origini del Realismo Socialista, 1982-83. 

Erik Bulatov, Gloria al PCUS!, 1980.

Aleksandr Kosolapov, Eroe, leader e Dio, 2007.

 

Nelle prime manifestazioni c’era nulla, o quasi nulla, di politico in queste opere. Prevaleva l’intento artistico o sociale, l’intenzione di affermare una consapevolezza acquisita e smontare una costruzione strategica che si era retta su basi roboanti ma inconsistenti, la volontà non tanto di abbatterla o combatterla quanto di palesarne gli artifici e i meccanismi compositivi. Col passare dei decenni, a maggior ragione dopo il crollo dell’impero, tratti di satira politica si sarebbero fatti più evidenti ma il dissenso sovietico e i suoi gesti mirati ad attaccare il regime e a segnalarne al mondo le colpe sarebbero rimasti altra cosa.

 

Il caso si protrasse fino agli anni Duemila, a URSS già caduta e rimossa dagli atlanti, arrivò a coinvolgere personaggi e realtà anche esterne al discorso sovietico, facendo dialogare tra loro miti e costruzioni mitologiche di estrazioni diverse, acquisì fama e riconoscimenti per poi passare il testimone a una serie di altri atteggiamenti sempre legati alle modalità esistenziali e artistiche del paese dei soviet. In quegli stessi anni si incrementò il fenomeno, tutt’ora esistente, della nostalgia per il passato sovietico. Inizialmente più legato alle pratiche quotidiane e alle atmosfere perdute che al regime governativo e alle sue manifestazioni, ma fin dalle prime mosse complesso e articolato, oggi non assente addirittura dal fronte politico. In questo filone, con un occhio attento anche ai predecessori sots-artisti, si inserì dalla metà degli anni Duemila Valerij Barykin, un illustratore nato nel 1966 nella cittadina provinciale di Ivanovo e diplomato a Nižnij Novgorod (la vecchia città chiusa di Gor’kij, secondo la toponomastica sovietica). All’attenzione per il passato prossimo del Paese e suo personale, “vecchio” abbastanza per aver sperimentato e conosciuto le caratteristiche della vita in pieno socialismo, accostò a questi atteggiamenti emotivi la passione per una specifica arte americana degli anni Trenta-Sessanta, quella che produsse migliaia di pin-up, le belle ragazze un po’ scollacciate che ornavano con le loro prosperose e ammiccanti forme negozi, officine, finestrini di camion.

 

 

Gil Elvgren, Pin up americane.

 

Pinned up, pensate per essere appunto appuntate con uno spillo su pareti e altre superfici idonee, immortalate in faccende domestiche e quotidiane, più fantasiosamente abbandonate in pose non lascive ma sessualmente eloquenti, fino ai più recenti inserimenti nella pubblicità che avrebbero conferito al genere una visibilità ancora maggiore. Artisti come Gil Elvgren, Art Frahm, Harry Ekman, uniti al grande illustratore americano Norman Rockwell, ispirarono a Barykin un’ulteriore tappa nel dialogo della contemporaneità russa con il realismo socialista sovietico.

 

In particolare, non tanto con i quadri di gigantesche dimensioni e tematiche ispirate a realizzazioni monumentali ma con la ricca e straordinaria produzione di cartellonistica di agitazione sociale e propaganda. L’artista russo, realizzando al computer le sue nuove narrazioni per immagini, riesamina quelle che nel passato socialista coinvolgevano ogni possibile sfera dell’esistenza e aggiunge loro un tocco di frizzante erotismo e di scanzonatezza. Quell’ironia e quella leggerezza che erano stati totalmente assenti non già nello spirito del popolo bensì nella produzione iconografica ufficiale improntata al benpensantismo, alla morale, all’esempio edificante e ammirevole. Abbiamo a che fare, in questo caso, con una rilettura più che con una decostruzione. Con l’aggiunta di quel wit che era forse presente nel pensiero o nello sguardo di molti ma che non poteva trovare riscontri concreti, iconologici, cinematografici o altro. Immagini e situazioni che chiunque abbia vissuto l’epoca sovietica ha bene impresse negli occhi e nella mente trovano una nuova vita nei manifesti di Valerij Barykin. A prima vista pare davvero di trovarsi di fronte a opere realizzate nello stile del socialismo reale: la narratività delle immagini, i colori, le situazioni balzano agli occhi ed evocano quei tempi. A uno sguardo più attento emergono e stupiscono, invece, dettagli che con quel mondo nulla avevano avuto a che fare. Donne lavoratrici, severe e impegnate nelle illustrazioni formali, spesso concentrate e mascoline, conquistano un riscatto tardivo ma generoso. Le divise si slacciano, le gonne salgono, inauditi capi di biancheria occhieggiano, le forme prorompono mentre lo sguardo maschile, solitamente castigato e controllato dal senso del dovere e dello stato, si ammorbidisce e rilassa dimostrando pieno apprezzamento per quelle lusinghe troppo a lungo negate. Immancabile è l’ironia nei confronti della rigidità sovietica, dei suoi slogan e dell’improbabilità delle situazioni che manifesti e cartelloni moltiplicavano all’infinito, sottolineata da una nuova forma di inverosimiglianza presa in prestito dall’arte americana delle pin up e tradotta con maestria ed eleganza in linguaggio figurativo sovietico. I nuovi accostamenti situazionali mettono in risalto più che mai la dottrina didascalica del buon esempio, la pesantezza dei modelli di mondo offerti da ogni manifestazione della cultura visuale, ai quali un' inusitata frivolezza conferisce performativamente nuovi significati e gusti. 

Prendiamo in esame alcuni esempi tra i più originali.

 

V. Barykin, La casseruola dei miracoli.

 
Tra le righe di questo poster pseudo pubblicitario di Barykin, dedicato al sotejnik (tegame di nuova generazione che offre prestazioni da favola), emergono evocazioni del zastol’e (convivialità) russo, delle pubblicità commerciali d’epoca staliniana (fig. 9), delle allegre quanto gremite tavolate nei ristretti appartamenti sovietici (fig. 10), delle immagini scolpite nella mente di tutti del caos che regnava nelle cucine degli appartamenti in coabitazione (fig. 11) e, non ultimi, tratti precipui, sapientemente tradotti in codici comunicativi sovietici, delle illustrazioni di Norman Rockwell per il “Saturday Evening Post”, in particolare il pranzo del Ringraziamento con il suo moraleggiante sottotitolo, Freedom from Want (fig. 12).

 

Pubblicità per i pel’meni (ravioli russi), 1938. Anche se il vero protagonista è lo scintillante bollitore elettrico

 

Tavolata sovietica. 

 

Cucina di un appartamento comunitario sovietico

 

Norman Rockwell, Thanksgiving (Freedom from Want), 1943

 

Come risultato del collage di tante citazioni ecco una madre giovane e piacente, ammirata dal marito (e forse anche dal suocero) che regge il tegame dei miracoli pur sullo sfondo di tutti quegli ammennicoli e di quelle pratiche che avevano causato la disperazione dei primi sobri e rigorosi anni di regime sovietico: bucato steso ad asciugare in cucina, cibo servito e consumato accanto all’acqua sporca, filistea gabbia del canarino appesa al soffitto, insomma quel byt (modo di vivere) borghesuccio-sovietico che neppure la rivoluzione era stata capace di estirpare e che, col beneplacito di non pochi leader (Stalin in testa), si sarebbe riprodotto all’infinito nei decenni successivi di regime.

 

V. Barykin, Serviamo decorosamente ogni cliente! 

 

Rivisitazione di un famoso poster del 1948 in cui lo stesso slogan era abbinato a ben altra immagine. Non delle più tetre, onestamente, ma dove la cameriera era castamente abbigliata e non suscitava reazione alcuna tra i clienti, né quelli maschili né quelli femminili, al di là della soddisfazione per un lavoro compiuto in maniera impeccabile.

 

G. Šubin, Serviamo decorosamente ogni cliente!, 1948

 

Sembrano essere lo sguardo e la posizione maschile a essere messi più in gioco nei lavori di Barykin, come se si desse per scontato che era l’universo virile a essere il più represso e disabituato a giochi di seduzione e ammiccamento. I tre maschi raffigurati nel manifesto paiono essere stupiti e un po’ instupiditi, prima ancora che coinvolti o eccitati. Spontanea e fresca invece è la disinvoltura della ragazza, mentre assai più convenzionale e stereotipata si connota la reazione infastidita della moglie-madre sussiegosa. 

In altri casi l’artista si limita a rivisitazioni meno elaborate, sempre suggerendo casistiche che nessuno può escludere fossero state esistenti ai tempi dei soviet, ma che semplicemente non comparivano nella tradizione iconografico-rappresentativa della realtà e parevano essere, vista la dominanza di quest’ultima e le influenze che esercitava sull’immaginario collettivo, totalmente assenti dall’esperienza di vita. 

 

V. Barykin, Cacciatore, non spaventare le donne! 

VI. Govorkov, Colcosiano, proteggi i tuoi campi dai nemici di classe, dai ladri e dagli oziosi che fanno scempio del raccolto socialista, 1933. 

 

Il cambio della didascalia suggerisce i mutamenti socio-politici avvenuti nel corso della storia, ammicca al tragico passato staliniano della collettivizzazione delle terre e ne prende le distanze sostituendo l’oggetto della scoperta tra le rigogliose spighe di grano. Non più il sabotatore che saccheggia il raccolto socialista ma un' avvenente fanciulla che si appresta a prendere il sole au naturel.

 

Anche al cinema sovietico si ispira Barykin. La scena culto di una famosa commedia del 1965, Navaždenie (Ossessione) di Leonid Gajdaj, vedeva un ragazzo e una ragazza impegnati nella preparazione di un esame. Lui scorge lei, anzi i suoi preziosi appunti, su un mezzo di trasporto, le si attacca seguendola fino a casa. In casa, in camera dove il caldo fa sì che si spoglino entrambi, finiscono addirittura sdraiati uno accanto all’altra sul divano, ma il quaderno degli appunti resta protagonista e lo studio la vince, sarcasticamente già all’epoca, sui piaceri della carne. 

 

  Fotogramma del film Ossessione di L. Gajdaj, 1965

 

V. Barykin, Nelle ore di lavoro o di tempo libero, il libro è la miglior compagnia! 

 

Nella rivisitazione di Barykin la fanciulla, che legge un giornale di moda in biblioteca, sarebbe ben più interessata della sua coetanea d’epoca a stabilire un altro genere di contatto con il suo vicino di banco, ma questo nerd è in preda all’estasi della fantascienza e neppure si accorge della coetanea con i seni tondi e freschi come la mela a cui lei ha già dato, significativamente, un fatidico ma inutile morso.

I casi, a mio parere, più singolari sono però quelli in cui è una situazione logistico-comportamentale autenticamente sovietica a essere rivisitata. Ne propongo uno tra i molti.

 

V. Barykin, A Mosca manca poco

 

Il rimando è alla carrozza letto più economica dei treni sovietici a lunga percorrenza: il vagone platskartnyj, quello in cui le spartane cuccette erano allineate per tutta la lunghezza della vettura ferroviaria senza particolari separazioni, il tutto in allegra e, talora, invasiva promiscuità.

 

Fotografia di un vagone platskartnyj. La didascalia lo definisce un appartamento in coabitazione sulle ruote e spiega che si trattava del più popolare mezzo di trasporto sovietico. Un viaggio che implicava un rapporto molto diretto con i compagni e che, in caso di giornate di calura, si trasformava in una vera messa alla prova dei passeggeri. 

 

Nella rilettura di Barykin sono presenti tutti gli oggetti di culto classici appartenenti alla dimensione del viaggio in treno: il porta bicchiere che conteneva il boccale con il tè, la bottiglia di birra, cibo in varie forme, il pacchetto di sigarette Kosmos, che colloca idealmente l’azione tra gli anni Settanta e gli Ottanta. Passeggeri in tuta da viaggio, non troppo discinti per non eccedere, e lei: la ragazza sexy, giovane, con improbabili, per quei tempi, calze e giarrettiere eleganti e sofisticate, che si rifà il trucco all’approssimarsi dell’arrivo nella capitale ed esibisce generosamente gambe e seno. E ancora loro, gli sguardi dei maschi di ogni generazione ed etnia sovietica, che apprezzano e approvano.

 

Concludo con un ultimo riferimento al mondo dei viaggi, così popolare in URSS viste le sconfinate dimensioni del paese. 

 

V. Barykin, Volate con gli aerei dell’Aeroflot! 

 

La compagnia di bandiera dell’Unione Sovietica aveva pubblicato una considerevole serie di manifesti pubblicitari. Molti incentrati sull’accoglienza riservata in volo ai passeggeri. Come sempre il riscontro reale si distaccava notevolmente dalla rappresentazione promozionale, ma questo riguarda ogni paese, non solamente l’ex URSS. Anzi, questa circostanza permette all’artista di giocare ulteriormente sull’imprevedibilità e aggiungere nuove tessere di immaginazione al suo mosaico.

 

Manifesto pubblicitario della compagnia aerea sovietica Aeroflot

 

Ho scelto due esempi ufficiali da cui si evince come l’aspetto predominante del messaggio reclamistico non stesse nella seduzione delle assistenti di volo ma nella varietà e abbondanza di cibo offerto ai passeggeri. Le due hostess ritratte sono entrambe vestite con divise piuttosto mortificanti, assai accollate e non certo di particolare avvenenza. Colpisce, nella figura 23, il sorriso che già illuminava il volto del passeggero maschile e che, anticipando Barykin, pareva più interessato a un eye contact con la pur scialba cameriera che alla profusione di formaggi ostentata sul carrello.

L’artista, ovviamente, va oltre. La sua hostess guarda disinvolta in camera e sorride ammiccante anche a noi. La sua scollatura è promettente almeno quanto la scarsa lunghezza della sua gonna. La traiettoria degli sguardi maschili completa l’opera. Persino gli occhi del ragazzino, con la rossa cravatta da pioniere, sono ambiguamente in dirittura con la camicetta slacciata dell’assistente e paiono sorvolare il vassoio pensato apposta per lui: limonata Buratino (il nome sovietico di Pinocchio), gelato, tè, gli éclair al cioccolato, adorati nel Paese. I colli protesi dei due adulti trovano un ironico riscontro nell’ufficialità della scritta CCCP che appare sull’ala dell’aereo oltre il finestrino a ricordare e testimoniare dove ci si trova. 

 

Nella varietà della produzione di Barykin si inseriscono storie ispirate a figure classiche dell’immaginario erotico collettivo internazionale: infermiere, commesse, segretarie, autostoppiste, studentesse, a cui si aggiungono reinterpretazioni di topoi specificamente sovietici: operai, meccanici, tessitrici, cameriere, guardiane di porci. Ma senza che nulla di volgare o di pesantemente maschilista infici queste creazioni. L’universo femminile e quello maschile sembrano essersi alleati e diventati solidali per la riscossa e il riscatto da decenni di pruderie e di tabù. Il sorriso dell’artista, che mai si trasforma in ghigno morboso o in troppo facile doppio senso, esplicita alla luce del sole, dei colori vivaci e delle forme procaci, le proprie intenzioni. L’ironia, sempre presente, salva da ogni rischio di trivialità. 

 

La fortuna di Barykin è notevole, sia all’interno del paese che all’estero. Londra e Hong Kong hanno già ospitato sue personali, oltre a San Pietroburgo e Mosca. Fa parte dell’Unione Artisti Russi, lavora come pubblicitario, i suoi lavori sono stati esposti alla quarta biennale moscovita del 2011 e pubblicati sul numero dell’ottobre 2010 di Playboy. A differenza di suoi colleghi, nell’occhio del ciclone governativo per rappresentazioni del Paese che vengono considerate irriverenti e filo occidentali a scapito del buon nome russo, Barykin è riuscito a non inimicarsi né la censura né il pubblico dei suoi connazionali, ultimamente molto schierato sui fronti di quella che promette di trasformarsi in una nuova guerra fredda tra ovest ed est. Alcuni anni fa lo studioso di letteratura e cultura russa Andrej Zorin, docente all’Università di Oxford, aveva commentato una serie di film che riproponevano nella Russia post-sovietica momenti edulcorati o scarsamente realistici di storia del socialismo, con un giudizio che continuo a trovare geniale: “i russi mettono in scena la propria storia come avrebbero voluto che fosse mentre così non era stata”. Questa definizione può non riguardare appieno i manifesti del nostro artista, che non ha mai fatto mistero delle proprie intenzioni ludico-satiriche, ma si adatta sicuramente all’operazione di sguardo analitico sul passato che anche Barykin compie con artifici in cui la componente nostalgica, a sua stessa ammissione, non è certo assente. Il risultato è una rappresentazione intelligente e di stile rispetto a un tempo che si vagheggia senza rimpiangerlo, rinnegarlo o attaccarlo, ma riconsiderandolo con l’aggiunta di sapienti tocchi che lo ingentiliscono e lo rendono sicuramente anche più umano.

 

Per chi volesse vedere altre opere di Valerij Barykin, qui il suo sito ufficiale e la sua pagina Facebook (entrambi in lingua russa).

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